ITALIA

Delitto di “femminicidio”: tra securitarismo e retorica patriarcale
Un disegno di legge che rafforza il controllo, rivittimizza le donne ed esclude le soggettività non conformi. Il governo Meloni strumentalizza la violenza di genere perseguendo la logica punitiva
Presentato il 31 marzo 2025 e attualmente approvato in Senato, il DDL 1433 dal titolo «Femminicidio e contrasto alla violenza sulle donne» segna un nuovo punto critico nel percorso legislativo italiano sul tema della violenza di genere, presentandosi, fin dalle sue primissime battute, come l’ennesimo tentativo da parte del governo Meloni di strumentalizzare un tema prioritario al fine di rafforzare il proprio personalissimo piano securitario.
Che al governo Meloni non sia mai interessata realmente la “questione di genere” non è una novità: lo si evince banalmente dalla fin troppo spesso sbandierata retorica del “Dio, Patria, Famiglia” e dalla connessa azione politica di ritorno a un “ordine naturale”, paradossalmente tanto anacronistico quanto risonante nelle agende politiche contemporanee, non solo europee.
In linea con questa retorica, da quando si è insediato nell’ottobre del 2022, il governo Meloni ha portato avanti un chiaro progetto di smantellamento delle politiche economiche, sociali e sanitarie dei governi precedenti, i quali – anche in seguito alla ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 – avevano aumentato i fondi a sostegno del sistema antiviolenza del 156% in quasi dieci anni.
In meno di mille giorni di governo Meloni, invece – solo per citare alcuni provvedimenti – sono stati tagliati del 70% i fondi destinati alla prevenzione della violenza di genere; sono stati ridotti drasticamente i fondi pubblici per gli screening oncologici ginecologici; sono stati dirottati quelli previsti per l’educazione sessuo-affettiva verso iniziative legate alla “fertilità”; ed è stata condotta una campagna senza precedenti a sostegno delle realtà pro-life.
Inoltre, l’attuale governo è stato scandalosamente inattivo – se non apertamente ostracista – sul piano normativo nell’ambito della prevenzione alla violenza di genere. Nel corso della XIX legislatura, dei 166 emendamenti riconducibili alla questione in esame e presentati alla Camera e al Senato, solo 15 portano la firma della maggioranza.
Il silenzio assordante della propaganda: il vuoto reale dietro l’azione di governo
Già nel maggio 2023, a pochi mesi dall’insediamento, il governo Meloni aveva espresso chiaramente la propria linea in Parlamento europeo, astenendosi in massa – e in alcuni casi votando contro – sull’adesione alla Risoluzione della Convenzione di Istanbul, al fianco di Paesi come Polonia, Ungheria e Turchia, accusandola di fondarsi sull’ideologia gender.
Alla crescente richiesta europea di allineamento e in seguito a casi emblematici come il femminicidio di Giulia Cecchettin, lo stupro di gruppo a Palermo o quello di Caivano, il governo ha messo in campo una serie di risoluzioni di facciata, il cui scopo è sempre stato esclusivamente quello di accontentare il proprio elettorato.
Una sorta di “soluzioni-bandiera”, tra cui figurano il protocollo d’intesa Valditara/Giuli e il farraginoso e confusionario progetto “Educare alle relazioni”, affidato all’“esperto” Alessandro Amadori, che nel suo libro La guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere esorta a non sottovalutare mai «il male e la cattiveria insiti nelle donne».
In questo scenario si inserisce il DDL 1433: una proposta normativa dai contorni repressivi che si fonde perfettamente con la più ampia visione punitivo-securitaria già rappresentata dal Decreto Sicurezza (L. 80/2025) e dai centri di “permanenza” per migrantə irregolarə in Albania.
Ciò che salta all’occhio è la reale assenza di una volontà preventiva ed educativa legata alla violenza di genere.
In una logica tutta italiana di “mettere un semaforo dove ci scappa il morto”, invece di prevenire l’incidente educando al rispetto del convivere civile, il Ministro della Giustizia Nordio, affiancato dal Ministro dell’Interno Piantedosi e dalla Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Roccella, concentra in otto articoli tutta l’ipocrisia e la violenza che solo un governo di destra può incarnare.
Come si legge nel testo del DDL 1433, l’obiettivo dichiarato è quello di «rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne». In realtà, il disegno di legge si inserisce perfettamente nella linea escludente e repressiva che attraversa tutte le politiche del governo Meloni in tema di violenza di genere e non.
Il tentativo non è comunque nuovo a questo governo, che aveva già affrontato il tema nel 2023 con la Legge 168, nota come Legge Roccella, intitolata «Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica». La legge introduce modifiche al Codice Penale che potrebbero sembrare, a unə osservatorə inespertə, positive, ma che – come osserva Anna Maria Maugeri, Ordinaria di Diritto penale all’Università degli Studi di Catania – «strumentalizzano le ansie punitive suscitate dai crimini efferati per affermare politiche populiste e reocentriche, esemplificate tramite le logiche del “diritto penale del nemico” ».
In sostanza: «giustizia è fatta se condanna è emessa».

Il delitto di femminicidio: una legge essenzialista per una giustizia patriarcale
Degli otto articoli, sei riguardano modifiche al Codice di procedura penale in merito ai diritti informativi, di protezione e partecipazione delle vittime di reato, oltre a interventi sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. Particolarmente degni di approfondimento critico sono i restanti articoli (1 e 7), e in particolare l’art. 577-bis, che introduce il delitto di “femminicidio” come «nuova fattispecie il cui soggetto attivo può essere chiunque e il cui soggetto passivo è una donna», prevedendo l’ergastolo nei casi in cui il fatto venga commesso come atto di discriminazione o odio, o finalizzato a reprimere i diritti, la libertà o l’espressione della “personalità” della persona offesa in quanto donna.
La linea negazionista del genere e il fondamento biologico della differenza su cui si basa l’art. 577-bis rappresentano solo alcune delle incongruenze rispetto alla realtà della violenza di genere. Fondare l’incriminazione per femminicidio esclusivamente sulla discriminante del sesso biologico apre enormi crepe normative, a partire dalla gerarchizzazione delle vittime e dall’esclusione di tutte le soggettività diverse dalle donne cisgender.
In particolare, le donne trans – anche in fase di transizione di genere – non rientrerebbero nella sanzione, poiché non AFAB (Assigned Female At Birth); eppure, secondo l’Osservatorio di Non una di Meno sui femminicidi, lesbicidi e trans*cidi, i tassi di violenza contro le persone trans sono ogni anno più preoccupanti. La chiara connotazione “essenzialista” dell’articolo, oltre a rafforzare l’invisibilizzazione di soggettività già marginalizzate e discriminate, ritaglia sulle donne cisgender il ruolo della “vittima speciale”, destinataria di una protezione specifica, relegandola a una posizione di subordinazione passiva.
La madre generatrice dunque, il cui corpo fecondo è stato tolto alla patria e che reclama una vendetta giuridica degna del suo ruolo sacro.
D’altronde, porre l’accento sul sesso alla nascita e sulle differenze biologiche è da sempre terreno di caccia ideologico e politico delle destre antiabortiste, eteronormative e bi-genderizzate. Non sorprende, dunque, che il DDL 1433 sia stato formulato in totale assenza di dialogo o confronto con tutte quelle realtà e organizzazioni che da anni si occupano di violenza di genere, operando sul territorio nazionale nella gestione di centri antiviolenza e case rifugio.
Inoltre, considerare la violenza di genere come un’espressione di odio o discriminazione fondata su caratteristiche biologiche, sottintende l’ammissione implicita dell’esistenza di una sorta di “razzismo” verso le connotazioni fisiche delle donne, come se queste fossero all’origine delle violenze subite. Ma le donne non sono una razza, né un’etnia, né una categoria: e, per quanto il governo Meloni non voglia ammetterlo, la violenza contro le donne è culturale e sistemica, figlia della visione patriarcale della subalternità di genere, del machismo tossico e della cultura dello stupro.
Negando la dimensione strutturale della violenza di genere e limitandosi a parlare della “personalità” della vittima, si genera un’indeterminatezza giuridica che affida al progressismo o al conservatorismo personale dei giudici il destino del procedimento penale. Inoltre, l’assenza di un ancoraggio alla dimensione sistemica e patriarcale della violenza produrrà, nei processi, un’impasse argomentativa che favorirà l’invocazione di moventi psicologici o individuali tutti da dimostrare, aprendo ulteriormente la strada a garantismi fondati su raptus e a ulteriore vittimizzazioni secondarie.
Punire non serve: l’ergastolo e il vuoto culturale
Un’ultima riflessione va fatta rispetto alla sanzione punitiva dell’ergastolo prevista per il delitto di femminicidio introdotto dal DDL 1433.
Dal 2001 a oggi, numerosi interventi legislativi sono stati adottati, da parte di tutte le coalizioni di governo, con l’obiettivo dichiarato di arginare il fenomeno crescente della violenza di genere. Nel 2009 è stato introdotto il reato di stalking con la legge n.38/2009, seguito nel 2013 dalla legge n. 119/2013, la cosiddetta “Legge sul femminicidio”, che ha inasprito gli strumenti di controllo con misure come il braccialetto elettronico. Nel 2019, la legge n. 69/2019, nota come “Codice Rosso”, ha inserito nuove aggravanti per reati commessi in ambito relazionale o affettivo.
Ciò che emerge con chiarezza è l’inefficacia della logica esclusivamente punitiva fin qui adottata, che tenta di risolvere una questione sistemica attraverso “pezze legislative” chiaramente inefficaci. I dati parlano chiaro: secondo il ventunesimo rapporto sulle condizioni di detenzione dell’Associazione Antigone, negli ultimi trent’anni gli omicidi volontari contro uomini sono diminuiti del 75%, mentre quelli contro le donne sono rimasti pressoché invariati.
Secondo l’Osservatorio di Non Una di Meno, negli ultimi cinque anni i femminicidi riconosciuti sono stati quasi seicento — una media di uno ogni tre giorni. Più della metà degli autori erano partner o conviventi; quasi due su dieci, ex partner.
Cosa ci dicono questi numeri? Che l’inasprimento sanzionatorio, se non accompagnato da politiche educative e trasformative in grado di scardinare la logica patriarcale, non funziona. La risposta meramente penalisitca, fondata sullo spauracchio dell’ergastolo, può al massimo acquietare le spinte di vendetta di un populismo punitivo non risolutivo, intervenendo quando il danno è fatto e privilegiando una logica reattiva e non preventiva. D’altronde, il nostro ordinamento penale prevede già l’ergastolo nei casi di omicidio aggravato da vincoli familiari o affettivi, o in presenza di condotte persecutorie e di stalking.
Quello che la deriva giuridico-repressiva manca del tutto di prendere in considerazione è però la voce dellə sopravvissutə.
Chi subisce violenza di genere desidera prima di tutto che la propria voce venga ascoltata, chiede riconoscimento, chiede libertà, chiede autodeterminazione. E in uno scenario come quello attuale — con un Paese al collasso economico, segnato da una cultura patriarcale colonialista, dall’odio verso le identità non conformi e le persone migranti, dall’isolamento social, dalla precarietà lavorativa, dalla crisi dell’istruzione e della cultura e dalla corsa al riarmo — l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un pensiero punitivo che costruisca vittime a carnefici, deresponsabilizzando lo Stato.
L’immagine di copertina è di Valeria Altavilla
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