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CULT

Del nuovo inizio

A partire dal 1931, e per buona parte degli anni Trenta nel comune esilio danese, Bertolt Brecht e il suo “maestro di marxismo” Karl Korsch pensano la dialettica oltre e contro la totalità, arma proletaria per sconfiggere la sconfitta

In scena per la prima volta a Berlino, nel 1932, nel giorno del ricordo di Rosa Luxemburg (14 gennaio), la Madre di Bertolt Brecht si conclude con un canto della protagonista, Pelagia Vlassova, dedicato agli operai e ai marinai in sciopero del ’17 russo:

 

«Chi è ancora vivo, non dica: mai!

L’incrollabile crolla.

Ciò che è, non rimane.

Quando avranno parlato i dominanti

toccherà parlare ai dominati.

Chi osa dire: mai?

Da chi dipende se dura l’oppressione? Da noi.

Da chi dipende se viene infranta? Sempre da noi.

Chi fu abbattuto, si rialzi!

Chi è perduto, combatta!

Chi ha saputo la sua condizione, come si potrà

                    trattenerlo?

Poiché i vinti di oggi sono i vincitori di domani

e il mai si muta in oggi: oggi stesso!»

 

Il song divenne poi poesia, Elogio della dialettica; l’opera, tratta dal romanzo di Maksim Gor’Kij, è un «dramma didattico», esempio della «drammatica antimetafisica, materialistica, non-aristotelica», di quello che Brecht definisce «teatro epico». Teatro che non cerca l’immedesimazione dello spettatore, piuttosto «insegna allo spettatore un certo comportamento pratico che ha per mira di cambiare il mondo». D’altronde, nel Breviario di estetica teatrale (1948), Brecht chiarirà il nesso costitutivo tra il teatro epico e il materialismo dialettico. Il famoso «effetto di straniamento», che compare nel paragrafo 42 del Breviario, nel 45 è presentato come una «tecnica» che consente al teatro di utilizzare «il metodo della nuova scienza sociale». Cosa prevede, tale metodo? La società è concepita nel suo movimento, le condizioni sociali vengono intese come processi densi di contraddizioni, tutto ciò che è esiste solo in quanto si trasforma.

Ma torniamo agli inizi degli anni Trenta. Dopo aver con forza ripensato, negli anni Venti, il rapporto tra Hegel e Marx, tra l’altro in parallelo e in contemporanea con György Lukács, nel 1931 Karl Korsch scrive brevi e illuminanti tesi su Hegel. Come non smetterà di fare neanche più tardi, nel suo Karl Marx (1938), Korsch ribadisce il carattere rivoluzionario, anche se all’interno dell’orizzonte borghese, del pensiero hegeliano; soprattutto della sua dialettica. Quest’ultima è rivoluzionaria, anche formalmente, perché definisce il pensiero secondo i seguenti tratti:

 

«1) distacco dal dato immediato – rottura radicale con l’esistente, nuovo inizio;

2) principio dell’opposizione e della negazione;

3) principio del mutamento continuo e dello sviluppo – del salto qualitativo».

 

La dialettica è rivoluzionaria, così nella Fenomenologia dello spirito (1807) e fino alla Scienza della logica (18012-16), ma Hegel la tradisce. Se la nozione hegeliana di «società civile» già indica le patologie del capitalismo industriale, lo Stato, tra monarchia costituzionale e corporativismo, restaura l’ordine. La borghesia in ascesa ha preso il potere, inizia dunque la conservazione dello stesso: da progressiva si fa regressiva; al «nuovo inizio», al «salto qualitativo», si sostituisce la circolare giustificazione dell’esistente. Hegel è interprete filosofico – il migliore – tanto della borghesia rivoluzionaria quanto della restaurazione. Il materialismo di Marx e Lenin, che ha messo la dialettica sui piedi facendone nuovamente un’arma, non ha però avuto la capacità – questo l’affondo critico di Korsch nel 1931 – di dare fondazione autonoma alla prassi rivoluzionaria proletaria. Tema, questo, che sarà ripreso nel Sessantotto tedesco, da Hans-Jürgen Krahl in particolare.

Nel 1931 Korsch è già da tempo stato espulso dal Partito comunista tedesco (1926), la Germania di Weimar si avvicina alla catastrofe nazista, il mondo tutto alla Seconda Guerra. Conduce un seminario dedicato a Marx per pochi compagni, tra questi l’amico Bertolt Brecht. I due vivranno assieme anche parte dell’esilio danese. Da Brecht – come Walter Benjamin – è infatti ospitato Korsch, prima di raggiungere gli Stati Uniti. È evidente che entrambi, nel 1931, riflettono sulla sconfitta, della rivoluzione in Germania e in generale in Occidente. Pur continuando a ritenere il materialismo dialettico un’arma proletaria, cominciano a diffidare della nozione di “totalità”, che pure non solo in Lukács ma anche in Marxismo e filosofia (1923) aveva svolto una funzione decisiva. Sono gli anni danesi in cui Korsch scrive il suo Karl Marx, mentre Brecht lavora, tra le altre cose, al suo Me-ti. Libro delle svolte. Hegel è ancora, in particolare per Brecht, l’inventore del «Grande Metodo», col quale insegna che: «Le cose sono accadimenti. Gli stati sono processi. I processi sono trapassi». Ma Me-ti (ovvero Brecht) è «avverso alla costruzione di immagini del mondo troppo compiute»: si tratta di insistere, invece, sull’esperienza, sul vincolo situato che essa impone al pensiero. È Marx, secondo Korsch, a procedere in questo senso, attraverso una storicizzazione radicale delle categorie tutte e dei rapporti sociali. Se totalità esiste, è sempre storicamente determinata, la realtà quanto il pensiero di questa. Il primato della prassi, poi, qualifica un’innovativa teoria materialistica della conoscenza: «l’incondizionata mondanità, storicità, natura di classe diventano attributo non solo del contenuto conosciuto, ma della forma stessa della conoscenza», sottolinea Korsch.

Per gli amici esuli, emerge un pluralismo ontologico irriducibile, nel quale la dialettica si fa metodo di «specificazione» e di rottura nello stesso tempo. Un materialismo dialettico che si misura sempre più col pragmatismo di matrice americana, in Korsch, con un’etica spinozista della produttività, in Brecht. Comune è il rifiuto di ogni dogmatismo, graffiarsi nel mondo ruvido è la regola. Il «Grande Metodo» diviene allora «tecnica del sé», stile d’esistenza radicale. Dice Me-ti, prima di interrompere il suo “viaggio”:

 

«È vantaggioso non soltanto pensare mediante il Grande Metodo, ma anche vivere mediante il Grande Metodo. Non essere d’accordo con se stessi, mettersi in crisi, cambiare i piccoli mutamenti in grandi mutamenti, tutto ciò non lo si può solo osservare, ma anche fare».

 

Immagine di copertina: “Guerra” di Otto Dix