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CULT

Das dürre Nichts. Hegel e Lukács

Nel 1923 viene pubblicato “Storia e coscienza di classe”, capolavoro che segnerà il Novecento tutto, attirando da subito contro l’autore la violenta disapprovazione della Russia che si fa stalinista

Il fulcro della relazione fra Hegel e Lukács consiste nell’interpretazione in senso marxista del nesso che fonda l’ontologia hegeliana, vale a dire l’identità di soggetto e oggetto.

Se già nei Taccuini di Heidelberg (1910-1913) e poi in Teoria del romanzo (1914-1915) il Lukács non-marxista aveva guardato alla hegeliana storicizzazione degli ordini estetici (la centrale distinzione fra epica e romanzo), è a partire da Storia e coscienza di classe (1923) che l’armamentario teorico hegeliano, e in particolare quello della Fenomenologia dello spirito (testo «essenzialmente più storico» che la Scienza della logica), invade la riflessione dell’ungherese. Se ne ha un chiaro riscontro nel modo in cui Lukács trasforma il proprio concetto di totalità, passando da una visione noumenica e meramente postulativa di questa (Lukács in seguito la chiamerà «formale», cioè postulata al di fuori della mediazione del contesto storico e dell’operato della prassi) ad una portata a intendere la totalità come comprensione della dialettica fra pensiero e essere nel quadro della storia: una dinamica storico-filosofica che per lui perdura intatta all’interno del marxismo. La dialettica appare ora a Lukács come la via per superare quella contrapposizione fra fenomenico e noumenico (il come arrivare «all’essenza delle cose») che aveva caratterizzato il suo lavoro precedente. È per questa via che Hegel emerge come colui che per primo è riuscito a pensare il pensiero non come determinazione di un intelletto autonomo, ma come determinato dal reale che poi determina a sua volta. È grazie alla dialettica hegeliana, secondo Lukács, che il pensiero passa a darsi come sintomo e sedimentazione delle esperienze storico-sociali, avvicinando storia e pensiero, ed eliminando quelle ontologie utopiche che tendevano a darsi come realizzabili nella sfera della pura speculazione filosofica, invece che in quella del processo storico. In tal senso si può dire che lo stesso concetto di “prassi” sia per Lukács in nuce (sebbene ideologicamente deviato in senso idealistico) nel lavoro di Hegel. Quando infatti, molti anni dopo (Il giovane Hegel è cominciato nel 1937), Lukács si troverà a dover difendere Hegel dalle interpretazioni borghesi, non solo ne esalterà l’attitudine rivoluzionaria (che si ferma solo davanti a quell’«estrema sinistra» che è il Terrore), ma insisterà sul fatto che in Hegel il «non-filosofico» si caratterizza proprio come assenza di quel rapporto concreto con le cose, gli altri esseri umani e se stesso (alienazione) che esemplifica la vita dell’uomo-medio borghese e la sua filosofia anti-materialista, riflesso di un modo di esistenza che si specchia in una filosofia (quella di tipo kantiano e berkeleyano) che si rifiuta al suo nesso dialettico con la realtà materiale. Di fronte a ciò Hegel apparirà come il primo che ha sollevato la filosofia al suo ruolo di «scienza storica», legandola dialetticamente al piano della prassi (la Rivoluzione francese, Napoleone e poi la rivoluzione industriale), e dunque intendendola inevitabilmente al di fuori del retroterra soggettivistico kantiano che la chiude nell’astrazione dell’etica dell’individuo isolato (un alienato che in virtù di ciò si crede super-individuale), per farne invece l’oggetto centrale di un’esperienza sociale e collettiva.

Sempre ne Il giovane Hegel Lukács, riprendendo naturalmente la dialettica servo-padrone, torna a quel nesso soggetto-oggetto su cui abbiamo aperto e che è a fondamento di Storia e coscienza di classe. Qui al “servo” (si legga proletariato industriale), a causa della durezza materiale della vita che conduce, non è dato pensarsi semplicemente come soggetto della Storia e dunque non può porsi in quell’attitudine suppostamente autonoma che era garantita al soggetto kantiano. Il “servo” è sì soggetto, come la sua autocoscienza filosofica (il marxismo) dimostra, ma è al contempo oggetto, in quanto la sua vita è concretamente reificata all’interno dell’azione capitalista. Il proletariato è dunque l’unico fra i soggetti storici (e anche per questo è «classe universale») a essere nelle condizioni di comprendere il movimento del reale al di fuori di qualsiasi astrazione.  Infatti esso legge esattamente la propria azione prammatica (il movimento operaio e comunista) come processo storico di eliminazione dell’alienazione; di quella reale (lavoro astratto, macchinismo, ruolo del denaro) e di quella filosofica: dal momento che qui il superamento dell’alienazione è implicito nel fatto che l’autocoscienza del soggetto ha posto quella come oggetto di se medesimo, così sancendone la transitorietà, vale quella natura storica in cui il suo essere oggetto è solo una sua figurazione provvisoria: dialettica. Il proletariato ha cioè il punto di vista (ma qui il punto di vista è tutt’uno col moto della Storia) della totalità, e la sua azione storica è uno con il movimento, anch’esso storico, di una filosofia che si libera dalle astrazioni. Questo significa anche, ed è un problema che emerge spesso quando si parla del Lukács critico letterario, che nella totalità deve essere compreso anche il punto di arrivo del processo di liberazione del proletariato, cioè la società comunista che lo stesso movimento dei lavoratori già contiene in sé (e questa è una delle ragioni per cui Lukács, a differenza dei Francofortesi, non può avere molto interesse per le contraddizioni-astrazioni interne alla cultura capitalistica così come espresse nell’arte, dal momento che giudica queste a partire dalla maggiore – realismo – o minore vicinanza a quel punto di vista della totalità che è la Storia stessa nel quadro del rapporto teoria-prassi). La stessa intransigente militanza dell’ungherese vive, a mio giudizio, di tali ragioni. E si può certo discutere della validità generale della posizione di Lukács, ma non credo si possa dibattere sul retroterra hegeliano di questa, e si tratta di un Hegel – se si pensa all’interpretazione su lui data da Stalin e Ždanov che lo vedevano come parte della contro-rivoluzione aristocratica – riportato (almeno nel corso degli anni ’20) all’interno del marxismo.

A inizio anni ’30, dopo la lettura dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, qualcosa effettivamente si infrange nel rapporto fra Hegel e Lukács. La critica marxiana, che tende a sottolineare in Hegel una sovrapposizione fra il concetto di alienazione e quello di oggettualizzazione, è per Lukács un punto di svolta che conduce a un surplus di storicismo: se alienazione e oggettualizzazione vengono sovrapposti, ciò che si perde è la condizione umana che si determina all’interno di una forzata oggettività che è di tipo storico. Mantenuto fermo il punto secondo cui la realtà storica oggettiva è un prodotto dell’uomo stesso, vichianamente del suo lavoro, è proprio il pensare che l’oggettivazione storica sia tour court alienazione a nascondere una mistificazione idealistica (quella che per Marx identifica la logica hegeliana come controparte del denaro, cioè della figura astratta delle cose), la stessa che conduce poi a rinchiudere il lavoro nei confini della hegeliana autocoscienza, cioè come ente del pensiero. Qui l’alienazione smette di essere oggettività in quanto tale e diventa progressivamente l’estraneazione di tale oggettivazione – nelle forme di un’oggettività storica – rispetto all’uomo che l’ha prodotta. L’identità di soggetto e oggetto lascia dunque il posto – come sarà in Ontologia dell’essere sociale – alla loro continua (storica) mediazione, che fa dell’alienazione una forma, storica, dell’oggettualizzazione stessa. Che poi tutto ciò non fosse già in larga parte presente in Storia e coscienza di classe, dove il lavoro del pensiero è anche lavoro della prassi, e come tale non è astratto, è a mio giudizio argomento di discussione.

Hegel sarà però uno degli eroi in incognito del famigerato La distruzione della ragione (1954). All’«irrazionalismo» (i vari tentativi del pensiero borghese di soggettivizzare la Storia) Lukács contrapporrà proprio la dialettica hegeliana: «ogni irrazionalismo, nella misura in cui si occupa di problemi logici […] abbandona sempre la logica dialettica per ritornare alla logica formale». Una dialettica che non è l’antropologizzazione (a-storica) del divenire propria delle «filosofie della vita» (la «falsificazione della dialettica di Dilthey»), ma ancora la coscienza sovversiva che vive nel riconoscere la mancata autonomia del culturale dal materiale, il primato di quest’ultimo come luogo in cui la vita può essere studiata nella sua forma non reificata e infine il nostro inevitabile essere nella Storia, cioè in quel movimento che potrebbe portare a una modifica delle correnti relazione sociali, proprio ciò che la borghesia, nel suo difendere il proposito di un’autonomia del pensiero, non può tollerare.

 

Immagine di copertina: Kazimir malevich, suprematismo (supremus no. 58), 1916