ROMA

Damnatio ad bestias

La rapina dei Beni culturali a Roma: il caso del Colosseo.

1.L’anfiteatro e il novello Mecenate

La seconda fase della sponsorizzazione della Valle (consolidamento delle volte e degli ambulacri interni) è iniziata, seppur a rilento e fuori dai clamori e dai festini vip che hanno salutato la fine del restauro della facciata esterna. Per di più, in questi giorni il monumento viene di nuovo chiuso per un evento privato (la visita del presidente del Vietnam), mentre si litiga fra Soprintendenza e ministero su come gestire gli ingenti introiti che arrivano dalle visite (per il 2015 più di sei milioni di euro). Il Colosseo è un vero e proprio simbolo non solo della secolare storia della città ma della rapina e dello sfruttamento di tutti i beni culturali in Italia, che sottraggono sempre di più gli spazi di fruibilità dei luoghi storici e di interesse culturale. La sponsorizzazione di Tod’s ha favorito un processo di privatizzazione del monumento che sembra destinato solo a peggiorare, mentre la nuova riforma delle Soprintendenze sta pian piano diminuendo le possibilità di tutela del territorio, del paesaggio e dei beni culturali a favore di una valorizzazione a senso unico, concentrata solo sul profitto economico.

Ma andiamo per gradi:

A giugno 2016 il monumento viene chiuso per ospitare un festino vip con Sabrina Ferilli, Roberto Bolle e altri noti protagonisti del mondo dello spettacolo. Ancora una volta si saluta Della Valle come novello Mecenate e si plaude all’evento e alla generosità dell’imprenditore sensibile, che ha a cuore il futuro della patria e la cultura dei suoi clienti. Nessuna polemica per la chiusura straordinaria, lo sdegno e le minacce valgono solo per lo sciopero dei dipendenti del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo (MiBACT), non per le parate tutte champagne e giochi di luce tricolore.

Nella stessa giornata il ministro Franceschini approfitta dell’evento per ipotizzare e promuovere la ricostruzione dell’arena del Colosseo, un progetto oneroso e complicato a detta di molti esperti, ma per soddisfare le corporation turistiche e gli interessi privati si può fare questo e altro. Per creare eventi privati sull’arena e tour speciali per le agenzie maggiori, i soldi si trovano sempre a dispetto dell’annoso deficit di bilancio del MiBACT. Per tutta l’estate continuano le serate Tod’s con annessi pacchianissimi giochi di luce. Si trattava di visite gratuite che il generoso “scarparo” offriva a un gruppo selezionato di visitatori, appoggiandosi ai servizi e al personale interno del monumento.

Ma in un’afosa giornata di agosto l’idillio finisce. Una sonora bacchettata della Corte dei conti ridimensiona la generosità del patron Tod’s e mette in luce una serie di questioni che è il caso di analizzare più approfonditamente.

2. Il grande bluff

Nell’agosto 2016 la Corte dei conti pubblica una relazione (tecnicamente una deliberazione) sugli strumenti di sponsorizzazione e project financing nel settore dei Beni culturali promossi negli ultimi cinque anni. Tali progetti devono essere finalizzati alla sola valorizzazione dei Beni artistici e storici e non alla tutela, che resta a pieno titolo responsabilità dello Stato. È importante sottolineare come per valorizzazione si dovrebbe intendere non solo la promozione finanziaria dei monumenti ma anche il miglioramento dell’accesso e della fruibilità collettiva. Come vedremo successivamente, il secondo obiettivo resta meramente sulla carta sia nei fatti che negli stessi intenti dei promotori, vale a dire lo Stato e il Ministero competente.

A dispetto di ciò che sbandierava qualche mese prima Franceschini, il bilancio della Corte dei conti è pessimo e a dir poco fallimentare. Le sponsorizzazioni sono state poche e mal gestite: spesso più che favorire il bene artistico hanno avvantaggiato i privati. Ciò che infatti contesta la Corte dei Conti alla sponsorizzazione Tod’s-Amici del Colosseo (ma in generale a tutte le formule di sponsorizzazione) è una deregolamentazione degli impegni negoziali assunti. In parole povere, a nessuno è venuto in mente di normare queste forme di finanziamento e ognuno ha di conseguenza potuto fare come preferiva. Questo vuoto di regole ha fatto sì che novantanove volte su cento lo Stato abbia guadagnato ben poco da queste formule. Alla faccia della connotazione universale dei monumenti e dei beni culturali, gli accordi si sono svolti come un affare privato, un patto tra gentiluomini, o presunti tali, lo Stato che assurge a unico proprietario-venditore e il Privato acquirente.

È infatti inutile dire che la CdC non critica in sé la sponsorizzazione (anzi, ne sottolinea l’enorme potenzialità economica) ma evidenza le alte criticità su come siano state portate avanti le negoziazioni. Risulta chiaro dalla deliberazione come questo sistema lasci un margine ampissimo ai privati, che nel vuoto legislativo e proprietario fanno come nel Far West: mettono la bandierina sul territorio e dettano loro le regole. Ciò che auspica la deliberazione è mettere ordine e utilizzare le sponsorizzazioni come pretesto per introdurre il modello privatistico nella gestione dei beni culturali, una specie di cavallo di Troia per la privatizzazione e lo sfruttamento di opere che, come si dice in economia, sono “fredde”, quindi a scarsa redditività e ad alto onere pubblico. Insomma il problema evidenziato della Corte dei conti non è tra i più nobili: la critica non è al modello privatistico ma al fatto che, come spesso accade, in Italia è stato gestito sans façon, tramite accordi promossi e portati avanti col consueto “spirito peracottaro”. I Beni culturali vengono dipinti come un peso, come qualcosa che aggrava i problemi del già traballante MiBACT, l’unico modo per cambiare il segno, per far andare in attivo la gestione dei monumenti è trattarli come un pollo da spennare e spolpare fino all’osso.

Da questo quadro sconfortante nascono due domande fondamentali: Come si regolamenta la gestione di un patrimonio così vasto e diffuso sul territorio? Come si difendono gli interessi collettivi e delle città? In altri termini, come si evita che l’interesse dei privati danneggi o addirittura elimini i diritti e i bisogni delle persone, nonché dei monumenti stessi? Per rispondere a tali questioni, proviamo a vedere cosa è successo nello specifico al Colosseo.

3. Guardati dagli amici (di Tod’s)

Il giudizio della CdC sul finanziamento Tod’s per il Colosseo è un profondersi di cazziatoni contro il patron Della Valle. Riassumendo, l’Associazione amici del Colosseo non avrebbe rispettato i tempi di consegna, prolungando i tempi di sponsorizzazione e di conseguenza le concessioni sul monumento allo stesso costo. La Cdc riscontra anche una scarsa chiarezza negli accordi che, come già detto, sarebbero cambiati in corso d’opera. A nulla valgono le giustificazioni di Tod’s riguardo all’esposto portato avanti da Ryanair (il concorrente diretto di Tod’s per la sponsorizzazione) sulla mancata trasparenza dell’accordo che avrebbe allungato i tempi del restauro. Siamo già fuori tempo massimo e manca ancora il centro servizi e la biglietteria esterna. Dall’altra parte, la relazione della CdC ci offre un quadro chiarissimo su come il Ministero si sia calato le braghe davanti al denaro di Della Valle: Il MiBACT ha l’obbligo per quindici anni di non concedere a terzi il diritto di associare a fini promo-pubblicitari la propria immagine e/o i propri segni distintivi al Colosseo e/o ai lavori di restauro. Detto in soldoni, Tod’s ha un diritto proprietario e quasi esclusivo sull’immagine del Colosseo: venticinque milioni per l’esclusiva sul monumento più famoso del mondo occidentale. Le parti pubbliche dell’accordo si impegnano a concedere all’Associazione il diritto, in esclusiva, di utilizzare il logo raffigurante il Colosseo. Lo sponsor ha il diritto di ottenere l’accesso al monumento per gruppi di persone e può utilizzare il logo e gli altri segni distintivi dell’Associazione abbinati a quelli Tod’s. Inoltre può usufruire del logo e degli altri segni distintivi dell’Associazione sulla propria carta intestata e sul materiale istituzionale, ivi incluso il sito e inserire il proprio marchio nel retro del biglietto d’ingresso al monumento (questo a onor del vero non è ancor accaduto). Ha anche la possibilità di inserire il proprio marchio sulla recinzione del cantiere.

È un accordo a dir poco sconveniente: questo è chiaro a chiunque, solo il ministro Franceschini affermava con toni entusiastici che l’accordo Tod’s era l’esempio virtuoso del tanto ideologicamente osteggiato rapporto fra pubblico e privato… Quali sarebbero dunque gli esiti di questa virtuosa e nobile operazione? Il danno economico è evidente: si è svenduta a buon mercato una delle immagini più conosciute al mondo. Il Colosseo diventa la vetrina di lusso per i clienti di scarpe alla moda e Della Valle utilizza, per promuovere la sua immagine, le risorse (umane e materiali) della Soprintendenza (chi apre i cancelli per gli incontri Tod’s? Chi gestisce la manutenzione?) Il privato spopola e gli enti pubblici quasi quasi ci vanno sotto.

In sintesi, il modello Della Valle non solo è anti-economico ed evidenzia i rischi e le nefaste conseguenze di aprire senza alcun criterio ai privati, ma nuoce alla vera fruibilità del monumento e a un’integrazione dei beni archeologici, architettonici e paesaggistici con la città. Il Colosseo è dato letteralmente in pasto alle Belve: innanzi tutto le grandi corporazioni turistiche che impongono e spingono l’offerta turistica e di conseguenza la visibilità dei luoghi (fondamentale per far funzionare il modello sponsor, che si basa appunto sul ritorno di immagine), e poi gli interessi privati in combutta con Ministero e Governo che vogliono imporre un modello gestionale di unico e mero sfruttamento delle risorse culturali. Il Colosseo non fa quasi più parte dello spazio urbano, è stato in un certo senso espropriato ai Romani, è un luogo avulso dalla vita e dal tessuto della città, tutta l’area archeologica è diventata una specie di parco dei divertimenti, luogo di attrazione turistica e vetrina di lancio per gli interessi delle grandi aziende.

4. Excusatio non petita, accusatio manifesta: la retorica renziana sui beni culturali

Il modello Colosseo ci parla di un disegno più ampio che mira a svuotare il senso della tutela dei territori a vantaggio della unica e sola valorizzazione economica dei Beni culturali. Tutta sembra andare in questa direzione, basti pensare alla riforma del MiBACT, alle norme sul silenzio assenso per le Segnalazioni certificate di inizio attività e sul controllo prefettizio sulle Soprintendenze contenute nella riforma Madia che – con qualche modifica rispetto la testo originario, come l’allungamento del silenzio assenso da 60 a 90 giorni – dovrebbe andare in vigore l’11 dicembre. A nulla servono le dichiarazioni del Ministro Franceschini che si prodiga a dire che la Soprintendenze non perderanno il loro ruolo di tutela o che il Colosseo non diventerà un’arena rock, se poi qualche giorno fa la Ministra Boschi, incalzata da Salvini, un altro noto addetto ai lavori, auspicava la chiusura delle Soprintendenze.

Non è intento di questo articolo difendere un’istituzione complessa e spesso pachidermica che paga da decenni una mancanza di organico e un vizio di forma gestionale (ne parlava già l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli negli anni Sessanta). Resta il fatto che i beni culturali sembrano una platea perfetta dove sviluppare la retorica renziana del fare e dove sperimentare un modello di esautoramento del diritto di difesa del paesaggio e dei territori, di centralizzazione dei poteri governativi, di promozione di una politica di estrazione diretta di profitto da beni pubblici e collettivi, di imposizione del paradigma del lavoro gratuito. La gestione dei Beni culturali diventa così un terreno di sperimentazione politica e di promozione personale, come ci dimostra l’ambizioso ministro o il patron Della Valle concentrati a pubblicizzare loro stessi in una bella operazione di cultural-washing.

L’obiettivo da realizzare è quello di sfruttare a più non posso i monumenti più importanti, privandoli della loro funzione culturale e del loro ruolo attivo nei territori: il Colosseo come altri grandi monumenti (si veda fontana di Trevi o piazza di Spagna) devono essere solo delle platee per grandi interessi capitalistici e per il turismo di massa. Per concludere, è necessario porsi altre due domande fondamentali, che verranno sviluppate in seguito: cosa succede ai luoghi che non rispondono a questi criteri, da cui non si può estrarre profitto direttamente (o lo si può in modo più difficile) e che comunque non godono della visibilità dei tre o quattro siti più famosi di Roma? E inoltre, in questa corsa al profitto, che fine fanno gli interessi dei cittadini e dei lavoratori dei beni culturali e del turismo, che vedono lentamente cadere qualsiasi diritto a fronte dell’imposizione di un modello che promuove forme di lavoro gratuito, volontario o mal pagato? Lasciamo le questioni aperte, perché i beni culturali, se adesso sono, ahinoi, un terreno di sperimentazione di interessi privati e del governo, potrebbero e dovrebbero diventare il campo di azione di politiche collettive e di autogoverno dei territori: solo così sarà possibile evitare che i siti di interesse storico e culturale restino in balia delle belve affamate.