MONDO

Afrin, criminali nascosti dietro un ramo d’olivo

Non essendo riuscito a fermare la formazione della Federazione del Rojava, il 20 gennaio il Presidente turco Erdogan ha attaccato le città e i villaggi di Afrin, lasciando morte e distruzione dietro di se. Il 17 febbraio si scenderà nelle strade di Roma per opporci a questo sterminio

Il ramo d’olivo nella cultura dell’umanità laica, religiosa e letteraria è stato per secoli il simbolo di virtù positive e di pace, Erdogan ha deciso di capovolgere proprio questo simbolo, legandolo in maniera paradossale ad una dimensione di sterminio e di morte. ‘Ramo d’olivo’ è, infatti, il nome dell’operazione militare, guidata dalla mano inarrestabile di Recep Tayyip Erdogan e giustificata dalle autorità militari facendo riferimento alle linee guida della strategia globale antiterrorismo delle Nazioni Unite. È così che è stato giustificato lo sterminio che ha coinvolto il cantone di Afrin nel corso dell’ultimo mese: la guerra al terrorismo sotto un nome che rimanda a pacifiche e virtuose evocazioni.

La Turchia, che è stata a lungo sostenitrice dei gruppi d’opposizione islamisti, in particolare del Fronte Al Nusra e di Daesh, continua a non risparmiare alcuno sforzo militare e politico, né alcuna sprezzante retorica etnica e culturale, per sopprimere la presenza dei curdi. Così era successo a Kobane, dove per anni l’ingresso delle armate di Daesh è stato facilitato da Erdogan. E ora accade con l’operazione militare ad Afrin, che nel pomeriggio del 20 gennaio scorso ha subito il primo attacco da parte degli F-16 turchi. Un massacro che si è ripetuto nei giorni successivi e ha avuto come risultato 86 morti e 198 feriti tra i civili, con una forbice d’età da i pochi mesi di vita ai 60 anni. I numeri del massacro fanno rabbrividire, soprattutto se si pensa che l’operazione in sé non porterà alcuna soluzione realistica sullo scacchiere internazionale, né riuscirà ad annientare il PKK o l’autonomismo curdo.

Ma perché Afrin? È proprio la risposta a questa domanda che ci dimostra le ambizioni reazionarie, distruttive ed espansive della politica ‘neo-ottomana’ di Erdogan.

Afrin si trova a 40 km a nordovest di Aleppo. Nel 2012, è diventata parte del neo-proclamato autogoverno autonomo, e poi entrata a far parte della Federazione Democratica della Siria Settentrionale istituita nel 2016. Inizialmente, la popolazione della regione era all’incirca di 500.000 persone, ma è cresciuta considerevolmente tra il 2011 e il 2016 sulla scia delle migrazioni interne. Infatti, in seguito alle operazioni militari tra le forze del regime e quelle d’opposizione dell’Esercito Siriano Libero nella vicina Idlib e nelle zone del Nord di Aleppo e dopo la conquista da parte del regime delle aree della città di Aleppo nel 2016, Afrin è diventata un rifugio sicuro per le popolazioni sfollate e per i profughi di diverse aree della Siria. Così il numero dei civili presenti ad Afrin è diventato di 800.000 unità. A ciò è da aggiungere che, nonostante le diverse battaglie tra le Forze Democratiche Siriane (SDF) e i gruppi islamisti, le prime sono riuscite sempre a mantenere il controllo sulla regione (tutti i numeri sono ripresi dai report della Mezza Luna Curda).

Dopo la sconfitta di Daesh a Kobane e Gire-Spi nel 2016, lo Stato turco, percependo l’indebolimento della propria posizione di supremazia, ha reindirizzato la sua attenzione contro l’amministrazione autonoma e democratica. L’obiettivo principale del dispiegamento militare nella sacca di Azaz-Jarablus è, infatti, quello di circondare Afrin, e prendere il controllo del territorio considerato il corridoio curdo tra la base aerea di Menagh e Tell Rifaat. Le ambizioni strategiche di questa occupazione sono duplici: in primo luogo il sabotaggio dell’operazione Raqqa e, in secondo luogo, la protezione di Daesh. Tuttavia, lo Stato turco non si è limitato solo a uccidere i civili per svuotare Afrin e poter attuare i propri piani di mutamento demografico della regione, ma sta tentando di cancellare la memoria storica colpendo i siti archeologici di Ain Dari nell’area di Sherawa, ormai distrutti e ridotti in macerie.

Zeytin Dali, Ramoscello d'olivo

Dal momento che l’esercito turco non è riuscito a spezzare la barriera difensiva ad Afrin e ad avanzare, ha cercato di inondare l’area colpendo la diga di Meidanki, situata a 12 Km a nord di Afrin, minacciando in tal modo la vita di migliaia di persone nei villaggi vicini.

Erdogan vuole ostacolare in tutti i modi lo sviluppo della Federazione della Siria settentrionale, e impedire lo sviluppo del confederalismo democratico. Questa federazione, dopo essere riuscita a sconfiggere Daesh, ha sviluppato delle forme di convivenza sociale inclusiva, realizzata sulla base dell’ecologia, della parità di genere, dell’autodifesa, ispirati dagli scritti carcerari di Abdullah Ocalan. La lotta del popolo curdo e dei popoli confederati in Rojava, andando oltre le forme centralizzate della politica territoriale, ha il grande merito di aver messo al centro la liberazione della donna e il protagonismo femminile nei diversi aspetti dell’organizzazione sociale, tra cui appunto l’autodifesa e la lotta armata.

 

Erdogan, espressione di un governo autoritario e patriarcale, non può permettere l’esistenza del Rojava, e ora si sfoga su Afrin, con il beneplacito di Russia, Stati Uniti e Gran Bretagna. Tuttavia, allo stesso tempo, lo stato turco sta schierando le sue forze militari sul confine tra Turchia e Siria, e anche nelle aree occupate tra Al-Bab e Azaz. Giustificando le operazioni sempre come guerra al terrorismo. Il 3 luglio Erdogan ha dichiarato ai media: «Garantiremo la sicurezza di al-Bab e di tutta la regione con le nostre forze militari e di polizia. Stiamo lavorando per stabilizzare la regione. Tuttavia, la mia opinione personale è che per stabilizzare la regione dobbiamo liberare la regione di Afrin dai terroristi». Eppure nessuno ha riconosciuto Afrin come base logistica di alcun gruppo terrorista, mentre è sicuramente una città che ospita un gran numero di rifugiati, accolti e integrati senza discriminazioni etniche. Mentre la complicità di Erdogan con gli estremisti islamici e Daesh è stata provata da diverse fonti.

Questa aggressione non ha basi legali né tantomeno etiche. Attaccare con ogni mezzo militare possibile una zona popolata da civili e rifugiati è un crimine che non può essere taciuto. Occorre rompere il silenzio perpetuato dai governi complici e dai media di fronte al rumore del caos, dell’instabilità e dell’occupazione voluta da Erdogan. Il silenzio mediatico e dei governi occidentali li rende complici di questo massacro, dell’occupazione e dell’espansione territoriale turca. La comunità internazionale non può restare spettatrice di fronte ad attacchi aerei su zone densamente popolate, oppure sarà colpevole di questa politica espansiva e belligerante.

 

Bisogna avere il coraggio di chiamare le azioni di Erdogan con il loro nome: questo è un genocidio, organizzato da un governo autoritario d’ispirazione fascista.

Invece, Erdogan è stato accolto dal Papa e dal Governo italiano con tutti gli onori il 5 febbraio a Roma, mentrela manifestazione è stata bloccata per ore, e la città controllata a vista da 3500 blindati e cecchini. È così in tutta Europa, che stringe con il ‘sultano’ accordi di sangue per impedire l’arrivo dei migranti e gli vende armi per le suo politiche di repressione e morte.

Erdogan vuole porre fine all’esperienza della resistenza curda perché questa è l’unica soluzione possibile per la pace in Medio Oriente e non solo. Questo progetto è lontano dall’identitarismo settario e dalla politica nazionalista, e parla di convivenza pacifica tra diverse etnie e generi. Oggi, i curdi hanno molto da insegnarci, in prima istanza, che la postura da assumere in questo contesto deve essere responsabile e collettiva volta alla costruzione di movimenti solidali e su scala planetaria. La pace, del resto, non è un ramoscello d’ulivo disegnato su una bomba.