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Crack Up! Femminismo, pandemia e il futuro che verrà

Nel pieno della pandemia, ripartiamo dai femminismi e dai movimenti contro la precarietà, dalle lotte che hanno portato alla crisi di legittimità dell’attuale neoliberalismo, per segnalare i campi di conflitto aperti nella crisi e, dunque, ciò che è in gioco come possibile vie di uscita.

Non è possibile banalizzare nessuna delle immagini di dolore che circolano in queste settimane. Il virus, simultaneamente e a livello planetario, ha accelerato il processo di comprensione del neoliberalismo come meccanismo di morte che agisce su corpi concreti. Potremmo dire che non si tratta di una novità. Il neoliberalismo ha già mostrato di saper convivere perfettamente con macchine di produzione di morte: per esempio lungo le frontiere o nei campi profughi, per nominare quelle più brutali. Però adesso il virus, che non discrimina secondo linee di classe o nazionalità, ha creato una prova generale della vita neoliberale come spettacolo che vediamo accadere online, con un conteggio necropolitico in tempo reale.

A partire da questa situazione, ci sono due luoghi di enunciazione che non riteniamo efficaci. Una rapida fine del capitalismo (ipotesi che va dagli editorialisti del “Washington Post” fino a diversi teorici consacrati) piuttosto che, in contrapposizione, l’insistenza sul fatto che la pandemia sia la conferma del controllo totalitario del capitalismo sulle nostre vite.

 

Proponiamo un luogo di enunciazione situato nelle pratiche del movimento femminista, che ci permetta di interrogarci sulle lotte che hanno portato alla crisi di legittimità dell’attuale neoliberalismo, per poi segnalare i campi di conflitto aperti nella crisi e, dunque, ciò che è in gioco come possibile vie di uscita.

 

Per fare questo vogliamo usare chiavi di lettura femministe per comprendere il futuro che qui e ora si sta costruendo. Qualcuno può immaginare cosa sarebbe questa pandemia senza la precedente politicizzazione della cura, senza la lotta per il riconoscimento delle attività riproduttive e la valorizzazione delle infrastrutture costituite dai lavori invisibilizzati, senza la denuncia dell’indebitamento pubblico e privato, senza la forza delle lotte contro l’estrattivismo e in difesa del territorio contro il saccheggio delle multinazionali?

Non vengono dal nulla quel vocabolario e quelle pratiche che oggi abbiamo per denunciare gli effetti dello spossessamento della salute pubblica, dell’ipersfruttamento del lavoro precario e migrante e dell’aumento della violenza domestica durante il confinamento. A livello mondiale, i movimenti sociali sono in stato di allerta perché alla fine della pandemia rischiamo di ritrovarci ancora più indebitati per gli affitti accumulati e le spese da pagare, per gli alimenti il cui costo non smette di aumentare, con un debito pubblico ancora più grande nel caso che gli stati decidano di salvare le banche.

Si denunciano ogni giorno derive securitarie, militariste e razziste nella crisi. È necessario quindi nominare in modo esplicito le lotte che stanno attraversando qui e ora la crisi, mostrando le rivendicazioni dei femminismi e dei movimenti contro la precar

ietà più in generale. E infine occorre insistere sul fatto che, se il mondo sta cambiando è perché, come si legge su alcuni muri, la cosiddetta normalità era e continua a essere il problema.

Vogliamo quindi proporre una serie di punti che riattualizzano una agenda aperta, collettiva, che esisteva prima della pandemia e che ci serve come risorsa comune per respirare e immaginare una via d’uscita.

 

Foto di Valentina Fusco. Sciopero femminista a Buenos Aires, 9 marzo 2020

 

Estendere la quarantena alla finanza

Nella misura in cui aumentavano i numeri dei corpi infettati dal virus, le borse di tutto il mondo crollavano. Ancora una volta, la finanza ha mostrato la sua dipendenza dalla forza lavoro quando deve estrarre valore. I governi pro-austerità in Europa hanno modificato repentinamente le proprie politiche aumentando la spesa sociale di emergenza, rafforzandone però il carattere nazionalista e securitario. In Argentina, l’emergenza ha modificato il processo di rinegoziazione del debito con il FMI – mentre proprio Fondo Monetario Internazionale, assieme alla Banca Mondiale, ha chiesto il condono del debito di alcuni paesi per mitigare l’effetto della pandemia. Ma queste ultime posizioni non eludono il problema dell’indebitamento pubblico e privato. Piuttosto, pongono in primo piano l’esigenza di estendere la quarantena finanziaria oltre la pandemia.

 

Una settimana prima dell’accertamento del primo caso di Covid-19 in Argentina, come femministe abbiamo manifestato portando uno striscione che diceva “Siete in debito con noi” e “Vive, libere e sdebitate ci vogliamo”, fornendo immagini concrete di quell’analisi che oggi è diventata senso comune: il capitale sfrutta le nostre vite precarizzate sia in presenza che in assenza di un salario.

 

Sappiamo che una delle possibilità in gioco in questa crisi è quella di rilanciare l’indebitamento privato come modalità per integrare gli introiti economici insufficienti per pagare l’affitto, che molti non potranno pagare perché dovranno spendere quei soldi per comprare alimenti sempre più cari o per pagare i servizi pubblici. Un nuovo ciclo di indebitamento è quello che Europa e Stati Uniti hanno proposto come “soluzione” per rilanciare il consumo dopo la crisi del 2008. Avremo la capacità di far si che tale “via d’uscita” questa volta non sia un’opzione?

A partire da una serie di specifiche rivendicazioni dei movimenti sociali, vari governi hanno rinviato nel tempo il pagamento di prestiti personali e ipotecari, hanno sospeso sgomberi e hanno destinato entrate economiche straordinarie per la quarantena. Ma la vera domanda è cosa succederà una volta che le misure di isolamento verranno modificate e soprattutto nel momento in cui non si riuscirà a evitare di indebitarsi per superare la crisi.

 

È evidente la contesa attorno alle finalità e all’ammontare della spesa sociale. Legittimata come straordinaria per l’emergenza sanitaria, non può rimanere una isolata misura d’eccezione, piuttosto deve diventare la punta avanzata di una riorganizzazione necessaria e urgente rispetto alla destinazione dei fondi pubblici e a un nuovo orientamento del sistema tributario.

 

Sappiamo che i sussidi sociali, che sembrano meri trasferimenti monetari, sono carichi di valori morali che legittimano o delegittimano forme di vita. Dal tormentone sui sussidi che retribuiscono la “prigrizia” (un dibattito che ci portiamo dietro dal diciottesimo secolo) fino ai compiti di genere che si intrecciano con i tagli alla spesa sociale, possiamo vedere quale parte della popolazione viene selezionata in diversi momenti per assumere su di sé le privazioni e il castigo.

 

Ora, di fronte alla sospensione globale dell’austerità come misura emergenziale, la contesa si dispiega attorno al modo in cui è possibile determinare politicamente a chi destinare gli aiuti e come evitare che questi ultimi mantengano un carattere transitorio. La battaglia per il pubblico non è altro che battaglia per la redistribuzione della ricchezza.

 

Il collasso viene contenuto dai lavoratori e dalle lavoratrici della salute e dalle reti e organizzazioni popolari che producono dalle mascherine fino alla distribuzione di alimenti. Oggi più che mai è possibile mettere in discussione la segmentazione di classe nell’accesso alla salute. È in gioco anche una concezione più complessiva del lavoro, della produzione di valore e di quali modi di vita meritano assistenza, cura e reddito.

In questo senso intendiamo le rivendicazioni di un reddito di base, universale, di un reddito di cura e di quello che, in modo più generale, possiamo intendere come “salario femminista”. Tutte misure indissociabili, perché siano efficaci, da un ampliamento dei servizi pubblici.

 

Foto di Valentina Fusco. Sciopero femminista a Buenos Aires, 9 marzo 2020

 

Lo spazio domestico come laboratorio del capitale

Il ritardo di alcuni governi nel dichiarare la quarantena oppure gli atteggiamenti di irrisione rispetto alla gravità della pandemia da parte di altri sono episodi che hanno segnato gli scenari politici più vari. Ci sono presidenti che, nel pieno di una performance di virilità declinante hanno scommesso su un malthusianesimo sociale con conseguenze catastrofiche – come accaduto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e come si prospetta in Brasile e in India.

 

Potremmo vedere in ognuna di queste risposte una particolare congiunzione tra un neoliberalismo che non finisce di morire e varie forme di fascismo che accorrono per salvarlo.

 

Ci sono altri presidenti che hanno scartato misure di sicurezza per i lavoratori – come il Cile, l’Ecuador e, fino a un certo punto, l’Italia. In Argentina, invece, il governo ha agito in anticipo con misure sanitarie ed economiche per contenere gli effetti della pandemia. La quarantena come provvedimento pubblico sta funzionando in modo efficace rispetto alla riduzione della quantità di contagi giornalieri, in un paese con un sistema sanitario devastato da anni di politiche neoliberali.

D’altra parte, come insistono in modo specifico le prospettive femministe, sappiamo che ci sono molteplici form

e di quarantena, segmentate secondo il genere, la classe e la razza e, inoltre, che non tutti i corpi hanno la stessa possibilità di rimanere a casa, e sappiamo anche che l’isolamento significa abusi e violenze machiste per tante.

È in questo contesto che emerge la complessità, rilevata dal basso, dei significati dei provvedimenti sanitari globali e generali. In questo senso, vediamo come le lotte per il diritto alla casa si interconnettono e mostrano la loro complessità in relazione con le denunce per l’aumento della violenza machista. Il record di femminicidi in tempo di quarantena mostra qualcosa che stavamo già diagnosticando: “l’implosione delle case”, vero e proprio campo di guerra per molte donne, lesbiche, travestiti e trans che sperimentano tattiche di fuga e che adesso, a causa del virus, passano 24 ore al giorno con i propri aggressori.

 

La mobilitazione del ruidazo femminista dello scorso 30 marzo in Argentina ha fatto sentire questa violenza sorda. Si percuotevano le pentole come in ogni cacerolazo negli stretti corridoi delle villas, sui balconi e nei cortili, inventando forme di protesta per segnalare che quarantena non è sinonimo di isolamento.

 

Perché la casa non può essere un luogo di speculazione edilizia né di violenza machista, quando finirà questa pandemia resterà un orizzonte di relazione tra la lotta per il diritto all’abitare e una domanda più profonda: dove, come e con chi vogliamo vivere? Che significa produrre una spazialità femminista che, mentre problematizza l’indicazione dell’hashtag “restate a casa” imposta dai governi, non contrapponga solamente come alternativa alla violenza maschilista la costruzione di rifugi?

Anche qui la domanda che si ripete è: perché casa diventa sinonimo di famiglia nucleare eterosessuale? È proprio in questo tipo di famiglie che sono avvenuti ben 12 femminicidi nei primi dieci giorni di quarantena. Queste diagnosi abbondano grazie a una politicizzazione femminista che lo ha messo in luce dal primo momento e ha de-idealizzato la nozione stessa di spazio domestico come luogo sicuro.

Ma vogliamo fare un passo avanti e chiederci come il capitale approfitterà di queste misure di confinamento per riconfigurare le forme del lavoro, i modi di consumo e le relazioni di sesso e genere. Più concretamente: siamo di fronte a una ristrutturazione delle relazioni di classe che assume come scena principale l’ambito della riproduzione? La politicizzazione dello spazio domestico è una bandiera femminista. Abbiamo detto che là si produce valore, che il lavoro di cura è storicamente invisibilizzato e imprescindibile, che il confinamento tra quattro pareti è un ordine gerarchico patriarcale. Possiamo leggere qui una traduzione del capitale che cerca di usare questa crisi supersfruttando lo spazio domestico?

 

Non sarà che l’imperativo del telelavoro, della scuola a casa, dell’home-office, sta portando al massimo livello l’esigenza di produttività di questa casa-fabbrica che funziona dentro le mura, tutti i giorni della settimana e senza limiti di orario? Chi può assicurarci che, una volta passata l’emergenza sanitaria, queste offensive sulla flessibilità del lavoro, che atomizzano i lavoratori e le lavoratrici precarizzondol* ulteriormente, facciano un passo indietro?

 

Torniamo quindi a chiederci: di che tipo di casa parliamo? Di luoghi con poco spazio, saturati di oneri familiari, che adesso devono trasformarsi anche in luoghi produttivi per lavori che fino a poco tempo fa si svolgevano negli uffici, nelle fabbriche, negli uffici, nei negozi, nelle scuole e nelle università.

C’è una esigenza di iperattività nello stesso momento in cui, sempre più, ci muoviamo di meno. Il capitale minimizza i suoi costi: noi, lavoratori e lavoratrici, paghiamo l’affitto e i servizi del “nostro” luogo di lavoro; la nostra riproduzione sociale, se non “abbiamo bisogno” di trasporto per andare a lavorare, diventa così meno cara; intanto i servizi a domicilio a pagamento assicurano una precaria logistica della distribuzione. Ma anche lo spazio domestico eccede le case: è formato da spazi comunitari e da quartieri, che sono supersfruttati nella crisi, che inventano reti con scarse risorse e che già da tempo ci parlano di una situazione emergenziale.

 

Foto di Valentina Fusco. Sciopero femminista a Buenos Aires, 9 marzo 2020

 

L’analisi femminista del lavoro come chiave di lettura complessiva anti-neoliberale

La quarantena amplifica la scena della riproduzione sociale, cioè l’evidenza dell’infrastruttura che sostiene la vita collettiva e della precarietà di cui si fa carico. Chi sono coloro che rendono possibile la quarantena? Tutti i lavori di cura, di pulizia e di mantenimento, le molteplici attività del sistema sanitario e agricolo compongono oggi l’infrastruttura imprescindibile. Qual è il criterio per dichiararli tali? Essi esprimono il limite del capitale: quello da cui non può prescindere la vita sociale per continuare ad andare avanti.

Esiste anche una vasta area della logistica e un settore del capitalismo delle piattaforme che, nonostante riponga la sua fiducia nella metafisica degli algoritmi e del Gps, si sostiene su corpi concreti. Questi corpi, generalmente migranti, sono quelli che attraversano la città deserta, quelli che permettono – con la propria esposizione – di sostenere e rifornire i rifugi di molti e molte.

 

Si tratta di settori caratterizzati dal lavoro femminilizzato e precario. Le attività storicamente svalutate, sottopagate, non riconosciute o direttamente dichiarate come non-lavoro, si rivelano come l’unica infrastruttura insostituibile.

 

Come un ribaltamento della” frittata” del riconoscimento. In questo caso il lavoro comunitario gioca un ruolo fondamentale: dai centri di salute fino alla raccolta dei rifiuti, dalle mense comunitarie agli asili nido hanno sostituito ciò che è stato successivamente privatizzato, espropriato, de-finanziato. Queste attività sono a tal punto insostituibili che in molti quartieri è stato impossibile immaginare una quarantena che implicasse un isolamento domestico, da cui il lancio dello slogan “Rimani nel tuo quartiere”.

 

Sono queste infrastrutture collettive a essere le vere trame dell’interdipendenza, a cui viene delegata la riproduzione nel momento stesso in cui continuano a essere disprezzate. Se questo era già chiaro nei paesi del terzo mondo, ormai la scena è immediatamente globale.

 

È su queste attività che il movimento femminista ha messo in campo un lavoro pedagogico e di riconoscimento in questi ultimi anni, lanciando scioperi internazionali e approfondendo diagnosi che hanno messo in evidenza la precarietà come una specifica economia della violenza. Oggi questa diagnosi è sulle prime pagine dei giornali di tutto il pianeta.

A partire da questa constatazione, è necessario pensare alla riorganizzazione globale dei lavori – al loro riconoscimento, ai salari e alle gerarchie – durante e dopo la pandemia. Detto diversamente: la pandemia può anche essere una prova generale di una diversa organizzazione del lavoro.

Non possiamo essere ingenui su questo. I rapporti di forza non permettono di dare per scontato nessun trionfo. Cercheranno di risolvere la crisi di legittimità del neoliberalismo con più fascismo: più paura, più minaccia dell’altro come nemico e tutto quanto possa portare a un’elaborazione paranoica dell’incertezza che tutti condividiamo.

 

Foto di Valentina Fusco. Sciopero femminista a Buenos Aires, 9 marzo 2020

 

 

Lo sciopero come contesa o chi ha il potere di “scioperare”

Potremmo dire che il colpo di freno al mondo imposto dalla pandemia sembra un simulacro di uno “sciopero”. Dopo l’enorme sciopero femminista internazionale in America Latina (sebbene in Italia non abbiano potuto farlo per il coronavirus, mentre in Spagna le femministe sono state messe sotto accusa per averlo fatto) non cessa di essere evocativa questo “ribaltamento” del fermarsi, della reclusione a livello globale. E nonostante ciò, la pandemia non smette di riempirsi, al suo interno, di chiamate allo sciopero: degli affitti, delle/dei lavoratrici/tori di Amazon, dei metalmeccanici in Italia, delle/degli operatrici/tori sanitari, degli studenti.

 

Come hanno affermato le femministe della Coordinadora 8M in Cile, è necessario uno sciopero delle attività non essenziali per la riproduzione della vita.

 

Senza dubbio, lo sciopero ai tempi del coronavirus è una questione controversa. Da un lato, come già detto, in questo “sciopero” del mondo le attività femminilizzate – quelle messe in evidenza con lo sciopero femminista – sono evidenziate come gli unici settori che non possono scioperare. E oggi è più chiaro che mai. Dall’altro, esiste una necessità di scioperare sul piano del reddito: affitti, ipoteche, servizi basilari, interessi sul debito. Di fronte alle attività essenziali, la rendita finanziaria e immobiliare deve smettere di estrarre valore e di sostenersi attraverso promesse di futura austerità.

 

Il campo di battaglia del capitale contro la vita si gioca oggi su quali lavori vengono dichiarati essenziali e sul fatto che vengano pagati in accordo con questo criterio, questione che implica una riorganizzazione globale del lavoro.

 

Il campo di battaglia del capitale contro la vita si gioca oggi sulla nostra capacità collettiva di sospendere l’estrazione della rendita (finanziaria, immobiliare, delle multinazionali dell’agrobusiness responsabili del collasso ecologico) e di modificare le strutture fiscali.

Questo non è un campo di battaglia astratto. È composto da ogni lotta nella crisi, in ogni iniziativa concreta. La sfida sta nel connettere le rivendicazioni che nascono dai diversi territori e nel trasformarle in un orizzonte di futuro, qui ed ora.

 

Fotografie di Valentina Fusco per DINAMOpress. Sciopero femminista globale, Buenos Aires, 9 marzo 2020.

Le autrici dell’articolo, Luci Cavallero e Verónica Gago, sono co-autrici del libro “Una lectura feminista de la deuda. ¡Vivas, libres y desendeudadas nos queremos!”, Fundación Rosa Luxemburg, Buenos Aires 2019 (trad. it. Una lettura femminista del debito, Ombre corte, Verona 2020).

Articolo pubblicato in spagnolo su Revista Anfibia  e su El Salto Diario.

Traduzione in italiano di Alioscia Castronovo e Milos Skalal per DINAMOpress.