POTERI

Costituzioni e paranoie

Astenersi fa bene? Perché non diamo una ritoccatina alla Costituzione, già che ci siamo?

L’astensionismo è cosa buona, ci avvicina ai paesi anglosassoni, riduce il voto di scambio a favore di quello informato e convinto (sic! come se a votare non ci andassero tenaci tutti i clientes dell’intero arco partitico…) e «beh, se andasse a votare solo il 10% bisognerebbe porsi delle domande», parola di D’Alimonte sondaggista e opinionista caro equamente a «Repubblica» e al «Corsera». Se non si allarma lui, figuriamoci noi. E non si allarma neppure il think tank della banca JP Morgan, pilastro del club Bilderberg (vagamente inquietante, anche se non siamo paranoici).

Infatti, esaminando la situazione di Eurolandia e in particolare della sua area meridionale più sfigata, un gruppo di analisti di tale banca – David Mackie, Malcom Barr, Marco Protopapa, Alex White, Greg Fuzesi e Raphael Brun-Aguerre – hanno dato il seguente giudizio sulle costituzioni dei paesi periferici e sul loro ruolo:

«Nei primi momenti della crisi si è pensato che i problemi nazionali ereditati dal passato fossero in gran parte economici: debiti eccessivi di stato, aziende e famiglie, disallineamenti dei cambi reali interni, rigidità strutturali. Ma, nel tempo, è diventato chiaro che ci sono anche problemi politici ereditati dal passato. Le costituzioni e le strutture politiche della periferia meridionale, messa in piedi dopo la caduta del fascismo hanno numerosi aspetti che sembrano essere inadeguati all’ulteriore integrazione dell’area […] Nei paesi periferici le costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista, che riflette la forza politica goduta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo. I sistemi politici della periferia tipicamente mostrano diversi dei seguenti aspetti: deboli esecutivi, deboli stati centrali rispetto alle regioni, protezione costituzionale dei diritti del lavoro, sistemi di costruzione del consensi che alimentano il clientelismo politico, e il diritto a protestare se sono realizzati cambiamenti politici allo status quo non apprezzati. I paesi alla periferia sono stati solo parzialmente capaci di realizzare riforme economiche e fiscali, con i governi vincolati dalle costituzioni (Portogallo), da potenti regioni (Spagna), e dall’emergere di partiti populisti (Italia e Grecia)».

L’orientamento è chiaro quanto davvero paranoico: costituzioni troppo lunghe, troppo dettagliate e troppo sociali, contrappesi locali, diritti dei lavoratori (scandalo!) e partiti di massa frenano le pratiche neoliberiste e dunque occorre cambiare i sistemi istituzionali. La democrazia soffoca la finanza e dunque va soffocata. E il welfare con essa, beninteso. Non sono più i tempi di Keynes e Beveridge. Dev’essere la Germania a premere per un restyling costituzionale. Lasciamo perdere imprecisioni e incongruenze e andiamo all’osso: gli analisi finanziari Usa dicono brutalmente quanto i nostri esperti bizantini di nomina napolitan-lettiana sussurrano: la Costituzione va cambiata in senso autoritario per consentire alla finanzi di gestire al meglio la crisi. Già ci hanno infilato l’obbligo del pareggio di bilancio, secondo l’ortodossia ordoliberale e della Scuola di Chicago. Adesso ci provano con il semi-presidenzialismo, che dovrebbe rimediare agli “eccessi” di parlamentarismo e al venire meno dei partiti di massa che prima, grazie al welfare, inquadravano e controllavano le masse. Il fatto che l’ingegneria costituzionale possa ratificare una svolta più che anticiparla a freddo riduce i pericoli, ma non nasconde la tendenza involutiva e costringe, caso mai, a immaginare un riassetto progettuale che favorisca e accompagni la resistenza e il contrattacco, tenendo aperto il campo del diritto e mettendo in discussione la rappresentanza tradizionale.