editoriale

Cosa rimane dello spazio europeo?

4 punti per la ripresa di una politica delle lotte in Europa.
Libertà di movimento

Lo spazio europeo non è mai stato liscio, né neutro. Da Maastricht in poi, i vari passi che hanno sancito la svolta neoliberale dell’Unione Europea sono stati in ogni momento accompagnati da una forte opposizione, non solo proveniente da alcuni governi statali, ma da una mobilitazione sociale diffusa.

Dal 2011 in poi, lo strapotere della finanza, le politiche di austerity imposte tramite i memorandum of understanding ai paesi in crisi e attraverso le varie riforme economiche (tra cui il Fiscal Compact) sono stati al centro delle critiche dei movimenti sociali anti-crisi, esplosi dalla Spagna alla Grecia e arrivati fin sotto la sede della nuova Banca Centrale Europea a Francoforte.

Su queste basi abbiamo partecipato attivamente ad Agorà99, Blockupy e dato vita al Transnational Social Strike: per costruire un’alternativa europeista radicale e dal basso, che trovava in quello europeo il primo spazio globale in cui agire. Per questo abbiamo provato nell’estate del 2015 a costruire un OXI europeo. Tuttavia, la straordinaria mobilitazione greca di quei giorni non è stata accompagnata da mobilitazioni altrettanto massive nelle altre piazze europee. In quel luglio, la lotta contro il neoliberismo si è arenata sui confini nazionali. L’incapacità di costruire un fronte europeo contro il ricatto della Troika e di estendere il conflitto e la solidarietà dal basso ha determinato l’isolamento del movimento greco. Questo vuoto, unito all’assenza di un’alleanza dei governi delle “periferie contro il centro”, è stato alla base della capitolazione di Syriza. La forza politica che si proponeva come espressione del rifiuto delle politiche di austerità, e la cui vittoria elettorale era figlia delle lotte contro la crisi, dopo aver indetto e vinto il referendum ha – come ben sappiamo – firmato il terzo memorandum e deciso di applicarlo. Questa scelta ha di fatto chiuso il potenziale di “rottura istituzionale” incarnato per sei mesi dal governo di Tsipras garantendo l’applicazione di nuove misure anti-sociali, come privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, sconti alle imprese e svendita del patrimonio pubblico.

La firma del terzo memorandum da parte del governo Tsipras ha segnato l’irriformabilità economico-monetaria di questa Unione Europea e l’impossibilità di riscrivere i trattati europei dall’interno, a partire dalle istituzioni esistenti e con i vigenti rapporti di forza.

Ma di quell’estate ricorderemo anche altro: a luglio 2015 migliaia di persone si sono messe in cammino, scappando dalla guerra in Siria, ma non solo. Mentre a piedi cercavano di raggiungere le frontiere tedesche, alcuni sventolavano una bandiera dell’Unione Europea, sperando che qualcuno di quei 28 paesi che si fregiano di essere i fondatori dei diritti umani, potesse diventare la loro nuova casa. Dopo poche settimane di apertura delle frontiere, invece, si è tornati prontamente ai respingimenti, ai muri e ai fili spinati, cercando di schiacciare la solidarietà spontanea e diffusa che si era creata dal basso, tra le popolazioni.

Questi fatti recenti definiscono il blocco dell’iniziativa politica di movimento in Europa. A partire da questi limiti bisogna re-interrogare il significato di un europeismo radicale e dal basso, proprio mentre il dibattito politico a sinistra sembra polarizzarsi tra un europeismo debole e un sovranismo populista.

L’europeismo debole, facendo affidamento in maniera esclusiva a una riforma delle istituzioni europee, sostenuta dai sacri valori dell’Europa dei padri fondatori e sospinta da una non meglio specificata “opinione pubblica europeista”, finisce per disarmare qualsiasi possibilità reale di trasformazione. Rischiando così, suo malgrado, di confermare lo status quo. A maggior ragione dopo la crisi greca, nessuna opzione europeista può oggi eludere il problema della costruzione di contro-poteri effettivi, capaci di modificare con radicalità i rapporti di forza vigenti attraverso rotture effettive e transnazionali dell’ordine imposto dalla governance europea. Dall’altro lato, il populismo di sinistra confida nella possibilità di modificare quegli stessi rapporti di forza reinvestendo lo spazio nazionale e statuale, provando a strappare in questo modo il consenso alle retoriche della destra reazionaria. Ciò che questa opzione sottovaluta sistematicamente è che il livello di integrazione a cui è arrivato il capitale transnazionale, unito all’indebolimento delle strutture dello Stato nazione, fanno sì che l’unico campo ove sia verosimilmente possibile tradurre le istanze neo-sovraniste rimanga quello del controllo dei confini e della mobilità della forza lavoro migrante. Così facendo, il sovranismo di sinistra rischia di alimentare una retorica completamente codificata dalle forze xenofobe.

Ancor più profondamente, entrambe le opzioni sembrano incapaci di rendere conto di quella che, a nostro parere, sembra essere la tendenza attuale che percorre l’Europa: invece di rimanere prigionieri dell’infruttuoso scontro tra europeismo (debole) ed anti-europeismo (sovranista), occorrerebbe prendere atto del fatto che l’avvitamento della crisi istituzionale ed economica dell’Unione Europea e la crescita della destra populista stanno già producendo, qui e ora, fenomeni di radicale scomposizione dello spazio europeo. Ciò sta determinando una riconfigurazione istituzionale dell’UE nella direzione di una ri-nazionalizzazione delle sue politiche: le élite capitalistiche stanno raccogliendo per prime i frutti avvelenati del sovranismo reazionario, dimostrando che neoliberalismo e nazionalismo non sono affatto termini che si oppongono, ma possono pacificamente ritrovarsi alleati nella guerra civile contro le istanze di libertà degli sfruttati e dei poveri.

È per questo motivo che la polarizzazione in cui si trova impigliato il dibattito sull’Europa rischia di rendere inefficaci entrambe le opzioni e di bloccare la possibilità del rilancio di un’iniziativa di lotta transnazionale: l’unica capace di incidere sulla struttura dei poteri vigenti. Secondo noi, un programma politico incompatibile con la governance europea deve incardinarsi a partire da quattro punti inaggirabili.


1. Libertà di movimento

La libertà di stare o andare ovunque si voglia deve essere al centro di qualsiasi internazionalismo, europeismo radicale o movimento transnazionale. Questo non significa strizzare l’occhio alla libertà di circolazione dei lavoratori così come sancita nei trattati dell’Unione, ma rivendicare la libertà per tutti (europei o meno) di poter viaggiare e vivere ovunque si desideri. Se questa sembra un’utopia, crediamo sia un’utopia necessaria. Eliminazione delle frontiere, dei controlli, dei visti, dei permessi di soggiorno, di una vita soggiogata al potere amministrativo degli enti locali o internazionali. Nessuna ambiguità è oggi ammissibile: un’Europa senza frontiere è l’unica Europa per cui vale la pena lottare.

2. Un programma di lotta

Un mercato comune esiste ormai da 60 anni ed è la sua fondazione che si celebra a Roma il 25 marzo. Non sarà un caso che anche nel Regno Unito post-brexit né May, né la maggior parte dei conservatori inglesi vuole rinunciare a far parte di questo mercato unico europeo. Il rilancio del mercato unico, con il Single European Act del 1987 e solo in seguito con l’istituzione dell’euro, ha determinato una competizione verso il basso basata su salari in caduta libera, meno diritti e più precarietà, dove ai lavoratori non è rimasta che l’arma dell’emigrazione. Il problema che abbiamo di fronte è il che il riconoscimento di diritti solo su base nazionale non riuscirà a porre fine al ‘dumping sociale’ su scala globale a cui siamo sottoposti da decenni. Non è un caso che il movimento operaio abbia sempre avuto un’ispirazione internazionalista: è questa ispirazione che dobbiamo recuperare. Reddito di base, salario minimo europeo e permesso di residenza sono le direttrici su cui far convergere le lotte che già tagliano trasversalmente la composizione precaria e migrante europea e le uniche in grado di contrastare, senza alimentarla, la segmentazione sociale interna all’UE.

3. Federalismo e municipalismo

Se il Parlamento europeo ci ricorda l’inconsistenza della prassi democratica delle istituzioni dell’UE, la Commissione Europea e la Banca Centrale sono senza dubbio l’espressione della loro natura post-democratica e tecnocratica. Bisogna tuttavia riconoscere che un simile processo è in atto anche negli Stati nazionali, dove parlamenti svuotati di potere non fanno altro che ratificare leggi scritte dal potere esecutivo. È del potere democratico diretto che ci dobbiamo riappropriare: questo non può che accadere a partire dagli spazi urbani, così come ci insegnano le città ribelli spagnole. Spingere affinché la scomposizione già in atto dell’UE vada nella direzione di una federazione a livello europeo delle città e dei territori autonomi, disegnando una nuova mappa europea, oltre i confini nazionali e contro qualsiasi nostalgia degli Stati nazione. Assemblee di quartiere, regolamenti per l’uso comune dei beni comuni, ri-municipalizzazione e controllo dal basso dei servizi sociali, spazio per la nuova economia cooperativa, sociale e controllata dai lavoratori. Autonomia, valorizzazione (e non repressione) delle differenze locali, linguistiche e culturali, autodeterminazione. Su queste basi si può costruire un’alternativa, che decostruisca le contrapposizioni Nord-Sud, Est-Ovest, per realizzare una nuova cooperazione dal basso, oltre l’emergenza del nazionalismo di stampo neoliberale.

4. Scioperi e nuovo agire transnazionale

L’Europa è il nostro primo spazio globale, ma il tema dell’agire transnazionale politicamente efficace rimane del tutto aperta. Possiamo tuttavia riprendere oggi tale questione, assumendo un salto di qualità di incredibile importanza: gli scioperi delle donne in tutto il mondo e lo sciopero migrante “un giorno senza di noi” ci parlano infatti di una nuova prassi organizzativa che si definisce immediatamente a livello transnazionale. Una modalità diversa da quella delle occupazioni delle piazze e dei controvertici, che non esclude al suo interno tattiche e strategie che hanno caratterizzato i cicli di movimento più recenti, ma allo stesso tempo ricomprende anche strumenti “classici” dello scontro di classe, come lo sciopero e il blocco della produzione e della circolazione delle merci, nonché l’interruzione del lavoro di cura e della riproduzione sociale.

Gli scioperi delle donne e dei migranti dimostrano che il radicamento sociale delle istanze di lotta può – e deve – trovare espressione in mobilitazioni che superano i confini nazionali. Questi scioperi, oltre a rompere gli steccati tra il sociale, l’economico e il politico, e l’insulsa distinzione tra «diritti civili e sociali», rendono evidente con la forza dei fatti che le mobilitazioni transnazionali possono superare la mera evocazione di una presunta opinione pubblica, alludendo invece alla possibilità di pensare il movimento europeo come un’articolazione di lotte eterogenee ben piantate nella concretezza, ma capaci di connettersi e rafforzarsi su livelli e dimensioni globali.

È da questi quattro punti che occorre ripartire: nelle strade di Roma il 25 marzo, così come del G7 di Taormina, del G20 di Amburgo, nelle piazze femministe, operaie, migranti, transqueer, precarie e meticce rilanceremo un europeismo radicale e conflittuale, unica opzione possibile per sfidare la crisi – senza uscita – dello spazio europeo.