EUROPA

Corbyn, don’t give up! Non esiste una “Terza via”

Boris Johnson stravince le elezioni legislative nel Regno Unito rivelatesi un secondo referendum sulla Brexit. Con una ampia maggioranza di 78 seggi alla Camera dei Comuni implementerà ora l’uscita dall’Unione Europea, concretizzando l’unico, vero messaggio contenuto nel suo programma elettorale, “Get Brexit Done”. Al Labour di Jeremy Corbyn non riesce quindi l’incredibile rimonta conseguita due anni fa: perde roccaforti rosse nelle West-Midlands, nello Yorkshire e nel North East, il cosiddetto (ex) red wall. E la guerra civile interna al Labour fra Momentum (socialisti) e New Labour, mai sopita, esplode senza esclusioni di colpi, con attacchi pretestuosi, strumentali e faziosi a Corbyn e a McDonnell. Ma il corbynismo rimane l’unica speranza per il Labour stesso di sopravvivere e di trasformare il Regno Unito, caratterizzato da crescenti e drammatiche diseguaglianze

Alle dieci di sera, ora di Greenwich, gli exit poll gelano gli attivisti e i sostenitori del Labour: i Conservatori conquistano 368 seggi, il Labour 191, gli indipendentisti scozzesi 55. Per qualche ora c’è ancora chi spera in un modello statistico di proiezioni dei voti basato su campioni non rappresentativi, ma quando arrivano i risultati della circoscrizione di Blyth Valley il trend è chiaro e inequivocabile: un seggio del North East, da sempre in mano al Labour, passa ai Tories, con un’emorragia di voti laburisti del 15%, fra astensione e voti al Brexit Party di Farage. Nel referendum del 2016 per l’uscita dall’Unione Europea Blith Valley votò Leave con il 60,49% dei voti. Le ore successive vedranno arrivare risultati pressoché identici che alla fine comporranno un disegno molto limpido per l’interpretazione del voto: il Labour ha perso 42 seggi perché punito per la sua strategia sulla Brexit, ovvero l’indizione di un secondo referendum dopo la rinegoziazione dell’accordo con l’UE. Il risultato finale, giunto nella mattinata di venerdì, ricalca sostanzialmente le prime proiezioni, 365 a 203.

Nonostante i tentativi grotteschi, manipolatori e ridicoli di leggere il voto in funzione anti-Corbyn e contro l’agenda socialista proposta dal manifesto laburista (manovre di cui parleremo dopo), la caporetto (due milioni e mezzo di voti persi in due anni) è stata essenzialmente dettata dal sentimento di tradimento della democrazia percepito dalla working class inglese bianca e impoverita che, in massa, nel 2016 aveva votato per uscire dall’Unione Europea. Una scelta dettata da un moto di protesta per le condizioni materiali di vita e da pulsioni xenofobe. Tutto il resto è speculazione politica che infatti in Italia trova splendidamente sponda nei Renzi, Fassina, Cazzullo sul “Corriere” e Franceschini su “Repubblica”. Non che serva una cattedra a Oxford per comprendere il ruolo del fattore Brexit, è sufficiente sovrapporre la cartina dei seggi che hanno cambiato colore con la mappa del referendum del 2016: tutte le circoscrizioni strappate dai Tories al Labour hanno votato Leave (ad eccezione di Kensington, Londra, dove i conservatori hanno approfittato della concorrenza fra Labour e LibDems). È utile inoltre ricordare che 410 delle 650 circoscrizioni elettorali nelle quali si suddivide l’uninominale puro britannico sono circoscrizioni Leave. 

Fatta questa premessa, con il senno di poi è forse possibile affermare che queste elezioni, trasformatesi in un secondo referendum anticipato rispetto a quello promesso da Corbyn, erano impossibili da vincere per il Labour, spaccato geograficamente e anagraficamente fra Leave e Remain. Una strategia neutrale come quella di Corbyn, comunque l’unica attuabile (e sensata) in queste condizioni, aveva infatti il rischio potenziale di perdere voti da entrambe le parti. Fenomeno che si è purtroppo puntualmente concretizzato, in maggiore proporzione nelle regioni post-industriali determinando la perdita dei seggi nel cosiddetto red wall. L’emorragia di voti meno marcata nelle circoscrizioni Remain non ha per fortuna avuto riscontri in termini di seggi: sulla spinta dell’elettorato Remain il Labour ha invece addirittura conquistato Putney, Londra. I Tories hanno invece compattato il fronte Leave, lasciando le briciole (il 2%) al Brexit Party di Farage in chiave unicamente anti-Labour nei seggi in bilico. In sintesi, come ha detto McDonnell poche ora dopo la chiusura dei seggi, «abbiamo provato a unire il paese, ma si è rivelata una impresa impossibile».

Questa semplice analisi della suddivisione del voto in base all’esito del referendum del 2016, dimostra la strumentalità delle critiche rivolte a Corbyn, nel corso di questi ultimi tre anni e mezzo, dall’ala del partito ancora legata Blair e Brown. Lo zoccolo duro del New Labour, estromesso dalla sala dei bottoni in seguito alle disastrose disfatte elettorali del 2010 e del 2015, non ha infatti perso occasione di attaccare la linea equilibrista di Corbyn, chiedendo prima l’inserimento nel programma elettorale di un secondo referendum e, una volta ottenuto, una dichiarazione pubblica di Corbyn che avrebbe unilateralmente sostenuto la campagna referendaria per il Remain. Una chiara richiesta di voltare le spalle a quella parte di paese impoverito reo di aver manifestato la propria frustrazione e la propria rabbia nelle urne del referendum votando Leave. Inutile dire che, prevedibilmente, il risultato elettorale alle elezioni di giovedì scorso sarebbe stato ancora più disastroso. Ciò non ha impedito a Alastair Campbell, spin doctor di Tony Blair negli anni ‘90, di presentarsi alle 4 di venerdì mattina e ripetere che la «colpa della sconfitta epocale è tutta e solamente di Jeremy Corbyn che non rappresenta più la working class inglese».

Un po’ di coerenza e di onestà intellettuale in questo momento critico per il Labour sarebbe più che necessaria, ma è evidente che da ora in poi lo scontro all’interno del Labour sarà sempre più aperto e avverrà senza esclusioni di colpi. D’altronde a elezioni passate è finalmente possibile dire liberamente che il New Labour, insieme ai media inglesi con il “Guardian” in primis, ha sempre auspicato e lavorato sottotraccia per un tracollo laburista. Ha preferito rischiare di vedere concretizzati la Brexit e l’insediamento di un governo di estrema destra guidato da Boris Johnson alla vittoria del manifesto socialista di Corbyn. Tony Blair & co. erano in buona compagnia: tutto l’establishment europeo tifava più o meno silenziosamente per Johnson. Questo spiega la stipula in extremis del nuovo accordo fra Regno Unito e Unione Europea a pochi giorni dalla vecchia scadenza del 31 ottobre.

 

 

Il sabotaggio del manifesto politico radicale e della figura di Corbyn ad opera del New Labour e del “Guardian” ha talvolta raggiunto livelli imbarazzanti e allo stesso tempo incredibili in questi anni. Un esempio su tutti, l’accusa di anti-semitismo all’ala sinistra del Labour e a Corbyn, incapace e riluttante, secondo decine di articoli comparsi sul “Guardian”, di espellere i presunti fomentatori di odio verso la comunità ebraica. Una campagna diffamatoria e faziosa, martellante, senza la minima produzione di evidenze a sostenerne le tesi. Con la ciliegina finale, qualche giorno prima della chiusura della campagna elettorale: una lettera al “Times” del rabbino capo Mirvis, un attacco frontale a Corbyn in cui veniva espressa preoccupazione per un eventuale governo Labour. Una presa di posizione durissima che ha di fatto eletto a baluardo della difesa della comunità ebraica un esponente di estrema destra, Boris Johnson. Un corto circuito notevole (per non dire drammatico). Sulla stessa lunghezza d’onda si sono sviluppate le campagne mediatiche in cui Corbyn è stato dipinto come «amico dei terroristi, dall’IRA, a Hamas, a Hezbollah».

Qualunque presunto appiglio, qualunque dichiarazione anche di vent’anni fa, naturalmente estrapolata dal contesto, è stata trasformata in un attacco strumentale a Corbyn, ma anche alla forte impronta internazionalista della sua storia politica e del suo programma elettorale. In primis alle sue posizioni a difesa dei diritti della popolazione palestinese. Forte è stata (ed è ancora) la volontà di far pagare a Corbyn le centinaia di volte che ha sfidato in Parlamento la linea centrista del partito e, soprattutto, il milione di persone che come esponente della coalizione Stop the War portò in piazza il 15 febbraio 2003 contro la guerra all’Iraq fortemente voluta da Tony Blair, allora primo ministro (la più grande manifestazione di piazza della storia britannica).

Questa campagna mediatica, che ha indubbiamente indebolito la percezione della figura di Corbyn e della sua capacità di essere all’altezza del compito di governare il paese (ma che non ha determinato l’esito elettorale), è solo l’antipasto della guerra civile che è già scoppiata all’interno del Labour. Il New Labour dispone certamente di mezzi economici e mediatici superiori, ma Momentum (l’ala socialista, principalmente composta da giovani, che ha permesso il risultato straordinario delle elezioni del 2017 e che ha reso il Labour il più grande partito europeo in termini di iscritti) ha, per ora, ancora le redini del partito. La tenuta del corbynismo senza Corbyn (che lascerà dopo un periodo di confronto interno) sarà fondamentale per il futuro del Labour e, senza esagerare, del Regno Unito stesso, ormai fuori dall’Unione Europea, pronto a svendersi a Trump.

Il partito laburista si trova di fronte a un bivio. Da una parte, se l’assalto dei soldati di Blair dovesse avere successo, un’opzione politica centrista. Dall’altra il tentativo di perseguire l’implementazione di un’agenda politica socialista. La prima strada, nonostante il mantra secondo cui sarebbe l’unica opzione vincente (avendo vinto in passato), determinerebbe il collasso del Labour, come dimostrato al livello europeo dallo stato di salute dei cosiddetti partiti socialdemocratici. È opportuno inoltre sottolineare come un programma centrista avrebbe ottenuto una performance elettorale ancora più disastrosa, come dimostrato dal crollo dei LibDem rispetto alle aspettative. Non avrebbe per di più raccolto l’enorme consenso giovanile che invece il programma radicale di Corbyn e McDonnell è stato capace di attrarre (il 60% dei giovani fra 18 e 34 anni ha votato per il Labour). Senza dimenticare che il New Labour, insieme alla de-industrializzazione, agli anni della Thatcher e alla de-sindacalizzazione delle aree ex-industriali, è stato uno dei responsabili dello sgretolamento del cosidetto red wall. Il crollo del Labour nelle West Midlands, nello Yorkshire e nel North East non è stato infatti un evento improvviso di queste elezioni attribuibile a Corbyn e al suo programma radicale: l’ex seggio di Tony Blair (Sedgefield, County Durham, North East) ha visto il partito laburista crollare dal 71% nel 1997 (Blair eletto primo ministro) al 45% nel 2010, per poi arrivare al 36% di giovedì scorso quando è stato strappato dai Tories. Una lunga emorragia di voti dettata dall’impoverimento prodotto dalle politiche neo-liberali di Blair e Brown che a lungo andare ha posto le basi per la vittoria del Leave nel referendum del 2016 in queste regioni. Il New Labour è il problema, non certo la soluzione!

 

 

 

L’unica possibilità per il Labour di sopravvivere a queste elezioni e di tentare di riequilibrare la società britannica segnata da profonde diseguaglianze è la tenuta di Momentum e dei cosiddetti corbynisti. Ricordiamo infatti che nonostante la perdita consistente di voti in queste ultime elezioni, Corbyn ha ottenuto più voti di Blair nel 2005 (quando fu eletto primo ministro), di Brown (2010, sconfitto) e di Milliband (2015, sconfitto). L’agenda radicale di Corbyn e McDonnell ha inoltre imposto temi fondamentali al centro del dibattito elettorale, quali la fine dell’austerità, l’innalzamento del salario minimo e della spesa sanitaria e il miglioramento dei servizi pubblici, ora in estrema crisi. Tutti temi fatti propri anche dai Tories (seppur con previsioni di spesa inferiori) e di cui probabilmente non si sarebbe discusso senza il manifesto socialista del Labour.

Un programma elettorale che, ricordiamo, è stato capace di raccogliere il 32.2% dei consensi attorno a proposte estremamente radicali, quali la socializzazione dei mezzi di produzione (il 10% delle grandi aziende ai lavoratori) e la nazionalizzazione dei servizi pubblici, solo per citarne alcune. Un consenso inimmaginabile in qualunque altro paese europeo. Indubbiamente non sarà facile rialzarsi da questa batosta elettorale e continuare sulla rotta tracciata da Corbyn e McDonnell senza il primo e, forse, neanche il secondo. Così come non sarà semplice resistere agli attacchi ignobili del New Labour e riconquistare fiducia e consensi nelle regioni inglesi impoverite che si sono consegnate nelle mani di chi distruggerà quelle comunità forse definitivamente. Ma è l’unica percorribile per non scomparire e per tentare di costruire una società più giusta. Il tunnel si è rivelato più lungo e buio del previsto. Ma Corbyn e il Corbynismo hanno acceso una possibilità.