ITALIA

Condanne dimezzate al maxi-processo NoTav. Intanto Dana e Fabiola in sciopero della fame

Dana e Fabiola in sciopero della fame il giorno in cui la sentenza d’appello per il maxiprocesso dimezza le pene: gli imputati vengono condannati in tutto a 45 anni di carcere contro gli oltre 80 richiesti durante il processo dal Pm

Dana Lauriola, in carcere da quattro mesi per aver usato un megafono a una protesta No Tav nel 2012, è entrata in sciopero della fame ieri, 21 gennaio 2021 assieme ad altre due detenute della struttura penitenziaria de Le Vallette, S. Calabria e M.E. Calabrese. A loro, il 22 gennaio, si è aggiunta anche Fabiola Costanzo, attivista NoTav in carcere per aver partecipato alla stessa protesta di Dana.

 

A determinare la scelta, le condizioni imposte nel carcere di Torino, in particolar modo le restrizioni alle visite giustificate dalla pandemia, che non sono state sostituite in modo adeguato dalle videochiamate.

 

Nell’articolo che ne ha dato notizia su Notav.info si riporta che «Le sei ore che ogni detenuta ha a disposizione per legge per effettuare colloqui in presenza, sospesi per via della pandemia Covid-19, sono stati sostituiti da video chiamate che però non mantengono mai il monte ore settimanale complessivo, ma al contrario lo diminuiscono se non direttamente dimezzano.»

Le detenute in sciopero della fame chiedono che vengano ripristinati i propri diritti e quindi in particolar modo «vengano immediatamente riammesse le videochiamate, la telefonata ordinaria e anche quella aggiuntiva introdotta proprio durante la sospensione dei colloqui in presenza. […] viene richiesto che tutti i detenuti e le detenute abbiano possibilità di integrare con videochiamate le ore in presenza così da raggiungere comunque il monte ore complessivo settimanale.»

Su Dinamo avevamo già raccontato l’esperienza drammatica dell’epidemia Covid-19 vissuta da dietro le sbarre attraverso le parole di Nicoletta Dosio. Non stupisce quindi che davanti al peggiorare dell’epidemia la situazione sia tornata drammatica per le detenute.

 

Colpisce invece il coraggio di una scelta estrema che denuncia il sistema totalitario del carcere e le scelte operate nel contesto pandemico che violano diritti fondamentali della persona.

 

I giorni che aspettano Dana e le altre detenute diventano così ancora più difficili e drammatici. La notizia della loro decisione è arrivata mentre davanti al Tribunale di Torino un presidio solidale attendeva il risultato della sentenza della Corte di Appello rispetto al maxi processo per lo sgombero della Maddalena e per la manifestazione del 3 luglio 2011.

La sentenza è arrivata dopo ben 12 ore di consiglio. Ricordiamo che vi era stata già una sentenza di appello, nel gennaio del 2015, ma che in seguito nel 2018 la Cassazione aveva rimandato indietro il processo alla Corte d’Appello torinese rivelandone numerose irregolarità.

 

 

La sentenza di ieri riduce in modo elevato il gli anni totali di condanna, assolve alcuni imputati e ne condanna 32, assolve dalle accuse di lesioni leggere e danneggiamento mentre conferma il reato di resistenza a pubblico ufficiale. Per l’accusa di lesioni gravi, le condanne sono più miti.

La sentenza fa proprie alcune delle indicazioni che la Cassazione aveva dato nel 2018, anche se la Procura di Torino mantiene il suo approccio interamente finalizzato a condannare il movimento anziché registrare gli abusi e le violenze compiute in quella giornata dalle forze dell’ordine. Ricordiamo che vennero scagliati per ore candelotti lacrimogeni in faccia alle persone dall’alto del viadotto dell’autostrada.

 

Gli imputati vengono condannati in tutto a 45 anni di carcere contro gli oltre 80 richiesti durante il processo dal PM.

 

Rimane aperta anche ora la possibilità di tornare nuovamente in Cassazione ma in generale l’impianto accusatorio risulta ridimensionato, una spia di questo è la forte insoddisfazione del Procuratore Generale torinese alla lettura della sentenza, che in molti presenti in aula hanno potuto osservare.

Abbiamo raggiunto al telefono Guido Fissore, del movimento No Tav, per commentare la sentenza. «Hanno impiegato 12 ore di camera di consiglio per arrivare alla sentenza, è evidente che si voleva dimostrare di avere tenuto conto delle motivazioni della Cassazione che aveva rigettato il primo processo di appello. In quel procedimento, ad esempio, si accusavano di “lesioni gravi” persone fotografate con un sasso in mano, senza nessuna prova del fatto che quel sasso avesse poi colpito qualcuno.

Accuse di questo tipo sono cadute. La sentenza è meno dura e le condanne dimezzate ma rimane l’amarezza per un procedimento che reprime una legittima protesta sociale. In Italia oggi, per aver tirato un sasso a una manifestazione con quel livello di violenza poliziesca puoi prendere fino a due anni di carcere. Per chi come me ha visto gli anni ‘60 e ‘70, in cui per un blocco stradale neppure venivi denunciato, è ridicolo pensare di essere arrivati a questo livello.

Una volta lette le ragioni della sentenza gli avvocati consiglieranno se ricorrere di nuovo in Cassazione. Ci rimane però la preoccupazione che non vengano accettate le misure alternative al carcere che sono la normalità quando la pena è al di sotto dei due anni. L’accanimento giudiziario del caso di Dana e Fabiola [a cui le misure alternative sono state negate in quanto appartenenti al movimento No Tav, ndr] è un precedente preoccupante».

 

Foto di copertina e nel testo dall’archivio DINAMOpress