DIRITTI

Con gli occhi dell’establishment

Sull’edizione on-line di Repubblica del 28 maggio 2016 è comparso un articolo sulla vertenza sindacale di alcuni lavoratori del teatro Petruzzelli di Bari. Riceviamo e pubblichiamo la lettera di un (ex)lettore del giornale.

L’articolo “Bari, il teatro Petruzzelli tradito dal cavillo di Troia” racconta la vicenda di alcuni orchestrali del prestigioso teatro pugliese che, dopo esssere stati licenziati, si sono rivolti ai giudici del tribunale barese ottenendo il reintegro nei loro posti di lavoro.

Apriti cielo! Una motivata vertenza sindacale assume le sembianze, per l’attento cronista, di un atto quasi eversivo. Gli imbarazzanti strali del giornalista si abbattono (nell’ordine): contro i musicisti “non si sa quanto accordati, intonati, virtuosi … un’Armata Brancaleone di legno e ottoni, di artisti sindacalizzati che scavano il filone come Paperone nel Klondine.”; contro il sindacato: “la parte peggiore della gloriosa Cgil, qui ridotta a sindacato del demerito e del privilegio spacciato per dirittto”; contro il diritto del lavoro: “il teatro Petruzzelli di Bari, che sta per morire per troppa giustizia o se preferite per una sapiente ingiustizia perfettamente legale. Costretto dalla legge, dal comma, dal riferimento, dall’eccezione …”; contro alcuni politici locali: “il sindaco Decaro e il presidente della Regione Michele Emiliano domandano al ministero soldi che non arriveranno mai: la tecnica è quella del più odioso e coriaceo populismo meridionale, chiedere l’impossibile per accendere il collaudato e comprensibile rancore sudista”.

Tanta è la violenza polemica contro gli orchestrali baresi che si giunge ad affermare “… le tangenti sugli appalti, la concussione e la corruzione sono la banalità del male rispetto alla vertenza sindacale seriale, al pataracchio legale delle riassunzioni ..”. Si giunge cioè a sostenere che i reati di cui sono accusati i vertici dell’Istituzione (e non i lavoratori del teatro) sarebbero fatti meno gravi rispetto alle legittime vertenze sindacali intraprese dai dipendenti, un’esilarante affermazione degna di una de “le incredibili arringhe dell’avvocato Messina”.

L’articolo illustra e certifica in maniera inequivocabile l’attuale linea editoriale della testata giornalistica: contro i lavoratori dipendenti, ma anche contro quei sindacati, quelle leggi, quei politici che li difendono.

Il quotidiano del gruppo De Benedetti non sollecita mai l’indignazione del lettore contro i poteri forti, non un articolo contro gli interessi di banchieri, petrolieri, industriali e grandi evasori fiscali. Mai contro “le ingiustizie perfettamente legali” a favore di quell’“1%” della popolazione che detiene più soldi e più potere della restante parte e che ottiene con facilità l’approvazione dei provvedimenti necessari a mantenere la sua posizione di privilegio: dai decreti salva banche al jobs act, dagli scudi fiscali agli emendamenti pro trivelle.

Repubblica legge la realtà con gli occhi dell’establishment.

Solo una visione della società miope e distorta può giungere a teorizzare una sorta di meritocrazia sostanzialmente di classe. La meritocrazia come unico mezzo per raggiungere il successo, ma non per tutti: l’autore dell’articolo è stato recentemente nominato vice direttore dell’informazione Rai (sic!), per l’assegnazione di tale prestigioso e ben remunerato incarico non si rivendica però, come per il più modesto lavoro di corista, un concorso pubblico con “un paravento tra il candidato e la commissione esaminatrice per sfuggire alla clientela e al comparaggio…”.

Per più di trenta anni il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è stato presente nella mia casa. Da alcuni mesi ne leggo solo l’edizione on-line. Anche un solo centesimo di euro per una copia, mi sembrerebbe un prezzo troppo alto da pagare.