OPINIONI

Il caso di Pierre Webo e la lotta contro il razzismo negli stadi

Dopo l’epiteto discriminatorio di Sebastian Coltescu nei confronti del vice-allenatore dell’Istanbul Basaksehir durante la partita contro il Paris Saint Germain, i giocatori hanno deciso di interrompere l’incontro. Un precedente inedito, che riporta sotto il riflettori il razzismo nel mondo del calcio

Non si placano le polemiche intorno all’episodio che ha coinvolto Paris Saint Germain e Istanbul Basaksehir. Martedì sera, al tredicesimo minuto dell’ultimo incontro valido per i gironi di Champions League, le due squadre hanno infatti abbandonato il manto erboso del Parco dei Principi con il risultato ancora fermo sul pareggio senza gol. L’unanime e completamente inedita presa di posizione è arrivata in seguito all’epiteto discriminante che il quarto uomo ha riservato al camerunese Pierre Webo, vice-allenatore della squadra turca.

“Quello nero”, così si è infatti l’arbitro rumeno Sebastian Coltescu ha indicato, al direttore di gara Ovidiu Hațegan, Webo, reo di protestare con troppa enfasi. Hațegan si è diretto verso la panchina della squadra di Istanbul, estraendo il cartellino rosso per l’ex attaccante di Camerun, Maiorca e Fenerbahçe. È stato però subito intercettato da un furente Demba Ba, trentacinquenne giocatore del Basaksehir. Le vibranti proteste del senegalese ex Chelsea hanno attirato le attenzioni dei giocatori del PSG, specialmente di Mbappé e Neymar. Intorno alla panchina della formazione turca è nata così un’accesa discussione che ha portato all’uscita dal campo di entrambe le squadre. Una soluzione che la UEFA non ha mai incoraggiato apertamente.

Istanbul Basaksehir e PSG sono nuovamente scese in campo alle 18,55 del giorno successivo per terminare la partita (poi vinta dalla compagine francese). Mercoledì, prima di riprendere il match, i ventidue giocatori hanno osservato un minuti di silenzio, inginocchiandosi e alzando il pugno destro.  La gara è poi ricominciata dal quattordicesimo minuto, affidata a una quaterna arbitrale del tutto differente. Sebastian Coltescu è stato intanto interdetto, in attesa delle conclusioni di un’apposita indagine disciplinare.

Rientrato in Romania, Coltescu ha rigettato l’accusa di essere razzista, riferisce il sito Prosport, mentre giornalisti suoi connazionali sostengono che, nella concitazione del momento, sarebbe stato a sua volta oggetto di commenti discriminanti. Ma, riascoltando l’audio dei concitati momenti che precedono l’abbandono del campo delle due formazioni, si possono sentire chiaramente le parole, rabbiose ma lucide, di Ba: «Perché quando ti rivolgi ai ragazzi bianchi usi solo il termine “ragazzi” e quando ti rivolgi ai ragazzi di colore usi il termine “ragazzi neri”? Perché? Dimmi perché?». Una denuncia chiara e circoscritta, a cui non si può rispondere, come hanno fatto troppi commentatori italiani, dicendo che in lingua rumena “negru” equivarrebbe al nostro “nero” e sarebbe dunque scevro da ogni intento discriminatorio.

«Condanniamo fermamente le frasi razziste rivolte a Pierre Webo, uno dei tecnici del Basaksehir, e credo che la UEFA farà tutti gli accertamenti necessari. Siamo incondizionatamente contro il razzismo e la discriminazione nello sport e in tutti i settori della vita», ha twittato, in inglese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, da sempre vicino alla squadra di Istanbul. Un messaggio che appare fazioso, ma non nuovo nella strategia mediatica di Erdoğan. Nel 2018 si era infatti fatto fotografare insieme ai calciatori turco-tedeschi Mesut Özil e Ilkay Gündoğan (entrambi militanti in Premier League), spesso indicati come esempi di successo dell’integrazione in Germania. Ciò aveva provocato numerose critiche, soprattutto verso Özil. «La Federazione Calcistica Tedesca ovviamente rispetta la situazione speciale dei nostri giocatori con un background migratorio, ma il calcio e la Federazione rappresentano valori che Erdoğan non rispetta sufficientemente», aveva detto il tesoriere Grindel. Successivamente uno stizzito Özil aveva annunciato il suo ritiro dalla nazionale tedesca.

Era stato allora il meno noto collega curdo-tedesco Deniz Naki a rispondere all’ex Real Madrid. Naki, a cui è stata anche interdetta la professione sportiva in Turchia per tre anni e sei mesi per aver diffuso propaganda separatista e ideologica sui curdi, aveva dichiarato alla stampa tedesca: «Rispetto il suo sentirsi turco. Ma gli chiedo: come calciatore di origini turche non vede le ingiustizie in Turchia? Perché non vede l’oppressione e la persecuzione per le persone di origine curda nel campo sportivo e in altre aree?».

«Molti di voi si chiedono che male ci sia a dare del nero a uno che effettivamente è nero», ha evidenziato la scrittrice Djarah Kan, proseguendo poi: «Quando dici ragazzo nero, oltrepassando il nome, la professionalità, la maglia, il rapporto di lavoro, l’umanità e il campo da gioco, non stai mai dicendo soltanto “nero”. Stai raccontando qualcosa. E lo sai bene che quel “ragazzo nero” saprà a cosa ti riferisci». Appare quindi chiaro l’intento razzista delle parole di Coltescu che, da professionista UEFA, deve seguire costanti corsi d’aggiornamento su come rapportarsi con i giocatori in campo e i vari membri della panchina. «Nella società razzista in cui viviamo, se sei nero non hai il controllo su un caxxo di niente», ha proseguito Kan nel suo lungo status su Facebook: «Puoi essere un nero, un vice-allenatore, un immigrato, un cioccolatino, uno scimmione, un clandestino quando meno te l’aspetti. Tu sei lì a fare il tuo lavoro, e chiunque può cancellare quello hai scelto di essere, ovvero un allenatore, con una singola semplice parola. Tanto quello è un nero e basta».

Il binomio razzismo-calcio ha una storia lunga. A Roma ben si ricorda la vicenda del centrocampista olandese Aaron Winter, nero ed ebreo, acquistato dalla Lazio nel 1992 e accolto dal tifo organizzato bianco-celeste con una serie di invettive che arrivarono fino in parlamento. Infatti, Eugenio Melandri, deputato di Rifondazione Comunista, presentò un’interrogazione ai Ministri del turismo, spettacolo e affari sociali.

Lo scorso weekend, invece, i tifosi del Milwall, formazione londinese che milita nella seconda divisione del calcio inglese, hanno fischiato i giocatori della loro squadra e gli avversari del Derby County mentre s’inginocchiavano in sostegno al movimento Black Lives Matter. Una notizia che nello Stivale non ha riportato quasi nessuno. Merita poi di essere ricordata l’amichevole tra Pro Patria e Milan del 3 gennaio 2013: in quell’occasione fu il ghaneano Kevin Prince Boateng a rispondere ai ripetuti fischi e bu razzisti provenienti dagli spalti dello stadio di Busto Arstizio. La reazione del centrocampista, allora in forza ai rossoneri, fu quella di calciare via il pallone e, insieme ai compagni, abbandonare il campo. Una scelta unilaterale da parte dei calciatori milanisti e molto criticata in Italia: addirittura nel maggio 2015 i giudici della quinta sezione penale della Corte d’appello del tribunale di Milano hanno assolto tutti gli imputati. Tra questi figurava anche il locale assessore leghista Riccardo Grittini.

Segna dunque una rottura la potente decisione delle squadre di Parigi e Istanbul di abbandonare compatti il prato dello stadio parigino: sono stati effettivamente i giocatori delle due formazioni a spingere la UEFA a una riflessione più approfondita e attenta.

«Va detto che quanto avviene anche negli stadi è il riflesso delle nostre società», ha commentato l’attivista sindacale e sociale Aboubakar Soumahoro su Facebook, concludendo: «Quante volte il linguaggio razzializzante viene usato per stigmatizzare, categorizzare e gerarchizzare? […] La lotta ai razzismi non può prescindere dalla lotta alla razzializzazione».