DIRITTI

Caso Budroni, licenza d’uccidere

Assolto. È gelo nell’aula 18, palazzina B, della sezione penale del Tribunale di Roma quando il giudice esprime il suo verdetto sulla mano che ha sparato a Bernardino (Dino) Budroni, 41 anni, freddato sul Grande Raccordo Anulare a macchina ferma da un agente di polizia dopo un inseguimento la notte del 30 luglio 2011. Assolto per uso “legittimo” della forza grazie all’art. 53 del Codice Penale (lo stesso articolo che ha graziato l’assassino di Carlo Giuliani), nonostante la palese violazione della procedura di inseguimento; assolto nonostante Dino fosse a macchina ferma e a mani alzate; assolto, nonostante le prove scientifiche e le registrazioni abbiano dimostrato che i due colpi che lo hanno trafitto siano stati sparati separatamente, e con due diverse traiettorie.

È stata una giornata amara, quella di ieri.

Nella sua arringa conclusiva, il pm Orano aveva chiesto per l’agente Paone 2 miseri anni e 6 mesi di reclusione, identificando l’omicidio di Dino come colposo, figlio dell’eccesso di zelo di un’agente in una situazione concitata, ma comunque un omicidio che non doveva essere. Subito dopo di lui l’avvocato di Dino, Fabio Anselmo, aveva rilanciato presentando le evidenze del dolo, della consapevolezza da parte dell’agente di poter uccidere sparando ad altezza d’uomo, a inseguimento concluso, a un uomo fermo con le mani alzate.

Eppure, il giudice ha assolto. Ha preferito sostenere la tesi della difesa secondo la quale Dino, non avendo «dimostrato rispetto per la vita umana» imboccando il Raccordo a «220 km/h» (Dino aveva una Ford Focus, non una Ferrari!) dopo aver prima minacciato la sua ex-compagna durante una lunga lite, avrebbe legittimato l’agente ad usare qualsiasi mezzo per fermarlo, eliminazione fisica compresa. Insomma, il “mostro” Dino si sarebbe meritato di morire, come il “tossico” Cucchi o l’ “alcolista” Ferrulli.

Ancora una volta lo Stato ha assolto sé stesso giocandosi la carta dell’opposizione qualitativa tra “buoni” e “cattivi”, tra individui di serie A e individui di serie B, per la cui misura del valore della vita esistono due pesi e due misure nettamente distinti, con buona pace di quel “La legge è uguale per tutti” brutalmente sbattuto in faccia in ogni aula di tribunale. Ancora una volta ci siamo trovati di fronte a una sentenza agghiacciante, che grazie a questo gioco ha legittimato ancora la pena di morte per i “cattivi” assolvendo gli assassini in divisa.

Noi a questo giochetto non caschiamo. La storia di Dino ha ancora troppi punti oscuri per essere lasciata morire in un’aula di tribunale. Per questo continueremo a cercare la verità, nonostante la recente assoluzione degli assassini di Michele Ferrulli e la vergogna di ieri ci ribadiscano il delinearsi di uno scenario quanto mai inquietante.

Siamo vicini alla famiglia di Dino e di tutte le altre vittime degli abusi in divisa. Perché non accada mai più.

 

*Acad è l’Associazione contro gli abusi in divisa, per saperne di più clicca qui