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Canada, contro il gasdotto nessuna resa

Nello stato canadese del British Columbia da mesi la popolazione indigena lotta per difendere la terra dalla violenza estrattivista dell’industria fossile. Pubblichiamo questo reportage che racconta l’intreccio tra resistenza ambientalista e lotta anti-coloniale nei giorni di grandi proteste dello scorso febbraio, tratto dal sito indipendente The Intercetp

By Alleen Brown and Amber Bracken. Originally published on February 23, 2020. Translated from English and republished with permission from The Intercept, an award-winning nonprofit news organization dedicated to holding the powerful accountable through fearless, adversarial journalism. Sign up for The Intercept’s Newsletter* [hyperlink: https://theintercept.com/newsletter]

Le settimane che hanno portato all’arresto della dottoressa Karla Tait sono state tese nel campo Unist’ot’en, che per un decennio si è impegnato nell’ostacolare la costruzione di gasdotti per la produzione di combustibile fossile nel territorio non ceduto della Nazione Wet’suwet’en, nella British Columbia. A Capodanno, la Corte Suprema della British Columbia ha emesso un’ordinanza che vieta ai membri della nazione indigena di ostacolare i lavori del gasdotto Coastal GasLink di TC Energy. La Royal Canadian Mounted Police è stata autorizzata a far rispettare tale l’ingiunzione, ma nessuno, in quel momento, era a conoscenza di quando sarebbe intervenuta.

La zia di Tait, Freda Huson, vive sul territorio dal 2010, ossia da quando costruì la prima capanna Unist’ot’en, eretta esattamente sul percorso di almeno tre dei gasdotti che dovrebbero essere costruiti in futuro. Questi si svilupperebbero nel territorio montuoso e incontaminato, fino ad arrivare alla comunità costiera di Kitimat. Il Campo Unist’ot’en, che è con il tempo cresciuto fino ad includere un dormitorio, una tradizionale casa a fossa, zone di caccia e un centro di cura a tre piani, corrisponde ad una delle 13 casate che compongono la Nazione Wet’suwet’en. Il campo è il più antico e il più isolato dei campi Wet’suwet’en, i quali si trovano lungo una vecchia zona di disboscamento attuata come rivendicazione del diritto della nazione di decidere cosa avviene sul loro territorio. Fino al mese di febbraio 2020, gli abitanti potevano ancora controllare l’accesso all’area mediante cancelli costruiti in mezzo alla carreggiata.

La costruzione di uno degli impianti proposti, ossia l’oleodotto per sabbie bituminose Northern Gateway della società Enbridge, è stata annullata nel 2016. Il destino di un secondo impianto, il gasdotto per il gas naturale Pacific Trails, è incerto dopo che la Chevron ha annunciato l’intenzione di cedere la sua quota del 50%. Ma TC Energy, precedentemente nota come TransCanada, ha portato avanti il progetto Coastal GasLink, nonostante l’opposizione dei capi ereditari, tradizionali leader della Wet’suwet’en Nation.

I capi ereditari, insieme ai sostenitori del Campo Unist’ot’en si oppongono alla costruzione dell’oleodotto con la convinzione che potrebbe contaminare il terreno. Quest’ultimo è fonte di sostentamento per gli indigeni, per ricavare cibo, medicinali e acqua. La terra gioca un ruolo fondamentale nella programmazione del centro di cura dell’Unist’ot’en, dove lavora Tait, che cerca di aiutare i pazienti indigeni ad affrontare il danno causato dal trauma della colonizzazione.

TC Energy ha ottenuto una prima ordinanza per costringere i membri dell’Unist’ot’en ad abbandonare la zona di cantiere nel dicembre 2018. I comandanti della Royal Canadian Mounted Police hanno affermato, secondo alcuni documenti rivelati dal quotidiano “The Guardian”, che era necessario un «monitoraggio letale» e hanno ordinato agli ufficiali di «usare tutta la violenza necessaria per varcare il cancello» A gennaio, dopo l’arresto di più di una dozzina di oppositori da parte della RCMP, è stata stabilita una pace forzata. La polizia ha mantenuto la propria presenza nella zona, spendendo più di 3 milioni di dollari per creare una stazione a metà del tragitto che porta ai campi. I membri dell’Unist’ot’en hanno negoziato l’accesso per i lavoratori dell’oleodotto, a condizione che seguissero un protocollo prestabilito, ma la TC Energy ha affermato che i posti di blocco hanno ulteriormente rallentato il loro lavoro.

Nell’ultima ordinanza del tribunale, il giudice ha sostenuto che le rivendicazioni del titolo di proprietà e la giurisdizione della Nazione Wet’suwet’en sono rimaste pendenti. In risposta, gli oppositori del gasdotto hanno abbandonato l’accordo di accesso e i capi ereditari hanno chiesto che Coastal GasLink lasciasse immediatamente il territorio.

Il 6 febbraio, i membri dell’Unist’ot’en hanno assistito, sui social media, ad un drammatico raid prima dell’alba in un piccolo campo di appoggio in fondo alla strada, in cui sono state arrestate sei persone. Ma invece di servire a sedare la resistenza, gli arresti hanno ispirato un’ondata di proteste di solidarietà e di blocchi dei trasporti in tutto il Canada. I manifestanti hanno chiuso porti, strade e ferrovie da Vancouver a Saskatchewan, inoltre un blocco messo in atto dai manifestanti guidati dagli indigeni del Tyendinaga Mohawk Territory in Ontario ha impedito il traffico ferroviario dei pendolari tra Montreal e Toronto.

Almeno 40 ufficiali sono giunti in un secondo Campo Wet’suwet’en il 7 febbraio, arrestando quattro indigeni che si sono rifiutati di allontanarsi. Ci sono voluti altri tre giorni perché la polizia si muovesse verso l’Unist’ot’en.

Il 10 febbraio un elicottero ha trasportato gli ufficiali della RCMP e le loro motoslitte all’entrata del cancello dell’Unist’ot’en. Gli indigeni intanto osservavano da una collina che dominava l’accampamento l’avvicinamento di tali ufficiali. Circondati da tutti i lati, Tait, sua madre, sua zia e quattro sostenitori rimasero in piedi vicino alla barriera, pregando e suonando il tamburo. Tait fu la terza ad essere arrestata. «Due ufficiali mi si sono avvicinati e mi hanno tenuto le braccia per cercare di impedirmi di suonare i tamburi», ha detto. Nonostante la tragica situazione, continuarono a cantare anche mentre venivano caricati sul furgone della polizia.

Oggi, mentre il governo canadese continua a lavorare per sanare il suo rapporto con gli indigeni, per molti gli arresti delle matriarche Unist’ot’en sono rappresentativi della mancanza di volontà del governo di intraprendere azioni significative verso la riconciliazione, specialmente quando si tratta di diritti di possesso della loro terra.  In effetti, documenti scoperti da giornalisti e ricercatori confermano che i funzionari hanno adottato una strategia feroce, per evitare che la rivendicazione dei diritti sulla terra da parte del popolo Wet’suwet’en  ostacolasse il messaggio che il Canada è aperto agli affari.

«La violenza del Canada e la vacuità dei suoi obblighi nei nostri confronti in quanto popolo indigeno  sono stati messi a nudo nelle loro azioni e dalla nostra forzata deportazione, nel bel mezzo di una cerimonia – ha detto Tait – Gli eventi che abbiamo vissuto fino al 10 febbraio sono stati un ennesimo esempio degli sforzi di suddetto paese, per screditarci e stigmatizzarci, a causa della minaccia che rappresentiamo per l’economia capitalistica: per il semplice fatto di esistere sulla nostra terra come abbiamo sempre fatto, per aver difeso i nostri diritti e la nostra economia, così come i nostri modi di renderci autonomi».

Sulla scia delle irruzioni della polizia, i leader del movimento hanno dichiarato: «La riconciliazione è morta».

La fine dei diritti e del titolo aborigeno

La Nazione Wet’suwet’en non ha mai firmato trattati o ceduto territori al governo canadese, atteggiamento che i suoi leader hanno difeso ferocemente sia in tribunale che sul campo. I capi ereditari sono stati artefici di una storica decisione della Corte Suprema del Canada del 1997, nota come Delgamuukw vs la Regina. Questa sentenza sancì l’esistenza di un titolo aborigeno, in base al quale gli indigeni hanno diritto all’uso e all’occupazione esclusiva del territorio. Tuttavia, a causa di un tecnicismo, la Corte non ha ancora risolto la rivendicazione del Wet’suwet’en su 8.500 miglia quadrate di terreno, affermando che il titolo di proprietà avrebbe dovuto essere richiesto attraverso procedimenti legali o processuali separati, i quali però non sono mai stati portati a compimento.

I documenti ottenuti dal “The Narwhal” rivelano che la decisione Delgamuukw colpì fortemente le industrie estrattive canadesi: infatti il governo della British Columbia, una provincia costituita in gran parte da territorio non ceduto, si è affrettato a rassicurare i funzionari delle industrie. Questi ultimi sono invitati a partecipare alla stesura di un trattato per risolvere le questioni riguardanti la sovranità sui territori non ancora ceduti.

Descrivendo un incontro tenutosi sulla scia della suddetta sentenza, Marlie Beets, allora vicepresidente del B.C. Council of Forest Industries, ha comunicato ai funzionari della British Columbia che le nazioni indigene devono cedere la loro terra al Canada. «La decisione evidenzia ancor più chiaramente il bisogno di garanzie attraverso la loro resa – ha detto – Non ci sono alternative».

Anche altre industrie hanno fatto eco all’allarme. «Le industrie del petrolio e del gas si sono dette preoccupate per la loro possibilità di continuare a fare affari in tale provincia, qualora non ci sia una chiara indicazione da parte del governo su come affrontare le implicazioni della decisione di Delgamuukw”», ha dichiarato in una nota il team strategico di Delgamuukw formato dal governo. Durante un incontro organizzato dai membri del governo della British Columbia delegati per il trattato, un avvocato, il cui cliente non è noto, ha sottolineato che «ciò che serve è uno scambio chiaro, nonché la fine dei diritti e del titolo degli aborigeni a favore di diritti ben definiti basati su un trattato».

La sentenza Delgamuukw ha avuto luogo proprio mentre si discuteva di come il Canada avrebbe dovuto affrontare i gravi danni causati dal sistema scolastico residenziale canadese. Per più di un secolo il Canada ha allontanato con la forza i bambini nativi dalle loro famiglie e li ha mandati in scuole lontane, dove è stato loro proibito di parlare la loro lingua e di praticare la loro cultura. Molti hanno subito abusi fisici e sessuali.

Mentre i funzionari si preoccupavano per la decisione del tribunale, il governo federale fornì una concessione di 350 milioni di dollari alla Aboriginal Healing Foundation, destinata ai sopravvissuti delle scuole residenziali canadesi. In una nota al Ministero degli Affari Aborigeni della British Columbia, i negoziatori del trattato hanno suggerito che il denaro poteva essere usato come incentivo. Il comunicato indica che dare la priorità alle Prime Nazioni che hanno partecipato al processo di negoziazione potrebbe «addolcire l’accordo».

«Mentre i funzionari pubblici hanno fatto un brainstorming sulle modalità con cui procedere, sono state avanzate molte idee». «La concessione non è mai stata usata per questo scopo», ha detto Sarah Plank, direttore delle comunicazioni del Ministero delle relazioni con gli indigeni e della riconciliazione, in una dichiarazione a “The Intercept“. «L’approccio della provincia è cambiato negli ultimi 20 anni – ha aggiunto – e non richiede alle nazioni indigene di rinunciare ai loro diritti». Plank ha descritto la riconciliazione come un «viaggio di tutta la società» che si realizza al meglio con il feedback delle parti interessate, inclusa l’industria.

Il primo checkpoint Unist’ot’en è stato costruito un anno dopo l’istituzione di una Commissione per la Verità e la Riconciliazione, la quale venne creata per offrire indicazioni su come il governo canadese avrebbe dovuto affrontare l’impatto del sistema residenziale. Con il campo Unist’ot’en situato nel mezzo di un corridoio per i rifornimenti creato per rafforzare lo status del Canada come superpotenza energetica e con il caso Delgamuukw che ha minato i tentativi del Canada di scavalcare i capi ereditari Wet’suwet’en, si è creato il palcoscenico per uno stridente scontro tra la riconciliazione e gli interessi dei combustibili fossili.

Foto di Jason Hargrove

Protest sign hands off building in background- Wet’suwet’en Solidarity Event – Toronto Train Stopped at Dufferin Street and Bartlett Avenue in Toronto – Saturday, February 8, 2020

Soffocare il movimento

La Royal Canadian Mounted Police ha svolto un ruolo chiave nel tentativo del Canada di proteggere gli interessi commerciali dalle rivendicazioni delle terre indigene. Le forze dell’ordine hanno monitorato attentamente il campo Unist’ot’en fin dalla sua nascita, etichettando come estremisti coloro che sono coinvolti nella resistenza Wet’suwet’en. In base ai documenti ottenuti da Andrew Crosby e Jeffrey Monaghan, autori del libro Policing Indigenous: Dissent and the Security, la sezione Aboriginal Policing Services della RCMP della Columbia Britannica avrebbe fatto circolare aggiornamenti riguardo al campo, sorvegliando le attività ordinarie come la costruzione di un deposito sotterraneo e di un giardino.

Il campo è stato anche preso di mira da un programma di sorveglianza RCMP chiamato Progetto Sitka. Il programma è stato lanciato sulla scia delle massicce proteste di Idle No More del 2012 e del 2013, ispiratesi in parte alle contestazioni degli indigeni nei confronti del gasdotto Northern Gateway e alla legislazione che limita la loro partecipazione ai progetti di sviluppo. Utilizzando metodologie pseudoscientifiche, l’RCMP ha cercato di prevedere quali fossero i partecipanti dei movimenti sociali indigeni più a rischio di comportamenti illegali o pericolosi, indagando su 300 attivisti e compilando una lista di 89 che meritavano un monitoraggio continuo.

Secondo un rapporto dell’RCMP del 2015, sedici attivisti della lista Sitka provenivano dalla Columbia Britannica e la maggior parte di loro era coinvolta nel campo Unist’ot’en. Secondo una stima dei rischi effettuata dall’agenzia canadese per la risposta alle emergenze, il sito Unist’ot’en rappresenta il «punto focale ideologico e fisico della resistenza degli aborigeni ai progetti di estrazione delle risorse» in tutto il Canada.

Un portavoce dell’RCMP, Janelle Shoihet, ha dicbiarato a “The Intercept” che il progetto Sitka si è concluso, inoltre ha affermato che «il Progetto SITKA è stato creato appositamente per separare gli individui che volevano semplicemente impegnarsi in una protesta legittima e quelli che invece, avrebbero compiuto atti illegali e violenti […] La RCMP non si rivolgeva solamente ai manifestanti indigeni».

Shoihet ha aggiunto che l’agenzia di polizia è coinvolta in un nuovo impegno per rinnovare il rapporto con gli indigeni. «Gli sforzi di riconciliazione della RCMP sono messi in discussione quando il nostro ruolo di agenzia di polizia ci porta in un potenziale conflitto con le popolazioni indigene, difensori dei territori e loro sostenitori […] Gli ufficiali dell’RCMP sono in regolare contatto con i leader indigeni e con i manifestanti, per promuovere un dialogo costruttivo sulle questioni che vengono sollevate».

Tuttavia, per molti, il coinvolgimento dell’RCMP nella difesa del progetto Coastal GasLink rappresenta un ulteriore capitolo, nella storia dell’agenzia, volto ad allontanare gli indigeni da terre ambite dai colonizzatori. Nello stesso anno in cui la RCMP ha fatto circolare la lista di controllo Sitka, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione emise le sue raccomandazioni. Tra queste c’era la richiesta di far ottenere alle aziende «il consenso libero, preventivo e informato delle popolazioni indigene prima di procedere con progetti di sviluppo economico».

La British Columbia ha ripetutamente sottolineato il fatto che cinque dei sei consigli eletti da Wet’suwet’en figuravano tra i 20 governi di riserva della Prima Nazione che hanno firmato accordi di assistenza con la Coastal GasLink. Diciassette hanno anche firmato accordi con il governo della British Columbia. Tuttavia, a detta di Shiri Pasternak, professore della Ryerson University e direttore di ricerca presso il First Nation-led Yellowhead Institute, che ha ottenuto i documenti pubblicati da “The Narwhal”, gli accordi per il Coastal GasLink sarebbero stati ottenuti in modo coercitivo. In un accordo del 2015 ottenuto da Pasternak, la British Columbia ha promesso, in cambio del consenso, 46 milioni di dollari in 40 anni a una Prima Nazione.

«Qui c’è il premier della provincia che giustifica ripetutamente al popolo e alle Prime Nazioni che questi progetti portano prosperità economica e noi non dovremmo essere d’intralcio», ha detto Pasternak. Ha poi aggiunto che ciò non rappresenta una vera scelta per le comunità che da tempo sono affamate di risorse. «I programmi che la provincia e i governi federali hanno scarsamente finanziato a livello sistemico per decenni e decenni sono ora condizionati alla sottoscrizione di progetti infrastrutturali con grosse criticità. È moralmente riprovevole e fallimentare».

Inoltre, i capi ereditari Wet’suwet’en sottolineano che mentre i governi eletti della Prima Nazione possono esercitare la giurisdizione sulle terre di riserva, la grande maggioranza delle quali non è interessata dal gasdotto, la sentenza Delgamuukw e una successiva ordinanza del tribunale affermano che nel territorio tradizionale attraverso il quale passa Coastal GasLink, sono i capi ereditari a far prevalere la propria autorità.

La British Columbia è da quasi un anno in trattativa con i capi ereditari Wet’suwet’en sui diritti di terra e sul titolo, ha dichiarato a “The Intercept” Plank, il portavoce del Ministero delle relazioni con gli indigeni e della riconciliazione della British Columbia. Ciò nonostante, il capo dell’agenzia, Scott Fraser, ha dichiarato che non è in gioco l’approvazione del governo per il Coastal GasLink.

Il portavoce ha sottolineato la recente approvazione da parte del legislatore provinciale di un disegno di legge che sancisce la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni come prova dell’impegno della British Columbia per la riconciliazione. Ma nonostante il linguaggio della stessa richieda «il consenso libero, preventivo e informato» dei nativi interessati per i progetti di sviluppo, Fraser ha detto che la legge non darà alle nazioni indigene il potere di veto sui gasdotti.

Il continuo coinvolgimento dell’Rcmp nel territorio Wet’suwet’en sfida ulteriormente gli sforzi della provincia per ufficializzare i diritti delle terre indigene. «La riconciliazione non può essere ottenuta con le armi», ha affermato in un’intervista alla Canadian Broadcast Corporation il presidente dell’Unione dei capi indiani della Columbia Britannica, il Gran Capo Stewart Phillip della Nazione di Okanagan.

Il blocco continua

Quasi due settimane dopo il raid al campo Unist’ot’en la remota stazione RCMP nel territorio Wet’suwet’en risulta ancora attiva. Sebbene la polizia non abbia tentato di entrare nel centro di cura, ne sorveglia il terreno 24 ore su 24, 7 giorni su 7, ha detto Tait. Lei e la sua famiglia sono state rilasciate subito dopo l’arresto, ma una delle donne arrestate per strada, che si fa chiamare Lady Chainsaw, è rimasta in carcere per 11 giorni, rifiutando di accettare di fermare i lavori di costruzione.

Le proteste di solidarietà sono continuate e il blocco dei Mohawk è rimasto in vigore. Via Rail ha dichiarato che 100.000 persone che si servono del treno hanno dovuto trovare altri mezzi di trasporto, mentre il capo dei produttori e degli esportatori canadesi ha dichiarato che ogni giorno vengono bloccati 425 milioni di dollari in prodotti. I partecipanti alla protesta dicono che non si tireranno indietro a meno che l’RCMP non lasci il territorio Wet’suwet’en. La polizia ha annunciato che si ritirerà, a patto che la strada rimanga aperta per i lavoratori degli oleodotti.

Nel frattempo, il primo ministro Justin Trudeau ha organizzato incontri per cercare di trovare una via d’uscita amichevole per indigeni e anche per l’industria dei combustibili fossili. Ma alla conferenza stampa di venerdì, ha dichiarato: «Resta il fatto che ora le barricate devono essere abbattute. Le ordinanze devono essere obbedite e la legge deve essere rispettata».

«Non c’è da stupirsi se il Canada, in ultima analisi, vuole continuare a cercare profitti e ricchezza a costo di vite umane e diritti», ha detto Tait. Ha aggiunto che la interruzione delle ferrovie è un chiaro segnale della devastazione economica causata da secoli di tentativi del governo canadese di accedere con la forza alla terra degli indigeni. «È davvero triste che si sia dovuto arrivare a questo punto».

Traduzione di Petra Zaccone per DINAMOpress

Foto di copertina di Jason Hargrove (group shot with police on left – crowd behind – on the railway tracks – Wet’suwet’en Solidarity Event – Toronto Train Stopped at Dufferin Street and Bartlett Avenue in Toronto – Saturday, February 8, 2020)

Text by Alleen Brown and Amber Bracken. Originally published on February 23, 2020. Translated from English and republished with permission from The Intercept, an award-winning nonprofit news organization dedicated to holding the powerful accountable through fearless, adversarial journalism. Sign up for The Intercept’s Newsletter* [hyperlink: https://theintercept.com/newsletter]