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MONDO

Brucia l’Amazzonia. Il reportage dal Brasile

Il modello estrattivista, l’esportazione di carne e soia, il razzismo e la violenza fomentati da Jair Bolsonaro sono alcuni dei combustibili che stanno bruciando l’Amazzonia. Cosa dicono le comunità sotto attacco. I crimini. Le donne. Le sorprese. Cosa significa resistere? Azioni nella giungla più grande del mondo affinché la vita sia possibile

La frontiera sembra irreale ed è larga quanto un passo. Siamo arrivati dopo due ore e mezza di cammino accidentato e affascinante, con due capi Apuriná che non hanno bisogno di Gps per orientarsi nella giungla, ma solo anima e sguardo. In questa frontiera si può mettere un piede sul verde, sul fertile, pieno di alberi, di umidità, di vibrazioni, e l’altro piede su di una landa grigia, scura, bruciacchiata, in cui il sole riscalda l’aria a 38 gradi sopra il suolo carbonizzato, dove quella che una volta era vegetazione adesso è cenere, resti di tronchi, rami neri e silenzio.

 

Tra i due paesaggi vola una farfalla nera e blu; ogni ala delle dimensioni di una mano. Svolazza fino al lato verde del confine, oscillando su alcuni oggetti per niente selvatici gettati a terra: tre bidoni di combustibile già svuotati.

 

I capi rimangono perplessi guardando i bidoni che di solito qui vengono utilizzati per reati secondari: alimentare le motoseghe con le quali vengono abbattuti gli alberi; appiccare il fuoco con il quale si brucia quello che rimane della più grande foresta pluviale del pianeta: dicono 6,7 milioni di chilometri quadrati, il che significa che non è infinita. Il lato bruciato dell’universo ci mostra che uso è stato fatto del carburante. La farfalla nera e blu fugge via. Il capo Antonio José sorride sempre, ma ora lascia i bidoni senza un gesto e pronuncia una delle sue parole ricorrenti in questi tempi anomali: «Psicopatici».

 

Foto di Nacho Yuchark

Modalità Bolsonaro

Esiste un luogo comune secondo il quale il fuoco purifica. Nel territorio Apuriná, nello stato di Amazonas, annusando e osservando la foresta bruciata, capisco che non è vero: il fuoco può essere espressione del marcio.

C’è una data precisa: gruppi di produttori agricoli (fazendeiros) dello stato di Pará [stato costiero confinante con quello di Amazonas – ndt] hanno definito su WhatsApp il 10 agosto come Giorno del Fuoco. Il mondo se ne è accorto dopo, quando gli incendi dolosi continuavano e si propagavano anche negli stati di Amazonas, Rondônia e Acre [al confine con Perù e Bolivia – ndt] e le foto satellitari da 20mila chilometri di altezza hanno mostrato quelli che qui chiamano bruciate. Siamo arrivati ad avere più di 80mila focolai, quasi il doppio di quelli verificatisi nella giungla durante tutto il 2018. Secondo i dati ufficiali, un totale di 2 milioni e mezzo di ettari sono stati bruciati, superando di tre volte i titoli dei giornali. La dimensione della provincia di Tucumán [provincia nel nord dell’Argentina – ndt].

La notizia ha scosso la nostra cooperativa di lavoro Lavaca senza alcuna possibilità di sostenere i costi di un viaggio di tale portata nel bel mezzo degli incendi economici argentini. Autogestione: è stata lanciata una colletta, una raccolta fondi. Decine di persone hanno contribuito, rafforzando un legame che è quello dell’amicizia, e non solo della lettura di fronte al sentimento comune che ci stanno bruciando il mondo. E per l’idea che il giornalismo, tra le altre cose, significhi cercare di essere nei luoghi in cui si verificano gli eventi. I membri di Via Campesina [movimento internazionale che raggruppa le organizzazioni contadine di varie parti del mondo – ndt] hanno costruito con entusiasmo il ponte con Rose Padilha del Cimi (Consiglio Indigenista Missionario) che ci ha generosamente aperto le sue porte a Rio Branco, nello stato di Acre [stato al confine con il Perù – ndt], e il viaggio impossibile è stato realizzato fino a raggiungere questi territori, questi indigeni e questi bidoni, sotto il mandato di Jair Messias Bolsonaro.

 

Bolsonaro, 64 anni, è arrivato a essere capitano paracadutista dell’esercito brasiliano pur essendo criticato per il suo carattere aggressivo e, secondo il commento del suo ex capo, il colonnello Carlos Pellegrino, «per la mancanza di logica, razionalità ed equilibrio nella presentazione delle sue argomentazioni».

 

Conclusione: è diventato un politico, funzione per la quale si è lanciato senza paracadute e grazie alla quale si mantiene da più di 30 anni.

Il capo Francisco mi spiega che Bolsonaro è sostenuto dall’area parlamentare e politica conosciuta come BBB: biblia, bala y buey [bibbia, proiettili e buoi – ndt]. “Bibbia”, per i pastori evangelici, che sono stati alleati anche del PT [Partido dos Trabalhadores, Partito dei Lavoratori, al governo con Lula e Dilma Roussef – ndt]. “Proiettili”, per i settori pro-militaristi, pro-polizia e a favore degli armamenti. “Buoi”, comprende l’agroalimentare in generale, con l’allevamento e la coltura di semi di soia transgenica come simboli. Dal settore “Buoi” del parlamento proviene l’attuale ministro dell’Agricoltura Tereza Cristina, che i suoi stessi vicini di banco hanno soprannominato “Musa del Veleno” dopo che ha liberalizzato l’uso di 199 nuovi pesticidi, metà dei quali vietati in altri paesi, principalmente europei. Padre Dario Bossi [missionario comboniano del Cuore di Gesù, congregazione religiosa attiva nell’opera di apostolato – ndt], dallo stato di Pará, illustra: «Il Servizio forestale brasiliano è stato trasferito nelle mani di questa signora e minacciano di aprire le terre indigene all’agroalimentare e all’estrazione mineraria».

 

Foto di Nacho Yuchark

Il 1° gennaio Bolsonaro ha assunto la presidenza dopo aver battuto Fernando Haddad [candidato del Partito dei Lavoratori – ndt] al ballottaggio, con Lula agli arresti. È razzista convinto, omofobo, machista fino al delirio, disprezza le donne, si è lamentato che l’esercito brasiliano non è stato efficiente nello sterminio degli indios, difende pubblicamente la tortura, elogia i poliziotti che uccidono e mentre crea scandalo con le sue provocazioni impone riforme economiche neoliberiste, privatizzazioni, estensione dell’uso di armi ai civili, militarizzazione della società e dei territori, definanziamento del welfare e dell’istruzione, libertà incondizionata per qualunque azione delle grandi imprese. Sulla corruzione, come al solito, sapremo sempre di più in parallelo con il suo deterioramento al potere.

Il sociologo Caetano Pereira de Araujo da Brasilia spiega a MU [rivista della cooperativa Lavaca – ndt]: «Il rischio è che queste persone cerchino di colpire la democrazia se questa mette a rischio il loro potere. Il malcontento che ha [Bolsonaro] a nove mesi dall’assunzione dell’incarico è già il più alto tra tutti i presidenti democratici. La sua cerchia ristretta è dominata da Olavo de Carvalho, filosofo e astrologo che ha sempre un fare cospiratorio e fascista che può determinare forme di colpo di stato istituzionale laddove necessario per continuare a governare». Conoscendo la storia recente, l’arresto vergognoso di Lula e i livelli lisergici di corruzione nelle istituzioni e nelle opposizioni di ogni genere, non serve affidarsi all’astrologia per immaginare delle cospirazioni.

Sull’Amazzonia, Bolsonaro ha detto che la delimitazione delle terre che competono per legge alle popolazioni indigene e che rappresenta la loro principale richiesta sarebbe un crimine contro la patria. Di fronte alla crisi economica, propone di sfruttare il potenziale economico dell’Amazzonia, dando via libera all’agroalimentare, alle miniere e all’industria del legno, tra i tanti settori.

 

La ricchezza di quella che viene classificata come l’ottava potenza economica mondiale è in mano di pochi: il Brasile rimane uno dei paesi con più disuguaglianze al mondo (10°) e con un divario crescente. I sei patrimoni principali dispongono di più ricchezza dei 100 milioni di abitanti più poveri.

 

Durante un viaggio nello stato di Pará, Bolsonaro si è riunito con un gruppo di proprietari terrieri garantendo meno controlli sull’espansione della frontiera agricola a ridosso della giungla. La chiamata per il giorno del fuoco il 10 agosto si è verificata nella località di Novo Progresso [all’interno della Foresta Nazionale di Jamanxin – ndt].

Le chat di Whatsapp sono diventate virali, così come le fiamme. Per diversi giorni né il governo federale né quelli locali hanno fatto nulla per fermare il disastro. Bolsonaro si è concentrato nel distrarre i progressisti prendendosi gioco del francese Emmanuel Macron e di sua moglie Brigitte, o denunciando che forse erano stati gli ambientalisti ad aver appiccato gli incendi, il che gli garantiva più tempo per parlare mentre il fuoco continuava a consumare parte dell’Amazzonia. Nell’era della post-verità, Jair Messias [Bolsonaro] fomentava l’odio sostenendo che le popolazioni indigene vogliono rendersi indipendenti dal Brasile (una menzogna clamorosa, nel caso in cui fosse necessario specificarlo), dava ordine di insabbiare o ritardare i rapporti sui roghi e si divertiva a presentarsi come nazionalista BBB in lotta contro il colonialismo europeo.

 

 Foto di Nacho Yuchark

A che serve bruciare?

In quattro giorni di viaggio attraverso circa 1.500 chilometri ci siamo imbattuti in tre incendi boschivi. A 20mila chilometri di altezza, i satelliti stavano registrando quelle macchie rosse. Al livello del suolo quello che si registra è il calore, il crepitio e i bagliori delle fiamme, l’odore, la scomparsa della vita. Antonio José spiega: «A volte bruciano direttamente, come ora, perché la stagione secca permette al fuoco di propagarsi. Altrimenti, prima tagliano gli alberi, li lasciano essiccare per alcuni mesi e poi bruciano tutto. Dopo qualche tempo, spunta l’erba che usano per il bestiame».

Ecco perché il paesaggio più frequente lungo le strade sono le centinaia o migliaia di buoi bianchi, a seconda del campo, che fanno parte dei 220 milioni di capi di bestiame di cui dispone il Brasile. La produzione è quadruplicata negli ultimi decenni e [il Brasile] è diventato il più grande esportatore di carne al mondo. Principali clienti: Hong Kong, Cina, Egitto e Unione Europea, in quest’ordine.

 

L’Europa acquista carne in quantità ingenti e protesta pubblicamente contro i roghi. Più a sud e più a est, i buoi sono sostituiti dalla soia transgenica. Il Brasile è il più grande esportatore al mondo e quest’anno è diventato anche il più grande produttore, superando gli Stati Uniti (Argentina è al terzo posto).

 

I problemi nordamericani stanno aprendo il mercato cinese ai brasiliani ed è in questa domanda di carne e soia che risiede la chiave della necessità di rivoltare la giungla.

 

Foto di Nacho Yuchark

Gli Apuriná conoscono i meccanismi dei fazendeiros perché hanno dovuto fare un patto di convivenza: «Noi nella giungla, loro con le praterie ad allevare i buoi». Nulla ha impedito che il Giorno del Fuoco venissero bruciati 600 ettari del territorio rivendicato dalle popolazioni indigene. «Non possiamo fare nulla, perché non c’è rispetto. Non vogliamo essere proprietari, ma vivere, curare, preservare. Non difendiamo la natura: siamo la natura. Anche con il PT abbiamo avuto molti problemi. Ma questo psicopatico è peggio».

Alle sei del pomeriggio è già buio. Non c’è elettricità, né segnale del cellulare, e hanno preparato un’umile capanna con delle amache così che possiamo riposare. Illuminati dalle candele, arriva il momento di condividere riso, fagioli e pesce preparati da Antonia, la moglie di Francisco. Antonio José, con una lanterna da minatore sulla fronte, legge alcune mappe su cui hanno segnato ogni centimetro del territorio che rivendicano e dice: «Una persona sola non può far funzionare il mondo. Per resistere dobbiamo essere un collettivo».

La capanna è costruita su dei pali, non per le inondazioni ma per evitare visite sgradite della fauna amazzonica. «Ci saranno anaconde?» È stata la domanda posta tra le risate, nemmeno troppe, al capo Francisco. «No», ha risposto sornione. «Qui sono più piccole».

 

 Foto di Nacho Yuchark

Cos’è il potere?

I rapporti mostrano che l’Amazzonia in modalità inferno mette a rischio 40mila specie di piante, 1.300 tipi di uccelli, 426 varietà di mammiferi e potrebbero aggiungersi i dati su rettili, pesci e insetti, senza parlare dei microrganismi, delle sostanze, dei batteri e tutto ciò che può essere rappresentato da un termine buono per la stampa: biodiversità.

Ovvero, la vita, perché la vita è diversa per sua stessa natura. In Amazzonia questo è ancora più ovvio. Si sente. Quando si parla di “perdita della biodiversità”, ciò che in realtà si perde è la vita. Si uccide. Forse gli indigeni hanno il pensiero biologico più avanzato, visto che ritengono che anche l’acqua, la terra, l’aria, le montagne e i minerali siano parte della vita. Non fanno distinzione tra le persone e la natura, né tra la vita e l’ambiente.

A Xapurí [cittadina dello stato di Acre, al confine con la Bolivia – ndt], Dercy Teles de Carvalho [vicepresidente del Sindacato dei Lavoratori Rurali del Brasile – ndt] lo dice da un altro punto di vista: «La lotta sindacale ci ha fatto capire la necessità di difendere la natura. Siamo parte dell’ambiente, non esiste sostenibilità senza l’essere umano. E i seringueiros (lavoratori della gomma) che abbiamo difeso non potevano vivere senza la giungla».

Dercy abita in una bella casetta, circondata dal paradiso rappresentato da un luogo non devastato dalle monocolture o dall’industria agroalimentare. Nel 1981 è stata la prima presidente del Sindacato dei Lavoratori Rurali e si è adoperata politicamente e umanamente con Francisco “Chico” Mendes [lavoratore della gomma e sindacalista, assassinato il 22 dicembre 1988 – ndt]. Dercy si era formata all’interno della Teologia della Liberazione e Chico era un lavoratore, venditore di gomma entusiasmato da quella teologia, oltre che dall’ideologia marxista e dai molti sogni di cambiamento sociale degli anni ‘60 e ‘70.

 

Chico Mendes è stato un visionario che ha unito il politico, il sindacale, la giustizia sociale e ambientale, con un implacabile pacifismo che includeva gli “empates” (come gioco di uguaglianza), azioni dirette per prevenire la deforestazione che stava già iniziando a devastare l’Amazzonia: realizzavano barricate umane abbracciando gli alberi.

 

Chico e Dercy sono stati tra i fondatori del PT e la figura di Mendes è diventata sufficientemente forte da spingere il potere a risolvere il problema rapidamente: lo hanno ucciso a colpi di arma da fuoco sulla porta di casa sua a Xapuri nel dicembre 1988. Dercy: «La sua morte è stata un duro colpo per il movimento sindacale, per il movimento sociale». E un messaggio sul livello dello scontro che la difesa della vita comportava.

Un salto nella storia: «Quando il PT è salito al potere, ha cambiato la sua posizione e ha agito da catalizzatore per lo smantellamento dei movimenti sociali. Allo stesso tempo ha promosso anche l’agroalimentare e frenato le lotte. Quelli che erano stati i tuoi compagni erano adesso nello Stato. La gente diceva, “il governo è nostro”, ma erano quelli che stavano a Brasilia con lauti stipendi mentre annullavano i movimenti.

 

Il fatto che il partito che hai aiutato a costruire sia al potere non significa che tu abbia il potere. Avremo il potere solo quando saremo organizzati con autonomia e pronti ad intervenire nella realtà.

 

Il PT ha disorganizzato i movimenti, ha dato del pesce alla gente ma non le ha insegnato a pescare, ha lasciato tutti condizionati. A volte mi chiedo se non fosse una forma di alienazione».

Oggi Dercy continua il suo lavoro con gli indigeni e parteciperà con le comunità al Sinodo dei Vescovi sull’Amazzonia, convocato nel mese di ottobre da Papa Francesco in Vaticano. L’incontro promette clamore in Brasile: storicamente, la Chiesa ha sempre avuto posizioni di contrasto verso i poteri economici e politici e questo agosto 50 vescovi hanno denunciato l’inquinamento, la depredazione, l’azione delle imprese e la violenza che «è cresciuta in maniera spaventosa» contro le comunità e le organizzazioni che difendono la natura e combattono le disuguaglianze. Lo scontro promette di essere con il governo di Bolsonaro e, su un altro livello, con i suoi alleati delle chiese neopentecostali più reazionarie e combattive verso la Chiesa.

 

Foto di Nacho Yuchark

Cosa si intende per Amazzonia?

La violenza non è retorica. Maxciel Pereira, un collaboratore della Funai (Fondazione nazionale dell’indio), il cui compito era quello di fermare i tentativi di invasione dei territori indigeni nella valle di Javarí nell’Amazzonia occidentale, è stato ucciso con due colpi alla nuca mentre facevamo il nostro giro. Pochi giorni prima, era stata uccisa Emyra Wajãpi, leader della comunità Wayampi [gruppo etnico che vive negli stati di Amapá e Pará – ndt]. Il Cimi ha registrato quasi 200 omicidi per conflitti territoriali negli ultimi due anni e solo nel 2018 ci sono state 2.305 famiglie espulse dalle loro terre da parte di privati, il 59% in più rispetto all’anno precedente. «Queste famiglie vanno nelle periferie urbane e sono sottoposte alla fame, iniziano a vedere i loro figli cadere nei problemi di prostituzione, droga e così via», spiega Dercy.

Nel 2019, tutti gli indici sembrano essersi impennati ma i dati precisi, incluse non solo le morti ma anche le minacce, i tentati omicidi, le lesioni, la violenza istituzionale e persino i suicidi (che in questo contesto sono un altro effetto dell’attacco sistematico alle comunità), si conosceranno in ottobre.

Il popolo Huni Kuin ha 11mila membri e una delle sue comunità, a 60 chilometri da Rio Branco [nello stato di Acre, al confine con il Perù – ndt], ha visto come gli hanno bruciato i loro 10 ettari di foresta. «Una moto si è fermata lì, poi se ne è andata, e di colpo è iniziato l’incendio», dice Ixa, giovane ventiduenne. «Ci vorranno 10 o 20 anni perché questi alberi crescano», dice senza smettere di sorridere.

Cosa dobbiamo fare? «Noi vogliamo vivere. Tutto il problema viene dal governo. Ma ho deciso una cosa: io non gioco il loro gioco. Sono uscito dai social, da tutto. Voglio solo lavorare per far crescere tutto questo. Questo è quello che diciamo. Lavorare affinché la vita prosegua e cresca di nuovo. La nostra è una politica, ma non come una delle loro: è una politica sana».

Rose Padilha conclude: «Queste comunità hanno una spiritualità per la felicità. Non è come quella cattolica, che è pesante, con la confessione, il dogma. Per loro Dio è la natura, la terra, l’acqua, gli uccelli. Nessuno al di sopra. Ecco perché hanno anche una sessualità molto libera».

 

Samé, 33 anni, è nonna. Dice che ci sono uomini che hanno due donne. «Ma conosco anche donne che hanno uomini diversi. Le donne fanno tutto il lavoro degli uomini, ma in più lavoriamo anche in casa, laviamo i vestiti, ci prendiamo cura dei figli. Non è molto giusto, ma sta cambiando», dice con convinzione.

 

Ixa prende una chitarra e canta. Uri suona un tamburo e Tene una maraca. Mi invitano a sedermi e la canzone funziona come una preghiera per nulla pomposa. Gli Huni Kuin vivono di autoconsumo, ma producono anche artigianato ed erbe medicinali con cui il capo e fratello di Ixa, Mapu, è stato invitato in Repubblica Ceca per iniziare gli europei all’arte incontrarsi con se stessi e celebrare cerimonie che equilibrino mente e spirito: «Bisogna tagliare l’energia negativa», spiega Ixa. «Noi vendiamo cose, ma non vogliamo dipendere dal mercato». Suo padre, Isaka, è il pajé della comunità, lo sciamano. Indossa una corona fatta di piume arancioni di arará, che lo mettono in collegamento con lo spirito. Isaka indica la foresta bruciata e dice: «È molto triste».

Che cosa deve succedere ancora perché le cose cambino? «Oggi non c’è pace. Non possiamo stare insieme. Però può esserci rispetto. E ci deve esserci amicizia». Gli Huni Kuin non saranno amici di chi gli dà fuoco o li vuole cacciare, ma di fronte alle dinamiche dell’odio il fatto che qualcuno parli di una strategia dell’amicizia può essere un punto di partenza politico innovativo. Gli Huni Kuin usano una parola per rivolgersi all’altro: txai (chai).

 

Il giornalista Douglas Freytas spiega: «Txai è che in me c’è qualcosa dell’altra persona, e che nell’altro c’è qualcosa di me». Come dice Ixa, forse quel modo di pensare il comune potrebbe essere uno stile di resistenza: lavorare affinché la vita sia possibile.

 

Douglas, che sta facendo un documentario sulle comunità, aggiunge: «Quello che ho imparato è che la chiave per la conservazione dell’Amazzonia sono le popolazioni indigene. Che le lotte reali sono nei territori e le più importanti sono le ‘riconquiste’, le riappropriazioni di terre che si stanno verificando di continuo e in vari posti». Negli ultimi 3 anni sono stati registrati 506 riconquiste. Lindomar Padilha, filosofo che ha vissuto 25 anni in una comunità, chiede: «La resistenza è restare sulla difensiva, sperando che non ci uccidano? Penso che la resistenza sia azione non violenta, un percorso non difensivo. È starci e rimanere sul cammino, non in maniera individuale ma collettivamente».

 

Foto di Nacho Yuchark

Tutto questo sono pochi indizi sulla complessità di quello che sta accadendo in luoghi che Rose ritiene possano entrare in una sorta di guerra, o distruzione totale. Ma la parola che tiene insieme l’intero viaggio è “Amazzonia”. Secondo la storia, questo era il nome che Francesco de Orellana usò, mentre percorreva questo fiume smisurato, alla comparsa di donne ostili sulle rive che a colpi di frecce gli impedirono di esercitare il ruolo di conquistatore. Il nome veniva dalla mitologia greca, sempre riferito a donne guerriere.

E forse un’altra delle chiavi di lettura in termini di resistenza è proprio quella delle donne indigene. Nello stato di Rondonia è nata l’Associazione delle Guerriere indigene di Rondonia, Agir (acronimo che inoltre riprende anche la parola “agire”). Dicono in un video che mi è stato inviato: «Non tolleriamo le miniere sulle terre indigene, affitti, sgomberi illegali né violenza contro le donne. Voi che avete mire sul nostro territorio, sui nostri corpi e sul nostro spirito: non tolleriamo che veniate a distruggere. Noi, donne indigene, siamo qui per dimostrare di essere forza e resistenza».

Ad agosto, mentre iniziavano gli incendi, 3.200 membri di 105 comunità hanno preso parte alla Prima marcia delle donne indigene, a Brasilia. Cantavano, ballavano, con le facce dipinte di tutti i colori, i piedi scalzi sull’asfalto, i sorrisi aperti e gridavano: «Despierta Brasil» [«Brasile Svegliati» – ndt]. Lo slogan: «Territorio: il nostro corpo, il nostro spirito».  Hanno raggiunto la marcia delle Margaridas, contadine che ogni anno rendono omaggio a Margarida Maria Alves, presidente del sindacato dei lavoratori rurali assassinata nel 1981. Le rivendicazioni erano contro Bolsonaro, il machismo, la violenza contro le donne, per i diritti degli omosessuali e contro le politiche che violano quei territori-corpi-spiriti. L’Amazzonia sono loro, e la natura.

Leticia Yamanaw, coordinatrice dell’organizzazione delle donne indigene di Acri, spiega a MU: «Noi donne accompagniamo sempre i leader nelle lotte, nei paesini, lasciando che siano loro ad andare avanti. Ma non possiamo fermarci troppo a lungo. Dobbiamo uscire, con i nostri figli, perché gli attacchi sono tremendi e non possiamo restare fermi. Non va.

 

L’Amazzonia è come i nostri corpi di donne. I nostri corpi quindi sono quelli che devono stare in prima linea, per combattere la violenza, per combattere la distruzione della vita».

 

Territori, corpi, spirito, amicizia, azione, riconquiste, txai. In Amazzonia stanno riscrivendo parole e azioni perché forse sono in gioco le ultime resistenze possibili affinché la vita cresca e non rassegnarsi all’inferno.

Questo articolo fa parte di una copertura giornalistica cooperativa nella regione amazzonica dell’Acre realizzata da lavaca.org – Rivisita Mu e sostenuta da dinamopress. Sul campo, ci sono il giornalista Sergio Ciancaglini e il fotoreporter Nacho Yuchark.

Traduzione a cura di Michele Fazioli per DINAMOpress