OPINIONI

Bacioni, maalox e porti chiusi non fermeranno le stragi nel Mediterraneo

Chi cerca di evitare le tragedie in mare diventa «complice dei trafficanti di esseri umani», la società civile, i movimenti e le opposizioni vengono derise, se non bullizzate, e il parere di studiosi, associazioni ed esperti del settore bollato come la «propaganda di certi professoroni che sorseggiano cocktail».

«Non sono stato io!»

Excusatio non petita, accusatio manifesta, avrebbero detto i latini.

Eppure è stata questa la prima reazione di Salvini alla notizia del naufragio avvenuto a largo della Libia, costato la vita a 117 dei 120 migranti che avevano tentato la traversata per raggiungere le coste italiane.

Sembra che il ministro dell’Interno abbia ormai imparato a giocare d’anticipo.

Non come un politicante abituato a sfuggire alle proprie responsabilità, piuttosto come l’uomo forte che, sfidando i dogmatismi padani di Umberto Bossi, ha trasformato la Lega in quello che oggi, secondo i sondaggi, è il primo partito nazionale. Il suo stile risponde più alla logica pugilistica del «chi mena per primo, mena due volte»; e così di fronte all’ennesima strage nel Mediterraneo, è subito pronto ad attaccare «Ong, buonisti, scafisti», tutti insieme, tutti rigorosamente nella stessa lista.

Non saranno quei 117 morti annegati a far cambiare idea a Salvini, che anzi rivendica il minor numero (1054) di migranti inghiottiti dal Mediterraneo, rispetto ai Governi che l’hanno preceduto, un dato reale ma che, considerata la netta diminuzione degli sbarchi (-80% nel 2018), deve fare i conti con un tasso di mortalità che invece non è mai stato così alto (8,6 con Salvini nel secondo semestre del 2018, con Minniti era 1,7 nello stesso periodo dell’anno precedente).

«Meno partenze, meno morti, la nostra linea non cambia».

La linea rimane sempre la stessa, imperterrita. E infatti, proprio ieri notte si è rischiata un’altra ecatombe, con diversi barconi in avaria a largo della Libia e la guardia costiera di Tripoli che per ore non ha risposto alle chiamate di emergenza lanciate da Alarm Phone, il callcenter dei volontari che supportano le operazioni di monitoraggio in mare.

Solo in tarda notte, dopo che da ore sui social rimbalzavano i messaggi di SOS e cresceva man mano l’attenzione mediatica, i mezzi della Guardia Costiera libica si sono finalmente attivati, portando in salvo oltre duecento persone. Proprio il ritardo nelle operazioni di soccorso, da parte dell’autorità libica, è uno dei motivi per cui, una nave mercantile battente bandiera della Sierra Leone che transitava nelle vicinanze, la Lady Sham, è stata coinvolta nelle operazioni, anche dopo le pressioni esercitate dal Governo Conte.

L’ennesima tragedia evitata, ma anche l’ennesima strage della quale avremmo potuto non sapere nulla, se non fosse stato per la presenza di quell’unica nave Ong presente a monitorare il mar Mediterraneo e che in quel momento era distante 15 ore di navigazione dei naufraghi.

A far cambiare idea al ministro Salvini non sono servite nemmeno le grida di chi, tra gli oltre 100 migranti a bordo della Lady Sham, dichiarava di preferire la morte al ritorno in Libia minacciando il suicidio.

«La collaborazione funziona, tutti sani e salvi, e riportati indietro, i 393 immigrati recuperati dalla Guardia Costiera libica».

Tornati indietro e riconsegnati a quegli stessi «scafisti, trafficanti e mafiosi che» – sempre secondo il ministro – «devono capire che i loro affari sono finiti».

Vero che queste persone sono state riportate in Libia, ma in violazione del diritto internazionale, come ha dichiarato la scorsa notte l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, ribadendo che «la Libia non può essere considerata un Paese sicuro». Una realtà documentata da qualsiasi report di osservatori internazionali, oltre che dalle associazioni per i diritti umani e dalle Nazioni Unite.

Eppure già sappiamo che l’unica reazione che queste affermazioni susciteranno in Salvini, sarà quella di dedicare altri «bacioni e maalox» alle «Ong, Saviano, Lerner e i 99 Posse».

È probabile che il vicepremier del Carroccio non mostrerà cedimenti nemmeno per gli SOS e gli appelli lanciati in questi giorni da Sea Watch 3, l’imbarcazione dell’ong tedesca, da sei giorni in mare, dopo aver salvato 47 migranti. Salvini l’ha già dimostrato: all’inizio di gennaio, dopo lo scontro diplomatico con le autorità maltesi, quando aveva costretto la stessa Sea Watch a stazionare 19 giorni in mare con 49 persone a bordo. Nemmeno le donne e i bambini sarebbero dovute sbarcare per il ministro: «No l’ho già detto, sarebbe un segnale di apertura agli scafisti e a certe Ong poco serie. Porti chiusi» – e «cuori aperti»», che costa poco.

Perché questo è ormai il livello imposto al dibattito dal vicepremier leghista, che pone la dialettica della campagna elettorale a livello base di ogni comunicazione politica e sociale. Ogni annuncio istituzionale, conferenza stampa e diretta facebook è un comizio, una battaglia. E lui, sul piano della comunicazione mediatica, è in guerra con tutti e lo dichiara piuttosto apertamente attraverso la sua narrazione.

Anche con la Chiesa è riuscito a entrare in polemica, a seguito delle proteste dei vescovi e sacerdoti contrari al suo decreto e alla politica del Governo sui migranti. In quel caso il ministro ha invitato chi lo criticava a svolgere «ognuno i propri doveri di competenza», dimenticandosi forse di aver giurato da un palco, durante un comizio, con Vangelo e crocifisso in mano. A proposito di competenze.

Così in questa narrazione, chi cerca di evitare le tragedie in mare diventa «complice dei trafficanti di esseri umani», la società civile, i movimenti e le opposizioni vengono derise, se non bullizzate, e il parere di studiosi, associazioni ed esperti del settore bollato come la «propaganda di certi professoroni che sorseggiano cocktail».

Nel mentre, chi prova a partire dalla Libia attraversando il Mediterraneo, oggi come ieri, continua a morire.

Anzi, quando riesce a partire, oggi muore più facilmente.