MONDO

Attacco ad Istanbul: 42 morti nell’attentato all’aeroporto

Secondo il governo turco gli attentatori non sono di cittadinanza turca e pare siano legati all’Isis, ma non è arrivata ancora nessuna rivendicazione. Ankara paga le politiche nei confronti dei gruppi jihadisti e il foraggiamento di reti che hanno destabilizzato l’intero Medio Oriente. E ora prova a mettere una pezza ricucendo con le potenze regionali.

Roma, 29 giugno 2016, Nena News – Nella notte il bilancio delle vittime dell’attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul è salito ancora: 36 morti, 147 feriti. Lo ha riferito il primo ministro Yildirim, una volta giunto sul posto ieri notte, nell’aeroporto più grande del paese e il terzo in Europa, con circa 61 milioni di passeggeri lo scorso anno.

La ricostruzione degli eventi appare ora più chiara di quanto fosse ieri sera, pochi minuti dopo l’attacco: un commando di tre uomini è arrivato allo scalo internazionale, ha tentato di entrare ma è stato individuato dalle forze di sicurezza. Ne è seguito uno scontro a fuoco, con i Kalashnikov degli attentatori che hanno puntato sulla folla. A quel punto hanno deciso di farsi saltare in aria, prima di venire colpiti dalle pallottole della polizia.

Immediatamente sono giunte sul posto numerose ambulanze, mentre i taxi si mettevano a disposizione per il trasporto delle decine dei feriti negli ospedali della città. I voli in arrivo sono stati sospesi per riprendere questa mattina. Il governo ha subito imposto alla stampa nazionale l’ordine di non diffondere immagini – foto e video – dell’attacco, come sempre accaduto in casi precedenti.

Per ora nessuna rivendicazione ma esperti e funzionari puntano il dito sullo Stato Islamico che da quasi un anno compie attacchi e massacri sul suolo turco. Generalmente le rivendicazioni dell’Isis sono molto più rapide, ma per ora si resta in attesa. Questa volta il presidente Erdogan ha evitato di coinvolgere i movimenti indipendentisti kurdi, sempre accusati dopo attentati simili per poi venir scagionati. Seppure il gruppo Tak, organizzazione fuoriuscita dal Pkk perché considerato troppo morbido, abbia rivendicato attacchi negli ultimi mesi, si è sempre trattato di azioni che avevano come target forze di polizia ed esercito.

L’Isis no, l’Isis colpisce i civili, i turisti stranieri. Lo ha fatto il 12 gennaio quando ha attaccato Sultanahmet, il quartiere turistico per eccellenza di Istanbul dove ha ucciso 10 persone, per lo più turisti tedeschi; il 19 marzo nella via dello shopping di Istiklal; e lo scorso ottobre quando oltre 100 persone morirono nell’attacco contro la marcia della pace organizzata da gruppi kurdi e pro-kurdi.

Gli effetti sul turismo sono già forti e non potranno che aumentare: ad aprile il numero di visitatori è crollato del 28%, a maggio del 35% attestandosi intorno al milione e 750mila persone al mese, il numero più basso dalla fine degli anni Novanta. Una differenza enorme rispetto al 2014 quando in un anno entrarono in Turchia 37 milioni di turisti. A monte non solo il timore di attentati, ma anche le sanzioni imposte dalla Russia dopo l’abbattimento di un suo jet lo scorso novembre.

La Turchia torna così nel mirino di un terrorismo che in questi anni ha aiutato a prosperare e con il quale ha destabilizzato la vicina Siria e la regione. Che cellule islamiste siano presenti ed attive in Turchia è noto da tempo, come è noto l’apatia dell’esercito al confine siriano che ha permesso il passaggio di armi e miliziani senza intervenire. Ora, da mesi, quel terrorismo si rivolta: sotto pressione nei bastioni di Siria, Iraq e Libia, lo Stato Islamico sta colpendo come mai prima al di fuori delle frontiere del sedicente “califfato” a cui dice di puntare. Colpisce con commando, autobomba e kamikaze nelle zone che non occupa, da Baghdad a Damasco, da Istanbul alle città europee. Mostra un volto nuovo e terribile: la capacità di infiltrarsi e muoversi con libertà, di sfruttare le contraddizioni dei paesi in cui cresce e si organizza.

Stamattina il premier Yildirim prometteva il pugno duro contro il terrorismo, prometteva di rispondere con fermezza per estirpare il cancro. Ma non ha detto una parola sulle responsabilità che Ankara ha. Non ha parlato dell’abbandono di Kobane e Rojava, sotto assedio islamista per mesi, né del ruolo destabilizzatore che ha nella regione foraggiando di armi opposizioni moderate e opposizioni islamiste e salafite.

Ankara è consapevole dell’isolamento che rischia a causa delle politiche autoritarie e centralizzatrici di questi ultimi anni. E se all’Unione Europea importa poco e continua a definire la Turchia “paese sicuro” in cui relegare i rifugiati siriani, Erdogan ha bisogno di altre potenze per risollevarsi. Per questo proprio due giorni fa ha siglato la riconciliazione con Israele, ha cercato di ricucire con la Russia presentando scuse ufficiali per la caduta del jet e ha annunciato di voler riallacciare i rapporti con l’Egitto, raffreddatisi dopo il golpe al Cairo contro i Fratelli Musulmani.

Articolo pubblicato il 29 giugno su Nena-news con il titolo “Le conseguenze della guerra su un paese non sicuro.”.