MONDO

Stati Uniti, aspettando la vera onda blu

Alle elezioni di midterm i Democratici tornano ad avere la maggioranza alla Camera con una nuova generazione di attivisti latinxs, afro-americani, nativi, in gran parte donne, protagonisti di una nuova sinistra in crescita. Ma lo sfondamento non c’è stato e Trump è riuscito persino a rafforzarsi al Senato e ad offrire ai centristi democratici una velenosa proposta di accordo bipartisan

“Tremendous success”, un successo incredibile, è stato il tweet di Donald Trump, arrivato giusto un paio d’ore dopo la chiusura dei seggi, quando ancora il profilo dei risultati era tutt’altro che chiaro. E l’affermazione, pur non sorprendente visto il personaggio, è alquanto singolare visto che già nel 2016 Trump perse il voto popolare e lo perde ancora di più oggi, all’indomani delle elezioni di midterm. Perché non dobbiamo mai dimenticare un dato incontrovertibile: la maggioranza degli americani (i numeri definitivi non ci sono ancora, ma probabilmente una significativa maggioranza, ancora più ampia di due anni fa) ha votato “contro” il Presidente in carica. E solo quel mix di astensione al voto e di pratiche amministrative atte a scoraggiare i più poveri e marginali ad andare a votare (in queste elezioni, plateali e criminali per altro quelle messe in atto in Georgia), oltre che un’architettura istituzionale tra le più inique e meno democratiche dei paesi occidentali ha permesso a Trump di essere eletto Presidente degli Stati Uniti nel 2016 e oggi di mantenere una salda maggioranza al Senato.

Tuttavia la buona notizia c’è stata, anche se di proporzioni meno eclatanti di quello che era lecito sperare: il consenso di Donald Trump è sceso. La Camera dei Rappresentati, cioè la camera più rappresentativa degli Stati Uniti, che ieri chiamava alle urne tutti i cittadini aventi diritto di voto (mentre solo una parte del Senato veniva rinnovata), è passata a maggioranza democratica.

 

Molte delle roccaforti repubblicane sono crollate e basta guardare la geografia dei risultati dei collegi per rendersi conto che molta di quell’America lontana dalle due coste che di solito è tutta colorata di rosso (il colore del Partito Repubblicano) ha visto vincere i candidati cosiddetti “blu”.

 

Ma al di là della quantità, è la qualità di queste elezioni che può interessare il movimento sindacale, anti-razzista e femminista che ha attraversato gli Stati Uniti in questi ultimi anni. Alla Camera arrivano per la prima volta diversi militanti che sono stati protagonisti delle lotte recenti e che hanno costruito il proprio consenso tramite i movimenti di base. Per la prima volta sono state elette due donne native americane, Deb Haaland in un collegio del New Mexico e Sharice Davids, una ex- combattente di MMA, dichiaratamente lesbica, che ha vinto un importantissimo posto alla Camera in Kansas strappandolo ai Repubblicani che l’avevano vinto nel 2016. Ma ha vinto nel proprio collegio anche Ayanna Pressley, la prima donna nera che rappresenterà il Massachusetts al congresso e Ilhan Omar, mussulmana e di origini somale, eletta con una maggioranza schiacciante in Minnesota. E poi soprattutto sono passate Rashida Tlaib, eletta in Michigan, che insieme ad Alexandria Ocasio-Cortez (che correva in un collegio praticamente blindato nella città di New York) formano due dei tre eletti sostenuti dai Democratic Socialists of America (il terzo è Danny Davis, che però è un veterano della Camera ed è già al suo undicesimo mandato).

 

Sono delle elezioni che hanno visto una partecipazione senza precedenti di candidate donne, LGBT, Latinxs, Afro-Americani, attivisti sindacali che hanno svecchiato significativamente quel Partito Democratico che era uscito con le ossa rotta dalla debacle del 2016.

 

Bisogna anche tenere conto che molti movimenti hanno fatto grossi investimenti politici nelle elezioni dei county, nei parlamenti statali, nei comuni, nelle elezioni dei giudici (che in America vengono eletti) in partite elettorali locali che magari hanno meno risonanza in queste ore ma che sono fondamentali per il sostegno alle lotte e per la costruzione di un tessuto politico d’opposizione.

Eppure Trump è riuscito lo stesso non solo a limitare i danni, ma persino a incrementare il suo vantaggio di seggi al Senato (che a questo punto potrebbero essere persino 53 o 54, contro i 46 o 47 dei Democratici) in un’elezione che per lui è stata innanzitutto molto fortunata. Non solo i seggi che erano in palio (circa un terzo dell’intero Senato) erano quasi tutti occupati da eletti del Partito Democratico (era insomma, praticamente impossibile “perderli” per Trump), ma si trattava anche di stati dove il consenso di Trump era stato maggioritario alle ultime elezioni.

C’è poi da ricordare che il Senato negli Stati Uniti è un organo molto poco rappresentativo, dove vengono eletti due senatori indipendentemente dalla grandezza e dal peso specifico dello Stato in questione. I 600 mila abitanti del Wyoming e i 700mila del North Dakota, ad esempio, “pesano” quanto i 20 milioni dello stato di New York o i 40 milioni di abitanti della California.

Questo fa sì che il voto degli elettori degli Stati rurali dell’America centrale, che sono meno popolosi, conti molto di più di quei centri urbani delle coste dove si concentra di gran lunga non solo la maggior parte della popolazione americana ma anche il tasso di “diversità” razziale, di genere e culturale più alto (che spesso, anche se non sempre, si accompagna a una maggiore propensione a un voto per i candidati democratici). È quindi bastato ribaltare gli ex-senatori democratici di North Dakota, Missouri e Indiana, con poco più di 300mila voti di scarto (per altro quasi tutti in Indiana), per consegnare alla nazione un Senato a significativa maggioranza repubblicana.

Insomma la blue wave che doveva spazzare via Donald Trump, nonostante i buoni risultati dei Democratici quasi ovunque e che molti a sinistra si aspettavano, non c’è stata. Dalle elezioni emerge infatti un’immagine della base di consenso dei due partiti più complessa e sfaccettata.

 

Innanzitutto la sinistra “sandersiana” del Partito Democratico, che pure si trova per la prima volta a essere significativamente rappresentata alla Camera, è stata sconfitta in due elezioni statali che erano fondamentali per capire quale fosse il peso dei “radicali” all’interno del partito.

 

Non ce l’ha fatta Stacey Abrams, la prima donna nera candidata a un posto da governatrice di uno Stato importante come la Georgia (dove la sua schiacciante vittoria nell’area urbana di Atlanta non è riuscita a ribaltare il predominio repubblicano nella provincia bianca e rurale), ma nella sua sconfitta, per altro con un margine davvero irrisorio, ha pesato senz’altro un’attiva politica di “dissuasione” dal voto di molti neri e poveri, la cui misura è ancora tutta da capire e da valutare.

Così come non ce l’ha fatta Andrew Gillum, l’ex sindaco di Tallahassee, che nonostante l’endorsement dell’ex-Presidente Obama ha perso per 50mila voti il governatorato della Florida. Ha perso anche il popolarissimo Beto O’Rourke che in Texas è arrivato a un soffio dal posto di senatore contro l’ex-candidato alla Presidenza Ted Cruz.

 

Sono state tre sconfitte molto pesanti per la sinistra del Partito Democratico che rischiano di pesare ora che inizierà immediatamente la corsa per le presidenziali del 2020.

 

Perché gli Stati Uniti oltre ad avere una vita politica dominata costantemente dalle elezioni presidenziali, hanno anche un sistema politico che è in una perenne, estenuante e dispendiosissima campagna elettorale dove il ciclo di Presidenziali-midterm-primarie-Presidenziali sembra non finire mai. Il rischio è che proprio mentre l’ala sinistra del partito stava iniziando a capitalizzare il consenso con l’onda lunga della campagna di Bernie Sanders e una probabile candidatura di Elizabeth Warren alla Presidenza (oltre all’ascesa della popolarità di Alexandria Ocasio-Cortez e dei Democratic Socialist of America) subisca ora il ritorno dell’ala centrista.

Sono stati molti infatti i collegi vinti dai democratici nei suburb della provincia americana, intercettando forse il consenso di quella upper-middle class che non vede di buon occhio le sparate quotidiane del presidente e le sue uscite populistiche, come quelle sul protezionismo commerciale. Molti commentatori ieri parlavano di una rivincita del partito di Joe Biden, Terry McAuliffe e Nancy Pelosi. Ed è stata proprio quest’ultima che, già dopo i primi dati che davano i Democratici in vantaggio alla Camera, si è affrettata a tenere una conferenza stampa inequivocabile in un cui si è spesa in un elogio insistito della bipartisanship e del dialogo tra i due maggiori partiti americani per il bene dell’unità nazionale. E le ha immediatamente risposto ieri mattina Donald Trump che nella chiassosa e volgare conferenza stampa di commento alle elezioni, tra una minaccia e l’altra ai giornalisti presenti, ha rivolto un elogio irrituale all’avversaria Pelosi augurandosi che vada a vestire ancora una volta il ruolo di Speaker dell’assemblea (aggiungendo che se l’ala sinistra dei Democratici le voterà contro, ci penserà lui a farle avere i voti necessari).

 

La cosa che infatti in questo momento Trump teme più di qualunque altra è che la nuova Camera dei Rappresentati possa usare il suo diritto di subpena avviando delle procedure di infrazioni nei suoi confronti per la sua “oscura” dichiarazione dei redditi (che probabilmente nasconde un enorme evasione fiscale) o per l’eterna querelle sulla presenza russa nelle elezioni del 2016.

 

È improbabile che tutto questo possa portare a una richiesta di impeachment, ma è certo che, se i Democratici lo costringessero sulla difensiva su questo terreno, il consenso di Trump potrebbe diminuire ancora di più. Queste iniziali prove di alleanza bipartisan invece potrebbero essere sia nell’interesse di questo nuovo governo Trump di minoranza, che di quell’ala centrista del Partito Democratico che non vede l’ora di far fuori la nuova ondata di donne, latinxs, afro-americani, migranti che hanno invaso il Congresso e che invece non sembrano affatto intenzionati a stringere patti con uno dei più pericolosi Presidenti che gli Stati Uniti abbiano mai avuto.

Sarà compito dei movimenti e delle realtà di base nei prossimi mesi provare a fermare questa stretta mortale. A cominciare dalla potentissima carovana che si sta avvicinando al confine tra il Messico e gli Stati Uniti: un vero e proprio nuovo movimento sociale che ingaggia il governo Trump proprio sul terreno delicatissimo delle migrazioni. È questa l’unica blu wave che potrebbe davvero far paura a Trump.