editoriale

Antiproibizionismo e Pedagogia Hacker

Nel rapido sviluppo delle trasformazioni tecnologiche, le strade dell'”uso” e quella della “conoscenza” si sono andate sempre più divaricando. Una “pedagogia hacker” ha il senso di rimettere al centro il funzionamento degli strumenti digitali e la loro possibile reinvenzione collettiva

Con la diffusione su larga scala degli smartphone, avvenuta in meno di dieci anni, tutti siamo certi di sapere usare gli strumenti tecnologici, ma è davvero così? È ormai un tabù dire che ci si sente poco inclini all’informatica e nemmeno esiste più chi scherzosamente si definisce un “utonto”. Ognuno conosce le migliori applicazioni gratuite che il web ci mette a disposizione e i nostri device sono diventati abituali strumenti di uso quotidiano. Nel giro di pochi anni siamo diventati tutti esperti.

Cos’è successo? Non siamo noi ad essere migliorati, sono le interfacce che sono state parecchio semplificate. Le interfacce, già. La tecnologia invece è rimasta una materia complessa e difficile, esattamente come dieci anni fa. Quando un bambino di quattro anni prende lo smartphone e guarda un cartone animato su youtube non è perché è un genio, e nemmeno perché è un nativo digitale (infatti i nativi digitali non esistono[1]). Succede perché l’intero sistema complesso che ha a disposizione (dall’hardware al software) è stato progettato per includere tutt*. Nessuno deve avere difficoltà nell’usare la “tecnologia”, ma non perché sia uno strumento di emancipazione, bensì perché si tratta di un prodotto di consumo globale!

La “conoscenza” e l’“uso” hanno preso due direzioni diverse. Conoscere è un esercizio faticoso che implica ascolto, silenzio e concentrazione. Usare qualcosa invece può essere anche molto semplice. Le interfacce commerciali prediligono l’uso, cercando di mantenere un carico cognitivo basso, si definiscono infatti “intuitive”, “usabili”, “user friendly”. L’azione dell’utente deve poter essere “automatica” cioè il più possibile immediata, come l’esecuzione di una procedura nota al punto di non richiedere esitazioni.

Mentre riflettere rallenta i movimenti e raffredda le emozioni, i social hanno bisogno di velocità per spingere al massimo le interazioni; il profitto infatti si basa sull’ottenimento di quanti più dati possibili sull’identità e i legami sociali degli utenti[2]. L’impulso continuo di sollecitazioni e la gratificazione tramite punteggio (stelline, condivisioni, like, ecc.) ci mantiene disponibili al controllo costante delle notifiche. In questo senso possiamo dire che l’utente viene addestrato ad un comportamento produttivo secondo le regole dell’apparato[3].

Ma anche che l’utente viene assuefatto all’uso e quindi cercherà di aumentare la propria prestazione per mantenere alte le gratificazioni emotive.

Il ritmo sostenuto della performance produttiva facilmente però si trasforma in ansia da prestazione, depressione e senso di inettitudine. Ed è qui, affacciandoci sull’orlo dei nostri baratri, che si riscopre il valore politico e formativo dell’antiproibizionismo, perché se il social è “stupefacente”, proibire non è una soluzione efficacie.

Antiproibizionisti dunque, perché consapevoli che qualsiasi cosa può dare assuefazione, anche l’amore può diventare tossico là dove non vuole confrontarsi con il limite della sua finitudine e parzialità. Quindi, prima di “smetterla coi social”, occorre capire quale tipo di dipendenza è stato capace di stimolare in noi, ma non per rifiutarla, per estirparla, ma per prendercene cura, per capire come nutrirla prima che la sua fame diventi bulimica e ci mangi tutto il resto della vita.

Questa è l’attitudine che abbiamo scelto anche con gli adolescenti con cui abbiamo cominciato a fare i laboratori di pedagogia hacker[4].

La proposta è quella di esplorare il mondo dei più giovani e, allo stesso tempo, avere consapevolezza dello sguardo con cui noi lo scrutiamo. Perché entrambi dobbiamo sviluppare forme di autodifesa digitale e l’aiuto potrebbe essere reciproco. L’approccio metodologico è di tipo esperienziale, riteniamo infatti che “imparare a programmare alle elementari”, come spesso viene invocato dai suprematisti nerd, non sia utile per difendersi a livello emotivo e nemmeno a comprendere la complessità del mondo tecnologico che ci è stato buttato addosso senza che potessimo scegliere.

Generalizzando e semplificando, dell’hacker abbiamo scelto il tratto anti autoritario e diretto dell’apprendere senza maestri, che si affida in primis alla curiosità.

Posto di fronte ad un oggetto tecnologico l’approccio di un/una hacker non è quello di usarlo, ma di capire come è fatto, di smontarlo, di vedere come funziona. Per un hacker nessun artefatto è obsoleto perché ogni cosa può essere reinventata con uno scopo anche molto diverso da quello per cui era stata creata.

Negli hacklab abbiamo imparato che la frugalità tecnica, cioè il confronto con il limite, diventa una sfida, quella di usare la propria intelligenza! Il godimento è nel trovare la maniera migliore per confrontarsi con un problema interessante, non nell’istruire una macchina a fare dei calcoli con lo strumento che va di moda questa settimana[5]. L’hacking non è inquadrabile in percorsi di studio ufficiali e titoli di studio riconosciuti, è un percorso di ricerca personale che parte dal desiderio di sperimentarsi in prima persona, mettendoci le mani sopra. È nel rapporto con gli altri, con la comunità, che l’hacker comincia a ricercare uno stile personale e a formare il suo carattere, il suo ethos.

Proporre esperienze formative in un’ottica di pedagogia hacker significa per noi anzitutto aiutare gli individui a far emergere l’hacker che si nasconde in ognuno di noi, dargli valore e aiutarlo a crescere. Nella nostra esperienza, con i bambini e gli adolescenti è più facile, probabilmente perché l’attitudine hacker ha molto a che fare con le modalità di apprendimento e di scoperta dei primi anni di vita. La figura dell’hacker così stilizzata ci è stata utile per ridurre il forte divario che si è creato tra gli adolescenti e le generazioni precedenti, distanza che emerge spesso come criticità nei contesti educativi e scolastici. La difficoltà di comunicazione è dovuta anche alla retorica secondo cui i giovani sarebbero antropologicamente mutati a un migliore rapporto con la tecnica, una sorta di darwinismo tecnologico che li porrebbe a un gradino più alto dell’evoluzione, narrazione tossica che amplifica i sentimenti di narcisismo e insufficienza. Ricorrono infatti alcuni temi problematici quali la difficoltà nel concepire regole e limiti, il terrore di perdere la “confort zone” e l’imperscrutabilità dei loro mondi. Atteggiamenti hikikomori[6] come lato oscuro della resistenza alla società della prestazione.

In questo quadro non è raro che emergano da parte dell’adulto (operatore, genitore) vissuti di frustrazione, incomprensione, impotenza. Questo dipende anche dal fatto che non siamo abituati ad analizzare le responsabilità dei servizi web “gratuiti” nei comportamenti a rischio. Primariamente perché non riconosciamo la nostra (di adulti) assuefazione e fragilità.

Il social media è progettato per considerare le azioni come buone perché associate a una gratificazione, non perché valutate dal punto di vista etico, estetico o morale. È bandita qualsiasi dialettica della negatività che non sia descrivibile con un emoji.

L’imperativo, caldeggiato dagli studiosi di comunicazione e story telling, è quello di “essere se stessi”, di raccontare la verità, di avere fiducia e affidarsi a se stessi in una continua autoreferenzialità dove l’Altro è ridotto a pubblico. In condizioni ordinarie questo genera comportamenti collusivi e diseduca al conflitto. In condizioni di fragilità può portare a gravi episodi di prevaricazione.

Osservando questo scenario da una prospettiva di pedagogia critica non è difficile scorgere che le dinamiche oppressive e abusanti sono generate dallo stesso ambiente social nei suoi elementi costitutivi.

Naturalmente né il determinismo chimico della gamificazione[7], né la cornice consumistica e prestazionale del media sono un alibi sufficiente a giustificare gli individui che partecipano ai fenomeni più deleteri come le shitstorm, il sexiting, bodyshaming, revengeporn e il resto delle esperienze simili, di cui sono vittime soprattutto le femmine e le individualità gender queer.

Tuttavia è nostra responsabilità politica ribadire con chiarezza che questi fenomeni sono funzionali all’apparato di controllo. Rispondono cioè all’’esigenza di raccogliere informazioni su come eterodirigere il comportamento (squadrista) di gruppi anche molto vasti di utenti. Per questa ragione non saranno mai realmente contrastati dall’azienda che ne eroga il servizio, in quanto effetti del loro sviluppo e design. È indispensabile dunque che si agisca in prima persona e collettivamente con iniziative di supporto psicologico, autodifesa e controinformazione, oltre che naturalmente con l’azione diretta. Ribadiamo che la scelta di non proibire l’accesso al mondo dispotico del consumismo non significa minimizzare, ma riconoscere che gli strumenti della cura del sé dell’antiproibizionismo militante sono strumenti eminentemente politici. Capaci cioè di trasformare, qui e ora, il godimento normalizzante e compulsivo nella ricerca di uno stile personale e di un desiderio collettivo.

Infine occorre segnalare, quale obiettivo a lungo termine oltre l’ambito strettamente pedagogico, lo sviluppo di infrastrutture autonome di condivisione che sappiano prescindere da dinamiche gamificate, tecniche di profiling e addestramento alla performance e al consumo. Non un Facebook autogestito o un whatsApp alternativo dunque, ma servizi e strumenti di comunicazioni progettati secondo logiche ecologiche e anticapitaliste.

 

Articolo comparso sul sito impunitafest

 

[1]      Si veda Tecnologie del Dominio. Lessico minimo di Autodifesa digitale, Milano, Meltemi: 2017, p. 177, (Nativi Digitali).

[2]      Ivi., p. 217, Profilazione digitale. L’identità si costruisce attraverso la relazione con gli altri.

[3]      Ma cosa produciamo? Produciamo noi stessi, la nostra soggettività reificata (self brandig).

[4]      Tecnologie del Dominio. Lessico minimo di Autodifesa digitale, Milano, Meltemi: 2017, p. 197 (Pedagogia Hacker).

[5]      Nell’informatica di consumo anche il coder viene disincentivato al confronto con la complessità dei programmi e dell’hardware; i programmatori sono incoraggiati ad avvalersi di giganteschi framework che nascondono le soluzioni più a basso livello e spingono al riutilizzo di codice senza un approccio critico.

[6]      Fenomeno sociale legato agli adolescenti del Giappone contemporaneo, forma drammatica di volontaria esclusione sociale e auto reclusione domestica che sta avendo i suoi primi epigoni anche da noi.

[7]      Tecnologie del Dominio. Lessico minimo di Autodifesa digitale, Milano, Meltemi: 2017, p.107 (Gamificazione).