EUROPA

Anche nel modello nordico si sciopera

L’ondata di conflittualità che ha investito negli ultimi mesi diversi paesi europei non ha risparmiato neppure Svezia e Norvegia: ad aprile infatti si è assistito a scioperi inediti, che hanno rivelato tutta la fragilità del cosiddetto modello nordico, alla luce dell’incessante marcia, anche nella ricca Scandinavia, di xenofobia, privatizzazioni e militarismo

Nei paesi nordici il mercato del lavoro è tradizionalmente regolato dalla contrattazione collettiva fra imprenditori e sindacati; l’intervento legislativo è ritenuto superfluo o, peggio, invasivo. Anche lo sciopero è considerato ridondante: in cambio di benessere economico e sicurezza sociale, dal lavoro salariato si pretende la rinuncia alla conflittualità. Questo meccanismo bel oliato ha tuttavia subito, negli ultimi decenni, ripetuti scossoni, riconducibili alla controffensiva delle organizzazioni imprenditoriali dopo la radicalizzazione degli anni Sessanta-Settanta. Il modello nordico di relazioni industriali è stato infatti sempre più inteso a senso unico: come resa integrale alla logica di mercato.

Si capisce allora lo scandalo suscitato dalla lotta dei/delleconducenti dei treni pendolari a Stoccolma, culminata in uno sciopero “selvaggio” perché indetto durante il periodo di vigenza del contratto collettivo. A scatenare la protesta è stata la questione della sicurezza, una volta tanto intesa non in senso securitario bensì come tutela: di chi lavora e di chi viaggia. I treni pendolari, che collegano la città di Stoccolma con gli altri comuni della provincia, sono da anni oggetto di lamentele da parte dell’utenza. I continui ritardi dovuti a guasti tecnici e, d’inverno, al gelo (non inusuale, in Svezia…), compromettono il servizio.

L’inefficienza dell’amministrazione pubblica non c’entra: dal 2017 la gestione di questi treni è affidata a una multinazionale cinese, la MTR, che, con la complicità della politica svedese, ha ridotto le spese per la manutenzione dei binari, deteriorando al contempo le condizioni di lavoro dei/delle dipendenti. Ciliegina sulla torta, qualche mese fa ha annunciato che il personale addetto alla sicurezza non rientrava più nei suoi piani.

Non si tratta di vigilantes, ma di coloro che controllano che tutto sia in ordine prima di chiudere le porte e dare il via libera al conducente. Si preoccupano, ad esempio, che le persone disabili, o le famiglie con bambini, abbiano sufficiente tempo per salire a bordo.

Quando, a marzo, la decisione è diventata operativa e il numero di treni dotati di addetti/e alla sicurezza si è dimezzato, le assenze per malattia dei/delle conducenti si sono impennate: una risposta alle ulteriori responsabilità di cui sono stati caricati. Di fronte all’eventualità di uno sciopero al di fuori del suo controllo, la SEKO, la federazione della LO (Confederazione generale del lavoro) competente, ha onorato fino in fondo il bon ton del “modello svedese”: prendere le distanze dalle mobilitazioni dal basso. Ha infatti dichiarato: «nelle trattative stiamo discutendo punti importanti per migliorare le condizioni e l’ambiente di lavoro dei nostri iscritti. In un simile frangente, organizzare scioperi non autorizzati e selvaggi difficilmente semplifica la contrattazione».

È abbagliante la sintonia con quanto affermato dal responsabile per la comunicazione della MRT: «Considerato che il contratto è ancora in vigore, non ci saremmo aspettati che qualcosa come uno sciopero selvaggio potesse verificarsi. Va contro il modello svedese». Lo sciopero, durato tre giorni (17-19 aprile), ha paralizzato il traffico ferroviario nell’area metropolitana di Stoccolma; ciò nonostante, ai circa cento lavoratori e lavoratrici che hanno aderito è arrivata la solidarietà di molte persone (a partire da chi è affetto da disabilità), attestata anche dalla raccolta fondi a loro favore: l’equivalente di oltre 150.000 euro in pochi giorni. Per contro, la SEKO ha negato perfino l’assistenza legale nella causa intentata agli scioperanti dalla MTR.

Dall’altra parte del confine, in Norvegia, sono stati i sindacati (quello storico, la LO, e la più recente YS) a proclamare uno sciopero fuori dall’ordinario: non solo perché si è trattato del primo indetto dalle federazioni della LO dal 2000, ma anche perché nel dopoguerra non era mai successo che una contrattazione centralizzata sui salari sfociasse in aperto conflitto. Dal 17 al 20 aprile si sono astenuti dal lavoro 23.000 dipendenti con mansioni operaie e 1.500 con posizioni impiegatizie per chiedere un aumento dei salari reali.

È stata interessata anche l’industria petrolifera, il gioiello dell’economia norvegese. I sindacati hanno ottenuto il 5,2% in più, un livello superiore al tasso di inflazione atteso per il 2023 (4,9%). Uno dei leader della LO, Jørn Eggum, ha definito lo sciopero come «cara vecchia lotta di classe». Magnus Mardal, direttore del think tank “Manifest”, spiega: «È diventato evidente come la classe dominante abbia rigettato il compromesso di classe e non partecipi più al contratto sociale di stampo socialdemocratico. […] L’impressione è che i più ricchi si limitino a prendere».

Dopo lo sciopero, Fellesforbundet, il maggiore sindacato operaio nel settore privato, in soli tre giorni ha registrato 1.000 nuove iscrizioni. Questo perché, sottolinea Mardal, «gli scioperi sono i muscoli del sindacato: se non vengono usati, si atrofizzano».

Le Confederazioni generali del lavoro dei due paesi, tradizionalmente socialdemocratiche ma da tempo insidiate (soprattutto in Svezia) dai partiti di destra, adottano quindi strategie diverse. Difensiva quella svedese, una scelta che potrebbe favorire la proliferazione di scioperi selvaggi, propiziata anche dalle restrizioni al diritto di sciopero introdotte dal governo socialdemocratico nel 2019, con il tacito consenso della LO.

Scaduto a fine aprile il contratto collettivo, la SEKO ha proclamato uno sciopero del settore ferroviario e della metropolitana di Stoccolma (anch’essa gestita dalla MTR) dettato dalle stesse motivazioni che hanno spinto i/le conducenti dei treni pendolari a esporsi a ritorsioni finanziarie e disciplinari: il desiderio di una vita che non sia interamente plasmata dalle condizioni insostenibili imposte dal capitale degli algoritmi. La strada per riconquistare credibilità è però molto lunga. Il sindacato norvegese assume un profilo più offensivo, rintuzzando il divide et impera della controparte: ha preteso infatti che l’aumento generale del 5,2% fosse integrato da un extra per i salari più bassi.

Pur nella diversità dei promotori e dei risultati, i due scioperi evidenziano tutte le ombre di un modello come quello nordico, che le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio si ostinano a difendere, nonostante sia diventato una coperta che destra e “sinistra” tirano dalla propria parte per giustificare la competitività come la xenofobia e, dulcis in fundo, la corsa al riarmo. Con tutti questi limiti, le notizie che arrivano dal Grande Nord fanno risaltare ancora di più l’anomalia asfittica del caso italiano. Ma questo è un altro discorso.

Immagine da PEXELS di Ioannis Ioannidis