POTERI

Allocchi di regime

Risparmiatori truffati, bail-in, conflitto di interessi, malefatte del giglio magico renziano, crisi del sistema bancario […] , conflitto con l’Europa: abbiamo motivo di occuparcene? Ebbene sì.

Il salasso imposto del “salvataggio” governativo di quattro banche medio-piccole piuttosto simboliche del capitalismo clientelare locale ha prodotto effetti tragici per molti modesti risparmiatori, danneggiando in misura non ancora quantificabile sia la fiducia verso Renzi (invischiato in loschi affari, per via familiare: lui, Lotti e la Boschi), sia la più generale fiducia nel sistema bancario. Per ora risulta colpita l’Italia centrale (Toscana, Emilia, Marche, Abruzzo), ma la situazione del Veneto non è migliore e 200 miliardi complessivi di sofferenze (debiti inesigibili) non lasciano adito all’ottimismo. Parliamo dunque dell’economia cespugliosa ex-rampante e ora soffocata dal debito e dai derivati. Non vogliamo qui indagare le cause strutturali del dissesto, in ultima analisi rinvianti al patto scellerato fra mancata sorveglianza degli organi competenti e interesse a piazzare comunque i titoli del debito pubblico, né la congruità delle misure risarcitorie dettata da palesi preoccupazioni elettorali e da timori di contagio. Ci soffermiamo piuttosto sul tipo di figure – azionisti e obbligazionisti subordinati (ma dal 1° gennaio 2016, con il bail-in europeo, tutti i creditori, cioè i detentori di obbligazioni) – che sono stati coinvolti rimettendoci ogni risparmio e, per di più, facendo la figura di allocchi, doppiamente beffati dalla loro banca di fiducia e dal governo. Con la solita tragica sequela di suicidi e sensi di colpa per aver abboccato e per averci rimesso.

Ma perché interessarci a una storia di pensionati quasi-benestanti (prima del diluvio), visto che questo sito si rapporta a un pubblico di giovani che non dispongono di risparmi da lavoro (?) e di certo non hanno troppe aspettative pensionistiche?

Perché si tratta della stessa logica che colpisce simmetricamente due generazioni ai capi opposti di età, non senza strozzare pure quelle che stanno in mezzo.

Nei suoi corsi al Collège de France del 1978-9, editi con il titolo Nascita della biopolitica, Foucault affermava che il neoliberismo non concepisce gli individui come dei consumatori , ma come dei produttori, e che mira a «sostituire a un homo oeconomicus votato allo scambio un homo oeconomicus imprenditore di se stesso», con un «portafoglo di possibili condotte» secondo le circostanze, uno stock di competenze, insomma, saggiamente amministrato secondo una “soggettivazione contabile e finanziaria” (Dardot-Laval) incorporante il rischio e l’adeguamento alle mutevoli esigenze del mercato. La cura previdente e performativa del proprio capitale umano consente al governo neoliberale di funzionare e per questo le agenzie pubbliche lo si producono attivamente stimolando gli obbiettivi di autorealizzazione come orizzonte culturale di riferimento per l’intera società. I modi in cui si manifesta questa ideologia (cioè nel contempo pratica reale e mistificazione) sono molteplici, secondo collocazione sociale e condizione generazionale. Il debito-colpa sanziona comunque il fallimento.

Partiamo dagli standard giovanili, per fasce di età. Si comincia dall’invio del curriculum e dal lavoro gratuito, in cui il “capitale umano” è anticipato senza remunerazione nella speranza di conseguire un impiego precario, magari trasformabile nel mitico contratto “a tutele crescenti” –alleluia! Una volta attestati su questo primo gradino, l’essere attivo viene anabolizzato con il diventare competitivo, nella forma pedagogica del lifelong learning e in quella più brutale del fare le scarpe al collega. La buona cittadinanza è mobilitazione permanente per trovare sempre nuovi contratti e mettersi a piena disposizione dell’impresa cui si è formalmente o sostanzialmente subalterni. Parliamo, beninteso, degli happy few che qualcosa hanno acchiappato; gli altri continuano a “sbattersi” e a mettere le loro “esperienze” in curriculum.

Il luogo ideale per “intraprendere” in proprio (in realtà al guinzaglio) è il lavoro di promotore finanziario, che oscilla fra una specie di cottimo allo sportello e la speranza di passare a svolgerlo in autonomia (o un misto dei due). Il momento auto-imprenditoriale è falsificato dal fatto che, se non riesci a vendere, vieni degradato o licenziato, con un evidente incentivo alla circonvenzione del risparmiatore, indirizzato su derivati cartolarizzati e su obbligazioni dal rendimento di poco superiore ai depositi vincolati, ma prive di copertura assicurativa (100.000 € a correntista) e spesso di realizzabilità sul mercato. I “truffatori” sono a loro volta truffati, perché costretti anch’essi a imbottirsi di partecipazioni azionarie e obbligazioni subordinate, le stesse che devono piazzare agli “allocchi”. Del resto, il raggiro non si basa soltanto sulla credulità e i miraggi di guadagno: molti dei “truffati” sono imprenditori veri, che possono ottenere credito dalla banca solo diventandone azionisti o acquistando uno stock di obbligazioni. Lo stesso vale per chi, non essendo imprenditore in senso reale, chiede un mutuo per la casa o per improvvisarsi imprenditore di se stesso: in tal caso, se acquisti la fuffa della banca erogante, hai uno sconto sul tasso del mutuo, quando addirittura non è una condizione per farselo concedere.

Qui sta la differenza specifica fra il coinvolgimento organico, quotidiano nel sistema valoriale di matrice finanziaria e la tradizionale commedia della “stangata” o dell’avido speculatore deluso, insomma il solito “parco buoi” azionario. Quello era gestito da professionisti dell’imbroglio o della Borsa, a spese di volenterose vittime. Questo è socialmente incoraggiato e con le stesse probabilità di vittoria di chi infila monete in una slot machine (come accade ai livelli più bassi della speranza). Chiamala, se vuoi, soggettivazione contabile

Il vecchio meccanismo borsistico e delle grandi banche non è però sparito del tutto e per esempio imperversa in quei settori di lavoratori dipendenti che sarebbero esenti da tentazioni e raggiri auto-imprenditoriali, ma pagano un tributo attraverso la previdenza integrativa, gestita con rendimenti inferiori al Tfr, complici i sindacati che l’hanno sostenuta e raccolgono briciole dall’operazione. Inutile dire che per molti lavoratori autonomi i fondi pensione sono l’unica strada per garantirsi un qualche salario differito e subiscono un doppio taglieggiamento dall’Inps e dai fondi.

Eccoci così all’ultimo anello della catena e dell’età (i richiedenti credito e mutui e i fruitori di previdenza integrativa erano presumibilmente 40-50enni). Sono i pensionati, gli ultimi della specie zoologica, che investono la liquidazione nella banca locale di fiducia, magari dopo aver morso qualche esca durante la vita lavorativa. Qui il cerchio si chiude: gli eredi del fordismo, ormai per età inadatti a prelievi biopolitici ma più propensi all’autocolpevolizzazione che alla ribellione, sono stretti nella trappola delle banche dove veniva versato il salario e al momento affluisce la pensione. Fin troppo facile incastrarli con un mix di rendimenti allettanti (si fa per dire) e con il vischio dei mutui in corso o di quelli contratti per sistemare figli e nipoti disoccupati e precari. Il loro coinvolgimento è più passivo, meno “imprenditoriale”, spesso estorto con manipolazioni e trucchi – i prolissi e oscurissimi formulari di propensione al rischio, i Mifid, versione “bancaria” del Bingo. Sono strati a reddito medio-basso, ma numerosi, e forniscono la liquidità necessaria a tenere in vita una rete clientelare asfittica che, oltre tutto, rende preziosi servizi sul territorio a chi ha le mani in pasta. Parlare di associazione a delinquere in molti casi non è eccessivo, ma il dato essenziale è che si tratta di un saccheggio pianificato per sostenere il debito pubblico in regime neoliberale. Se quegli sventurati sono allocchi, sono allocchi di regime.