ROMA

Al via L’Inarchiviabile, una mostra per «individuare processi, pratiche e percorsi di decolonizzazione»

Inaugurata ieri al Goethe Institut di Roma, l’esposizione curata da Giulia Grechi e Viviana Gravano incrocia arte contemporanea e riflessione non solo museale ed è la prima iniziativa di un progetto che comprende anche podcast e incontri con le scuole

Negli spazi intimi e accoglienti del capitolino Goethe Institut, in via Savoia 15, ha preso il via ieri sera la mostra L’inarchiviabile, curata dall’antropologa Giulia Grechi e dalla storica dell’arte contemporanea Viviana Gravano. «Da molti anni lavoriamo assieme alla questione molto delicata di quanto i processi coloniali siano lontani dall’essere esauriti», ha esordito Giulia Grechi: «C’è una colonialità, una traccia lasciata da un lungo processo transnazionale, il colonialismo, che ha preso varie forme nel corso della storia e che continua ad affollare la nostra quotidianità in molti modi e spazi diversi, dagli quelli più intimi delle nostre case e delle nostre memorie a quelli pubblici».

L’esposizione, realizzata con la collaborazione di Routes Agency, Museo delle Civiltà di Roma e Archivio Memorie Migranti, rientra nel progetto Transcultural Attentiveness che proseguirà con una serie di podcast e la calendarizzazione di incontri con le scuole. Infatti, come ha sottolineato nella sua introduzione il direttore dell’Istituto Joachim Bernauer, Germania e Italia sono accomunate, nella storia, dall’essere state nazioni ritardatarie sui tempi del colonialismo, un ritardo che si espande, nel presente, anche alla riflessione e di conseguenza nei programmi scolastici.

La mostra è stata inaugurata alla presenza di artist* e curatrici, che hanno introdotto le opere esposte nell’ampia sala per le conferenze del Goethe Institut. Dopo i saluti di Barnauer, Gravano e Grechi sono entrate nel merito dell’esposizione, il cui sottotitolo recita «Radici coloniali, strade decoloniali», e dei principi che la ispirano.

La locandina della mostra.

Grechi ha innanzitutto spiegato il titolo, frutto della riflessione che «la nostra intera città, la nostra intera esistenza è un archivio vivente di quanto purtroppo questa colonialità continui ad affollare le nostre vite ed è molto difficile riconoscerlo perché continua a costruire le regole del gioco del vivere comune e delle dinamiche lavorative e sociali». Anche Viviano Gravano ha insistito su questo aspetto: «La storia della colonia non è una storia passata, è una storia assolutamente contemporanea che si deve confrontare con i gruppi dominanti di un colonialismo attuale che prende altre forme».

La storica dell’arte contemporanea ha poi spiegato la scelta di mettere in dialogo i linguaggi artistici del presente e la stagione, fortunatamente ormai al crepuscolo, dei musei coloniali: «Pensiamo sempre che gli unici musei che ci interrogano siano quelli di antropologia, ma in realtà i musei d’arte ci interrogano rispetto al colonialismo in maniera altrettanto violenta. Dal diciannovesimo secolo in poi, in Europa i musei pubblici sono stati costruiti con la stessa visione modernista della cultura coloniale: la cultura della superiorità culturale e non solo, del progresso come valore fondante». Per questo motivo, l’arte contemporanea, ha aggiunto Gravano, «focalizzando alcuni elementi, dando loro rilievo o spostandoli, ci permette di vedere quello che vediamo quotidianamente da un punto di vista radicalmente diverso».

Esattamente quello che accade, per esempio, nelle opere di Binta Diaw e della coppia Camilla Casadei Maldini e Luca Capuano. Questi ultimi presenti con tre lavori assai diversi tra loro. Il video Rumba, realizzato in site-specific presso il Museo delle Civiltà di Roma (Muciv), mostra la ripresa in soggettiva della telecamera, posta su un aspirapolvere-robot casalingo, che si blocca e cambia direzione a ogni ostacolo che incontra. Una metafora che bene spiega il lavoro che le direttrici del Muciv affrontano giornalmente.

«A una composizione molto ricca e diversificata di patrimonio, nel 2017 si sono aggiunte le collezioni dell’ex Museo coloniale, chiuso dagli anni Settanta e che nella sua ultima sede in via Aldrovandi mostrava l’esperienza italiana in Africa con modalità di propaganda di retoriche di regime e di esaltazione del colonialismo», ha infatti confermato una delle coordinatrici della sezione italo-africana del Muciv, Rosa Anna di Lello: «Da qualche anno abbiamo quindi questa grande responsabilità, che è anche una grande sfida: siamo qui per partecipare a un progetto ampio di messa in luce, di valorizzazione, di ricerca, di letture, di studio che stiamo cercando di fare su queste collezioni, anche ospitando e aprendo i nostri depositi agli sguardi di artist*».

Con Rumba dialoga poi un’altra delle opere firmate da Casadei Maldini e Capuano: l’arazzo Voyage Data Recorder mostra il disegno astratto di una curva su cui s’incagliano linee dritte e pungenti. «Quell’immagine riportata sull’arazzo è tecnologica, è derivata da una raccolta dati, è la traiettoria della nave Ong Sea Watch che trasporta migranti e che è rimasta a largo di Lampedusa per ben quattordici giorni, cercando di entrare nei porti italiani e sbattendo contro un confine invalicabile», chiarisce Camilla Casadei Maldini: «C’interessava la forza sintetica di questa immagine che rivela un confine. Ci interessava riprodurla tramite una pratica che fisicamente ripercorresse l’azione di una traiettoria che rimbalza. Una pratica che avesse un tempo lungo di riflessione e realizzazione, un gesto che venisse fatto con cura in opposizione al gesto della nave che è di forte violenza».

Veduta d’insieme di Nero Sangue, l’installazione di Binta Diaw (foto di Nicolò Arpinati)

Anche l’artista italo-senegalese Binta Diaw, con l’opera Nero Sangue, mette in dialogo passato e presente della colonialità. «L’installazione è una conversazione tra le opere in tessuto della serie Transfer, ispirate da immagini provenienti dalla rivista “La difesa della razza” e realizzate con una tecnica di trasferimento da carta a tessuto per cercare di uscire dal contesto scientifico e fascista, una scultura di pomodori veri, organici, colorati di nero e vetrificati per riflettere sulla questione del corpo nero, sulla sua fragilità del corpo e sullo sfruttamento sistemico che i migranti subiscono da molti anni in Italia, e infine una traccia sonora con le voci di persone afro-discendenti che leggono versi della poetessa canadese Marlene Nourbese Philip».

La mostra prosegue fino al 28 febbraio 2022 ed è visitabile a ingresso gratuito (il lunedì dalle 14 alle 19, dal martedì al venerdì invece sin dalle 10,30 del mattino), mentre nelle prossime settimane arriveranno anche le altre iniziative legate al progetto Transcultural Attentiveness, a partire dai podcast.

In copertina l’arazzo Voyage Data Recorder di Camilla Casadei Maldini e Luca Capuano (foto di Nicolò Arpinati).