NELLE STORIE

7 luglio 1960, i cinque morti di Reggio Emilia

Non è semplice trovare la giusta chiave critica per rievocare il 7 luglio 1960 e i cinque morti di Reggio Emilia, uccisi dal fuoco della Celere nel corso di una manifestazione contro il Governo Tambroni

 Come, più in generale, non lo è per quei “fatti di luglio” (per usare la definizione corrente a ridosso degli eventi) che nel loro complesso, prima e dopo la mattanza avvenuta nella cittadina emiliana, resero tragica e drammatica la scena politica dell’Italia di quegli anni e segnarono in qualche modo la chiusura della stagione del centrismo e l’apertura, sia pure cauta e irta di ostacoli, di quella del centro-sinistra. Più volte si è tentato “da parte nostra” di sostenere, con argomenti mai troppo solidi e basati su processi di ricostruzione più “lirici” e ottativi che storico- analitici, che il luglio ’60 sia stato un momento (…il primo!) di insorgenza, di esplosione “autonoma” della soggettività di una generazione che si stava scoprendo sovversiva e ribelle.

Un “tumulto” in qualche modo capace di anticipare i grandi movimenti a venire, dalle grandi lotte operaie del ’62, alle lotte studentesche di tutti gli anni ‘60 sino all’esplodere del ’68. Sembra invece più necessariamente fondato pensare che gli eventi del luglio ‘60 nascano in uno scenario in cui i tre grandi partiti dell’epoca si stanno confrontando sul terreno del progetto e della formula politica capace di andare oltre un “centrismo” sempre più logoro e insufficiente. La DC è segnata con forza dai contrasti interni, in cui una parte non esita ad accettare voti neofascisti a sostegno del governo Tambroni, mentre un’altra punta verso un’uscita più o meno strategica dal centrismo. Il PSI “autonomista” desidera con forza di candidarsi a un “centrosinistra” che lo porti a entrare “nella stanza dei bottoni” (definizione che Pietro Nenni sta cominciando a usare con discreta fortuna) del potere esecutivo e degli apparati di governo.

Il PCI, egemone a sinistra in termini numerici e organizzativi, non può e non vuole accettare di essere tagliato fuori da ogni gioco e punta a condizionare da vicino la nascita dell’alleanza DC-PSI e a creare almeno lo spazio di un cosiddetto “arco costituzionale” entro il quale poter, almeno in linea teorica, dialogare con gli altri partiti “che avevano fatto la Resistenza e la Costituzione”. Un confronto che è certo durissimo, soprattutto per la questione missina, ma è ancora tutto interno al sistema politico e alla rappresentanza tradizionale. Le giornate di Genova di fine giugno, con gli operai e i portuali che si battono contro la polizia con crescente coraggio e con violenza inusuale, sembrano incarnare alla perfezione quel modello “oggettivo” di indignazione e di insorgenza “democratica e popolare” che il “ritorno” dei fascisti in città e sulla scena politica del Paese non può non provocare e che diventa necessariamente lotta antigovernativa per il ruolo che all’MSI hanno assegnato Tambroni e il presidente Gronchi, protagonista di una serie di dissennate manovre che di fatto assomigliano alla sospensione della Costituzione.

In questo, la battaglia di Piazza De Ferrari, lunga cinque giorni, è, ma soprattutto deve apparire come tale, una battaglia per la difesa della democrazia e della legalità costituzionale e non come un momento di sovversione, di scontro rivoluzionario e di insorgenza eversiva. È probabilmente in questo quadro che la manifestazione di Licata, convocata dal sindacato per impedire la chiusura di una fabbrica e che segna il primo caduto sotto i colpi della polizia, viene sentita e vissuta come una sorta di evento separato dal resto della protesta “antifascista” montante.

E non a caso, la giornata di Roma del 6 luglio comincia nella tarda mattinata con un corteo di parlamentari della sinistra che tenta di deporre una corona sulla lapide che ricorda gli avvenimenti di Porta San Paolo del settembre ’43, ma viene caricato dalla Polizia, con tanto di deputati e di senatori malmenati e feriti. Poi continua con un’animatissima seduta parlamentare, in cui si discute sul vulnus ricevuto dalle istituzioni democratiche. Infine, non può che sfociare negli scontri pomeridiani, culminati nella “celebre” carica degli squadroni della polizia e dei carabinieri a cavallo. Il massacro di Reggio Emilia, il 7 luglio, appunto, di cinquantasei anni fa segna per il Governo Tambroni il punto di non ritorno e per il Parlamento la fine di ogni possibile mediazione, anche se gli scontri continueranno e ci saranno ancora i morti di Palermo e di Catania, prima che il 18 luglio il Presidente del Consiglio, difeso sino all’ultimo da Giovanni Gronchi, dia finalmente le dimissioni e Fanfani possa avviare quel governo delle “convergenze parallele” che sarà sostenuto dall’astensione del PSI e aprirà nel Paese la fase del centrosinistra.

Insomma: le giornate di luglio verranno per lunghi anni celebrate dal PCI come la battaglia vittoriosa che ha permesso di ristabilire, contro ogni tentativo e tentazione reazionaria, corrette relazioni tra la società italiana, i partiti, il Parlamento e la Presidenza della Repubblica: sostanzialmente, la “nostra democrazia”. Ciò non vuol dire, automaticamente, che le “magliette a righe” scesero in piazza e si comportarono soltanto come docile e obbediente “milizia di partito”. Gli scontri di Genova, di Porta San Paolo, della stessa Reggio Emilia, furono certamente vissuti come un momento determinante e risolutivo della propria militanza e della propria vita per chi vi prese parte.

E la loro “potenza”, ciò che potevano essere, divenne, necessariamente, uno dei miti, o bei sogni di una generazione. Ma un conto sono i miti, un conto le strategie di un partito come il PCI di quegli anni. Basti pensare alle modalità “pacifiche e democratiche”, con cui si svolsero, negli anni a venire, e almeno sino al ’67, le sia pur numerose manifestazioni antimperialiste, anche in versione studentesca e giovanile, per cause di tutto rilievo come l’Algeria, la decolonizzazione in Africa, la Spagna (…Dalla tua parte, Julian Grimau…), Santo Domingo, l’Indonesia, il primo Vietnam. E di converso, al giudizio della sinistra ufficiale sui “provocatori” e gli “infiltrati” di Piazza Statuto, negli scontri di un “altro luglio”, quello del ‘62.

Esistono molti filmati sui Fatti di luglio, tra cui un montaggio di Mimmo Calopresti, oggi reperibili su Youtube. Molto materiale d’epoca dovrebbe essere custodito presso l’Aamod.