PRECARIETÀ

Dopo la sentenza Foodora, quali prospettive di lotta?

Con la sentenza di respingimento da parte del CPR di Torino del ricorso lanciato da sei riders contro Foodora, si è chiuso un primo capitolo nel ciclo di lotte nazionali nel settore del  food-delivery apertosi due anni fa nel capoluogo piemontese.

Riconoscendo infatti come legittimo l’inquadramento dei ricorrenti nella categoria di lavoratori autonomi, il tribunale del lavoro torinese ha confermato la regolarità dei metodi utilizzati dalle imprese della gig-economy, archetipo del paradigma di iper-flessibilità su cui si fondano le odierne politiche del lavoro.

Questi metodi trovano così in Italia un primo precedente ufficiale di legittimazione sancito dalla giurisprudenza. Sfruttando l’ambiguità delle norme, queste imprese riescono a far apparire come rapporto di “collaborazione autonoma” una prestazione lavorativa che in realtà riproduce le caratteristiche tipiche del lavoro subordinato (definizione a opera del datore di lavoro per quanto riguarda: tempi, luoghi e remunerazione della prestazione).

Le piattaforme, nascondendo l’emergere di un economia on-demand dietro la retorica della sharing economy, hanno portato allo sviluppo di nuove forme di sfruttamento del lavoro e a una maggiore sperequazione della ricchezza.

Come sottolinea Trebor Scholz, attivista e professore Associato alla New School di New York: «Attraverso l’uso del linguaggio imprenditoriale della flessibilità, dell’autonomia e della scelta, il peso dei più grossi rischi della vita (disoccupazione, malattia ed età avanzata) è stato spostato sulle spalle dei lavoratori».

Il termine “lavoretti” (traduzione coerente del termine inglese “gig”) nasconde di fatto le  motivazioni che portano le persone a “optare” per queste occupazioni. Chi fa questo tipo di lavori spesso è esposto al ricatto della precarietà: si tratta infatti di disoccupati, oppure di studenti o neolaureati disposti ad accontentarsi di occupazioni part-time. Se da un lato, tale discorso pare non sia stato preso in considerazione dalle istituzioni (d.d.l. n. 3564 art. 2, comma 1, lett. a, 27/01/2016), sembra essere stato colto e sfruttato al meglio da tutti quei grandi investitori che, dopo la crisi del 2008, si sono dedicati al finanziamento di questo tipo di imprese.

La lotta dei riders italiani per l’ottenimento di migliori condizioni di lavoro, non si arresta dopo l’accaduto e, forte delle esperienze maturate sul territorio nazionale (Riders Unions e Camere del lavoro autonomo), è oggi a un punto di svolta. La reazione ai fatti di Torino ha infatti condotto alla convocazione, da parte della Riders Union di Bologna, della prima Assemblea Nazionale dei/delle riders di domenica 15 aprile.

Se si considera la configurazione della “gig economy” come tendenza generale della forma-lavoro nell’economia tutta, tale evento assume una rilevanza che trascende la lotta della specifica categoria che vi partecipa. Per questa ragione, è importante rivolgere l’attenzione ai margini di azione e alle possibilità future di auto-organizzazione del lavoro di questa specifica categoria; potendo queste essere estese a un’analisi critica del capitalismo di piattaforma nella sua interezza.

Come accolto nell’appello per l’assemblea nazionale di domenica, è oggi più che mai necessario che il movimento si organizzi in maniera trasversale e transnazionale attraverso la cooperazione delle diverse realtà che lo compongono. A questo fine è fondamentale che i lavoratori comprendano la loro situazione attraverso pratiche di auto-inchiesta che permettano una significazione dell’agire. Tali pratiche risultano fondamentali se si vuole contrastare quella che è una tendenza tipica del capitale, oggi estremizzata dai nuovi strumenti tecnologici: la frammentazione dei regimi di organizzazione dei lavoratori volta alla diminuzione del loro potere contrattuale.

Nonostante la prospettiva di una riorganizzazione in tal senso delle possibili rivendicazioni e lotte, l’opposizione alle condizioni di sfruttamento perpetuate da tali piattaforme trova un suo limite naturale nell’affidamento alla benevolenza dei regolatori per un loro miglioramento.  Questo  limite, lungi dall’escludere l’importanza di una prosecuzione delle lotte nel percorso della giurisprudenza, deve indurre anche a una riflessione sulle possibilità di azione alternative.

Le dinamiche della “gig economy” lasciano intravedere interstizi per una possibile autorganizzazione dei lavoratori. Nel rendere lo snellimento della struttura proprietaria la strategia chiave per la massimizzazione del profitto, le lean platforms (letteralmente :“piattaforme snelle”) si riducono a puro strumento estrattivo. Oltre ai costi di produzione, infatti, i lavoratori si fanno carico dei principali mezzi della stessa, aumentando così la possibilità di poterne offrire autonomamente i risultati ai consumatori. La distanza tra la situazione attuale e il raggiungimento di questa possibilità, può essere colmata da approcci alla  riproduzione su base non-proprietaria, e dalla gestione nel lungo periodo, dell’infrastruttura di intermediazione costituita dalle piattaforme. Distanza, questa, non priva di ostacoli attinenti al finanziamento, alla governance e alla regolamentazione interna delle risultanti common platforms. Essenziale resta anche l’offerta di una proposta di valore che faccia preferire queste ultime rispetto alle tradizionali piattaforme capitaliste. Tuttavia, come sottolineano molte pratiche e ricerche recenti, gli strumenti offerti dalla tecnologia odierna (es: P2P, Blockchain, crowdfunding etc.) sembrano poter facilitare il superamento di queste criticità. È quindi verso l’appropriazione della tecnica, oggi favorita dalla sua stessa configurazione, che si devono orientare le pratiche di lotta nel settore della gig economy e, più in generale, nel capitalismo di piattaforma. La rilevanza degli effetti di network per l’affermazione di uno standard nel mercato attuale rende fondamentale la creazione di un fronte comune fra i lavoratori della gig economy e  tra loro e gli utenti finali. A tale scopo resta quindi essenziale portare avanti le rivendicazioni attraverso proteste e scioperi ri-organizzati nella forma descritta in precedenza.