editoriale

23 febbraio: le operaie tessili abbattono lo zarismo

Il 23 febbraio 1917 (del calendario giuliano allora in vigore in Russia = 8 marzo) a Pietrogrado è il terzo anno di guerra e le poche risorse alimentari sono destinate al fronte, dove le cose vanno malissimo.

I partiti rivoluzionari si stanno faticosamente riorganizzando malgrado il regime bellico emergenziale ma non hanno nessuna intenzione di mobilitarsi per la giornata internazionale della donna proclamata sei anni prima e adottata nel 1913 anche dai bolscevichi per impulso di Aleksandra Kollontaj (l’8 Marzo corrisponde al 23 febbraio del calendario giuliano allora in uso in Russia). Però l’agitazione è viva e le operaie costituiscono a quel momento, a causa della mobilitazione, un terzo della popolazione operaia di Pietrogrado. Le tessitrici della tuttora esistente Krasnaja Nit’ (Filo Rosso), situata nel rione di Vyborg, decidono in autonomia di scioperare, chiedendo aumenti salariali e maggiori razioni alimentari: pane e aringhe! Staccano, escono fuori e vanno in corteo alle officine metallurgiche Putilov e si trascinano dietro gli operai sul Sampsonievskij prospèkt verso il ponte Litejnyj che unisce Vyborg e il centro cittadino scavalcando la Nevà. Il ponte è presidiato, ma polizia e cosacchi, colti di sorpresa, non insistono nel blocco e lasciano passare i manifestanti, che invadono il Nevskij prospèkt fin sotto la Duma municipale, senza incidenti. Sono comparse le prime bandiere rosse e cartelli contro la guerra (molte operaie erano mogli di soldati). Nessuno ancora immagina (scrisse Trockij) che la Giornata della Donna avrebbe inaugurato la rivoluzione. Solo a posteriori Kollontaj affermò: «La giornata delle operaie è divenuta memorabile nella storia. Quel giorno, le donne russe hanno innalzato la fiaccola della Rivoluzione proletaria e messo a fuoco il mondo; la Rivoluzione di febbraio ha fissato il suo inizio quel giorno».

Il giorno successivo i 90.000 scioperanti sono arrivati ormai a metà degli operai di Pietrogrado, in tutti i quartieri. I comizi si moltiplicano davanti alle fabbriche e subito dopo 140.000 partecipanti si concentrano di nuovo all’imboccatura del ponte Litejnyj, dove stavolta lo sbarramento non lascia filtrare. La Nevà è però ghiacciata e gli scioperanti scendono nel fiume aggirando il presidio e raggiungendo di nuovo il centro cittadino. Ora i cartelli attaccano direttamente l’autocrazia e invocano la pace subito. In qualche punto i soldati discutono e solidarizzano con gli operai e le operaie. Cominciano gli assalti ai forni, i saccheggi dei negozi e saltano le vetrine, Scontri a piazza Znamènskaja, oggi ribattezza piazza Vosstanija (dell’Insurrezione), mentre lo Zar abbandona la capitale per recarsi al quartier generale di Mogilëv. Sabato 25 i manifestanti sono 240.000 e i tumulti si intensificano. Alcuni agenti vengono percossi e disarmati, altri sparano, lo stesso capo della polizia è disarcionato e ferito, senza che i cosacchi intervengano. Nella notte fra il 25 e il 26 una retata poliziesca cerca di decapitare il movimento ma consegue solo il risultato di lasciare emergere quadri più decisi.

Domenica 26 sono assalite le botteghe del grande centro commerciale Gostinyj Dvor sul Nevskij e lì davanti e in piazza Znamènskaja cadono una quarantina di dimostranti, ma alcuni reparti di cosacchi e dell’esercito rifiutano di sparare o addirittura si ammutinano e passano dall’altra parte. Le caserme sono occupate e gli arsenali svuotati di armi. Bruciano il Tribunale e la sede della polizia segreta, la temutissima Okhrana, si spalancano le prigioni. La bandiera rossa issata sullo splendido palazzo Jusupov, dove era stato assassinato Rasputin, simboleggia la fine della sordida Pietroburgo dei complotti spionistici e degli intrighi principeschi. Nei giorni successivi l’insurrezione – ormai diventata tale – prende il controllo della capitale e un pezzo alla volta l’intera guarnigione, formata da 150.000 soldati e marinai, abbandona gli ufficiali, dovendo scegliere fra ammutinamenti reprimibili e una rivolta generalizzata.

Si sovrappongono così due poteri, entrambi insediati al palazzo di Tauride, sede della Duma: il comitato provvisorio del vecchio parlamento zarista che osa ribellarsi all’ordine imperiale di scioglimento per cercare di salvare il regime con un’abdicazione e il rinato Sovièt di Pietrogrado. Con l’abdicazione dello Zar e poi di suo fratello la Rivoluzione di Febbraio ha vinto, ma è solo l’inizio. La Pietroburgo, che secondo l’ultimo suo cantore, Andrej Belyj, apparteneva alla contrada degli spiriti, ora è definitivamente la Pietrogrado rossa.