OPINIONI

All’arrembaggio!

Da quanto tempo si caricava l’energia che ha dato vita alla grande mobilitazione per la Palestina e per una vita degna che si è svolta tra settembre e ottobre? Quali sono le condizioni per far sì che questa marea torni di nuovo in piazza?

Il mondo si è fermato
Mò ce lo riprendiamo
.
Mai più io sarò saggio – 99 Posse

Chi campa ‘nsiene ‘a te, te para’ nient’
Si jesce pazz è pazz overamente
L’unica verità pe’ tutte quante
Sarria chell’ ‘e fui’
Ma po’ addo’ jamm’

Vesuvio – Canti popolari

Quando si verifica un’esplosione, di solito si corre a cercare la miccia, e i più spavaldi rivendicheranno di averla accesa loro. Ma quando la terra trema e poi esplode in fiumi di fuoco, non c’è nessuna miccia, solo il magma bollente che dal cuore del pianeta si fa strada verso la superficie, verso l’aria aperta.

La portata degli eventi di fronte a cui ci troviamo non ci permette più di pensare semplicemente in termini di convergenza al centro (perché la somma delle parti è sempre più del tutto), ma piuttosto valutare il risultato di un insieme di contingenze, calcoli e intuizioni che hanno portato a un accumulo di tensione, frustrazione e desiderio in attesa di un punto di sfogo, la goccia che facesse traboccare il vaso.

E la goccia è arrivata, con l’intercettazione e l’assalto delle navi della Global Samud Flotilla da parte dell’Idf, e così tacitamente, senza bisogno di comunicazioni formali, ma per necessità, mosse da uno slancio di rabbia vitale, ci si è riversate ancora e ancora nelle piazze e nelle strade, dove finalmente abbiamo potuto vedere quel nuovo, che da tempo ci diciamo che sta nascendo, muovere i primi passi e iniziare a prendere forma.

Riteniamo utile a questo proposito riflettere sui rapporti tra spontaneismo e organizzazione, che non sono mai nettamente dicotomici e manichei, ma anzi due elementi di un binomio da cui bisogna trarre sempre nuove pratiche di conflitto.

Gli ultimi due anni hanno inciso profondamente sulle società politiche occidentali, inaridite e frammentate, per le quali l’intensificarsi dell’operazione sionista di pulizia etnica del popolo palestinese, avviata dal regime sionista quasi ottant’anni fa, ha rappresentato la secchiata d’acqua fredda che ci ha riportato con i piedi per terra.

Da una parte per l’enormità e la gravità di ciò che accadeva – e accade tutt’ora – in Palestina, che ci ha richiesto di agire con urgenza e determinazione; dall’altra perché è stato chiaro fin da subito, dalle prime manifestazioni di complicità dei nostri governi e delle nostre Istituzioni, che gli orrori che ci venivano trasmessi in tempo reale via social dall’altra parte del Mediterraneo erano il requisito fondamentale su cui si regge un meccanismo di estrazione di valore e di risorse, di estrazione della vita stessa, che ha radici proprio qui, nell’Occidente ’democratico‘ e ’progressista’.

Globalizzare l’Intifada (perché il sistema estrattivista è globale)

Il senso di urgenza scaturito dal concretizzarsi del disegno genocidario in Palestina ha risvegliato, nei contesti occidentali, il desiderio e la voglia di essere parte attiva di qualcosa che possa incidere sul reale, e questo allargamento capillare della partecipazione ha prodotto, secondo noi, diversi effetti.

l primo è che oggi, finalmente, parliamo di Palestina globale, dopo due anni di attivismo umanitario. Le strade e le università di tutto il mondo si sono riempite di nuovo di striscioni e cori che incitavano a “Globalize the Intifada!”: abbiamo visto in maniera evidente come il colonialismo dei regimi imperialisti si radica qui, in Occidente, e che si sostiene e si rigenera attraverso il nostro lavoro, attraverso i nostri consumi, ed è lo stesso regime estrattivista che da una parte uccide in Palestina e dall’altra non ci permette di arrivare a fine mese pur di avere le armi per continuare a sterminare. E le rivolte che nel frattempo sono scoppiate in molti, moltissimi Paesi del ’Sud del mondo‘, ci hanno ricordato che se il nemico è globale, deve esserlo anche l’Intifada.

Tuttavia, globalizzare l’Intifada non vuol dire solo renderla un fatto internazionale, ma legarla alle lotte che già in ogni Stato e territorio si muovono contro il sistema estrattivista: le lotte per la casa, per l’aumento dei salari, contro le privatizzazioni selvagge e le speculazioni.

In particolare, le collaborazioni istituzionali con i colossi della filiera bellica e del capitalismo fossile (a tutti i livelli, da quelle dei Comuni a quelle universitarie) si sono dimostrate il vero punto cruciale da colpire. E sono state difese a tutti i costi, sfoderando un alto livello di repressione.

Nell’università si incontrano il processo di aziendalizzazione, che va avanti ormai da anni, e i legami strettissimi con il settore privato e della difesa. Decine di Atenei collaborano con aziende come Eni e Leonardo, simboli dell’industria estrattivista e complici del genocidio in Palestina. Israele intrattiene centinaia di collaborazioni di varia natura con gli Atenei e gli Enti di ricerca italiani.

Già da due anni le studenti delle università stanno provando a costruire strategie di boicottaggio, mosse dalla necessità di svelare la sistematicità dei processi di privatizzazione e neocolonialismo.

La colonizzazione della Palestina e il genocidio del suo popolo rappresentano, infatti, un paradigma perfetto del sistema estrattivista, che delimita zone di sacrificio e masse in eccesso, ed elimina tutto ciò da cui non può trarre profitto. Assistiamo, quindi, al funzionamento a pieno regime di una zona di sacrificio globale, di una messa a profitto di corpi ormai divenuti anch’essi sacrificali, e alla produzione di esternalità negative generate dall’adozione di economie di guerra nei Paesi offensori.

Abbiamo parlato di globalizzare l’Intifada e ripensare la convergenza: non si tratta di un generico richiamo a un’unità posticcia, ma di un bisogno di uscire dall’immobilismo, di trovare ognuno il proprio ’porto da bloccare‘, mettendo in campo tutte le pratiche, le esperienze e i metodi che caratterizzano le diverse anime che compongono un Movimento, per produrre un nuovo, inaspettato metodo che insidi il sistema estrattivista-coloniale in cui viviamo.

di Fotomovimiento (Flickr)

Prospettive di movimento

Negli ultimi due anni abbiamo osservato il lento e graduale inizio di un processo di svecchiamento, rinnovamento nelle pratiche tanto quanto nei contenuti che, dopo lo strappo, il vuoto, lo scollamento generato dal Covid, inizia a germinare nelle università con le mobilitazioni per la Palestina, l’intifada studentesca e contagia tutti gli strati della società. Le giovani di tutto il mondo si avvicinano alla politica mosse da necessità e urgenza. Nasce in maniera decentralizzata, contingente e spontanea una rete internazionale che si aggrega non più attorno all’identità dell’ideologia, ma all’obiettivo: bloccare gli accordi di collaborazione con il regime genocidario, boicottare l’industria bellica, rendendo in questo processo protagoniste le persone e i loro corpi.

Al tempo stesso il regime di guerra globale innestato dal genocidio in Palestina, in Congo e in Sudan, permette e facilita l’avanzamento di un fascismo anch’esso globale, di cui stiamo iniziando a conoscere le insidie anche in Italia: ne sono un esempio la vera e propria guerra alle donne e libere soggettività che questo governo sta conducendo sul piano legale, tramite la legge finanziaria e a colpi di decreti, e su quello ideologico, culturale, mentre il numero di femminicidi del 2025 continua a salire; decreti sicurezza, militarizzazione dei territori e gentrificazione stanno modificando la percezione collettiva dello spazio pubblico, e la situazione nel suo complesso inizia a essere inquietante.

Alla luce di questo, in quelle giornate elettriche e di fermento che hanno portato masse oceaniche a “Bloccare tutto!”, si è liberato qualcosa: quella spinta – individuale e collettiva, spontanea e organizzata – a invadere ogni spazio pubblico con parole, corpi e musica. Abbiamo liberato quella voce che ci chiede di sollevarci dai margini e andare a invadere il centro del discorso, il centro della città, della produzione, dell’università, della scuola, della fabbrica.

Insomma, l’importante non è stato bloccare tutto, ma aver fatto capire alle persone che se vogliono, possono farlo. Prima delle mobilitazioni in Italia e in Francia al grido di “Blocchiamo tutto!”, molto prima, il Movimento femminista Non Una di Meno portava l’attenzione sul fatto che “Se ci fermiamo noi si ferma il mondo”, ed è questo che crediamo sia il punto focale, il “se”. Perché se abbiamo il potere di fermare il mondo, allora abbiamo anche il potere per farlo ripartire in un’altra direzione.

Per bloccare realmente la catena produttiva bisogna essere in tante, essere ovunque: non funziona più accentrare le forze per sferrare colpi decisi: è il momento di infiltrarsi in tutti gli spazi e gli interstizi del potere, infestarlo come edera per farlo collassare su se stesso, a partire dalle sue fondamenta reali, materiali. Non mettere più al centro della propria strategia il fare la guerra, il braccio di ferro, quanto piuttosto il fare la vita, e farla bella, libera e felice.

All’arrembaggio!

L’articolo originale è stato pubblicato su Attac.it. La copertina è di pierre c.38, da Flickr

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