OPINIONI
Ci vorrebbe uno Zo
Zohran Mamdani è un socialdemocratico con un programma riformista avanzato, che giusto negli Usa di Trump e nell’Italia di Meloni e Picierno passa per uno jihadista sanguinario. La sua vittoria offre utili spunti per riconfigurare l’agenda dell’opposizione politica anche da noi
Definire l’agenda politica è un momento importante di ogni campagna. Subire quella dell’avversario di regola è un disastro. Dirottarla (operare détournement, defacement) può essere una buona mossa, magari situazionista, se sei arrivato in ritardo. Tanto più se il governo Meloni, dopo aver fatto un certo strepito sulla separazione delle carriere dei magistrati (meno sul sorteggio e l’insidiosa separazione dei Csm e sulla composizione dell’Alta Corte), ora sta facendo marcia indietro sull’esposizione diretta nella competizione referendaria, che conviene solo agli eredi berlusconiani di FI, molto meno ai Fratelli per cui in realtà (lo ha ammesso La Russa) il gioco non vale la candela.
In effetti, a questo punto, il referendum non è sui giudici o sulla giustizia, ma sul governo Meloni a metà strada fra le regionali e le nuove elezioni nazionali.
Allora, allontaniamoci con garbo dalle sacrosante polemiche sull’autoritarismo di questo governo e sulla pretesa di ridisegnare il rapporto di forza fra potere giudiziario ed esecutivo per garantire l’impunità del secondo, evitiamo di constatare per l’ennesima volta le palesi ascendenze neofasciste e cogliamo l’opportunità offerta dal referendum per costruire un fronte unitario (non un campo largo soggetto a ogni furberia elettoralistica) contro il governo Meloni, un sì o un no netti. Già, con chi e su che cosa?
Per entrambi gli aspetti la lezione di Zohran Mamdani è utile. A NYC si è presentato in alternativa alla sconquassata e silente dirigenza Dem senza fondare un nuovo partito e neppure una nuova corrente, si è presentato con la forza del suo programma, non concordato con altri cacicchi del suo partito o litigiosi gruppi antagonisti in cerca di visibilità. Il suo programma e la discesa in campo sono stati sufficienti – e naturalmente è stato aiutato dall’emergenza Trump che ha distrutto le strutture precedenti e delle particolarità della storia politica americana e delle sue regole elettorali. Ma nessuno pensa di imitarlo in Italia, se non per l’indipendenza del gesto, per l’aver messo il programma prima degli accordi di schieramento (che pure ci saranno stati, secondo i riti locali).
Il programma non era fumoso e astratto, ma in stretta rispondenza con i problemi materiali della comunità che votava, con la sua constituency. Congelamento pluriennale degli affitti (freeze the rent), trasporti di superficie gratuiti (non la Underground), asili nidi gratuiti, tassazione incrementata dei più ricchi, supermercati comunali per calmierare il costo della vita, apertura ai migranti, salario minimo a 30 $.
Tutte misure che, con minimi opportuni adattamenti, sarebbero più che proponibili e popolari in Italia e immediatamente contrastanti con le scelte del governo Meloni in materia di affitti (lunghi e brevi) e sfratti (dal DL Sicurezza sugli sgomberi a quello annunciato sugli sfratti brevi e semplificati), con le politiche scolastiche (il mancato utilizzo del Pnnr per i nidi), con il sostegno (invero bipartisan) incondizionato alla liberalizzazione del commercio a favore dei grandi gruppi, con il definanziamento degli enti locali per il trasporto pubblico.
Per quanto riguarda Trump e Gaza, c’è poco da strologare: Zo è uno di noi, mentre il nostro governo (e anche qualcuno non di governo) è sdraiato su Trump e Netanyahu.
In ogni caso, quel che conta è il metodo, non i contenuti specifici – che pure sono sorprendentemente validi anche per noi, visto che riflettono una comune condizione dei Paesi industrializzati e urbanizzati.
Il referendum è un’occasione (tecnicamente impropria ma efficace) per presentare un gruppo di problemi assenti dalla caliginosa elaborazione avviata tra campo largo e magistrati su temi di complicata comprensione (tipo il pur cruciale punto della differenza nel sorteggio fra membri giudiziari e laici) e di nessuna popolarità, dato che la riforma in oggetto non sfiora neppure il funzionamento ordinario della giustizia. E lo fa in totale autonomia dalle forze politiche e dai comitati del No – che pure auspichiamo si facciano carico realisticamente delle ragioni effettuali dello scontro. Questa è la traduzione sul piano interno e quotidiano dello spirito di scissione che, sul terreno del contrasto al genocidio, si è manifestato impetuoso nei giorni di settembre e ottobre.
Il Governo è parte in causa diretta (e se l’è cercata) di un confronto che può avere contraccolpi pesanti sulla futura campagna elettorale e in cui Meloni rischia di andare a casa e l’Italia rischia il consolidamento di un regime reazionario.
Meloni, turn the volume up!
La copertina è di Eden, Janine and Jim (Flickr)
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