EDITORIALE

Un nuovo giorno
Più di settantacinque piazze in tutta Italia, da sud a nord, dai piccoli centri fino alle zone interne. Blocco dei porti, delle autostrade, tangenziali, occupazioni delle università. Uno sciopero generale che ha strabordato gli argini e tutte le aspettative. La sfida ora è mantenere questo spazio aperto e attraversabile
Ci sono giornate che restano impresse nella storia dei movimenti sociali di un paese. Ne ricordiamo molte. Il 22 settembre sarà una di queste. Lo sciopero generale convocato dai sindacati di base ha attivato un livello di adesione nei luoghi di lavoro e una partecipazione nelle piazze dalle proporzioni enormi. Ieri siamo statə marea come solo nelle mobilitazioni di Non Una di Meno negli ultimi dieci anni e lo siamo statə da Palermo a Torino, passando per Cuneo, Modica, Civitavecchia e più di settantacinque città in tutta Italia.
Il video racconto a cura di Patrizia Montesanti e Milos Skakal
Un’immagine, più di altre, restituisce la portata del salto di qualità: la Tangenziale Est di Roma, bloccata per ore in entrambe le corsie. Tantissimə automobilistə immobilizzatə nel traffico hanno risposto non con rabbia ma con complicità: applausi, clacson, bandiere improvvisate dai finestrini. E così è accaduto a Bologna, a Pisa e Firenze, dove sono state bloccate superstrade e autostrade, e nelle altre città dove sono stati bloccati porti e stazioni. Un varco improvviso ha ribaltato lo scenario politico.
La percezione diffusa di impotenza e frustrazione che ci ha accompagnatə negli ultimi due anni si è dissolta, sostituita da un inedito vento fresco: quello della possibilità.
Cosa è successo? Certamente l’ennesimo salto di violenza assoluta da parte di Israele ha scosso moltə. Ma questa spiegazione, da sola, non basta. Da tempo la soglia dell’intollerabile era stata superata senza produrre un simile livello di attivazione. A fare la differenza sono stati probabilmente anche altri fattori. La Global Sumud Flotilla ha offerto un segnale politico: che anche in piena congiuntura di guerra si possano immaginare progetti ambiziosi, rotture simboliche, alleanze transnazionali. Le occupazioni universitarie hanno mostrato che nuove generazioni, spesso escluse dal discorso politico mainstream, hanno trovato nuove chiavi interpretative e strumenti di attivazione. I boicottaggi e le mobilitazioni diffuse hanno lentamente ma inesorabilmente costruito un tessuto di legittimità che ha reso la questione palestinese inaggirabile. Le reti sociali e i collettivi, aperti e permeabili, hanno saputo accogliere spinte spontanee senza irrigidirsi in assetti precostituiti.
Questo intreccio spiega lo scarto qualitativo. Ma la domanda decisiva non è tanto perché sia accaduto, quanto come mantenere aperto lo spazio che si è creato. La manifestazione ci consegna un movimento pro-Palestina che ha raggiunto una nuova scala, nella composizione come nella capacità di esprimere forza. Una pluralità di soggettività — collettivi, comunità della diaspora, giovani in via di politicizzazione, pezzi di società civile non immediatamente collocabili — si sono ritrovatə nello stesso spazio.
È una risorsa enorme, ma anche una sfida politica: come costruire continuità senza irrigidirsi? Come coniugare capacità organizzativa e apertura? Come trasformare la potenza di una giornata eccezionale in una forza capace di incidere sul lungo periodo?
Ipotizzare numeri precisi è sempre difficile, e forse non particolarmente utile. A Roma, il colpo d’occhio era impressionante, piazza dei Cinquecento è stata così piena solo in occasione di manifestazioni nazionali convocate di sabato, e molti anni fa. Ieri era un lunedì mattina; nessun sindacato confederale aveva dato adesione allo sciopero – eppure lə loro tesseratə erano diffusamente presenti in piazza. Scuola e università hanno garantito un apporto decisivo, ma una piazza di quella portata è il frutto di una composizione straordinariamente larga: lavoratorə di molti settori, pensionatə, bambinə delle scuole primarie e molto altro. Ed è stato così in tutta Italia: decine di manifestazioni hanno attraversato le città piccole e grandi del sud e delle isole fino ai piccoli centri dell’arco alpino. Una capillarità della protesta che non si vedeva da anni. L’intero paese è sceso in piazza.
Un ulteriore dato politico significativo è segnalato dalla disponibilità diffusa alla radicalità della protesta. A Roma, quando il corteo ha imboccato la tangenziale, erano già passate le 15: la gente era in piazza dalle 8 del mattino con cortei spontanei, eppure una marea ha continuato a muoversi pur sapendo che il percorso sarebbe durato ancora a lungo. Cortei di oltre otto ore si sono dati anche in tante città come Milano, Bologna, Torino, Napoli. Ma anche in città più piccole dove senza paura si sono bloccati i porti, come a Genova, Salerno, Palermo, Civitavecchia, Ancona, Trieste, Livorno, Marghera, o le stazioni, come a Brescia, Pisa.
Disponibilità alla radicalità ha significato anche dare corpo al “blocchiamo tutto”, affrontando una repressione poliziesca brutale come quella andata in scena a Milano, a Bologna e a Marghera. Non soltanto cortei in solidarietà con Gaza, ma manifestazioni radicalmente contro il governo Meloni e la sua assoluta complicità con Netanyahu e Trump: lo si leggeva nei cartelli, lo si sentiva negli slogan, lo si percepiva dagli obiettivi praticati.
La giornata del 22 settembre segna anche una discontinuità – e speriamo una svolta duratura – rispetto alle modalità di convocazione degli scioperi: i sindacati di base hanno accolto l’indicazione del blocco totale della circolazione e della produzione lanciato dai portuali di Genova a sostegno della missione della Global Sumud Flotilla, sottraendo la convocazione dello sciopero generale dal calendario autunnale ormai del tutto rituale e mettendolo a disposizione di una lotta e di una composizione sociale che va molto oltre i propri perimetri organizzativi e vertenziali. Anche se molte strutture sindacali rinunciano con difficoltà alle proprie posture fortemente identitarie quando scendono in piazza. Un’opportunità clamorosamente mancata, invece, dai sindacati confederali, e in particolare dalla CGIL, che si è sfilata dal 22, convocando una giornata di mobilitazione il 19, in completo isolamento.
Il 22 settembre è una giornata che è riuscita finalmente a socializzare e politicizzare in modo inedito e del tutto riuscito lo strumento dello sciopero generale, sottraendolo, così, a qualsiasi tipo di proprietà e contabilità sindacale.
C’è un termine che ha usato “The Guardian” per commentare la giornata in Italia: disruption across Italy. Si potrebbe tradurre con “rottura/interruzione”, ma disruption significa molto di più: azione dirompente, messa in discussione di un sistema. È esattamente ciò che è successo ieri. Questa giornata è la possibilità di far nascere davvero qualcosa di dirompente contro il genocidio e contro l’inerzia in cui siamo rimastə imprigionatə negli ultimi due anni. Un po’ come è stata la partenza della Global Sumud Flotilla, che proprio in queste ore si avvicina a Gaza.
Sono serviti due anni per arrivare a manifestazioni di questa portata, la responsabilità non ricade solo sul clima politico ma anche sulle strutture organizzate, comprese le promotrici dello sciopero, incapaci finora di trovare linguaggi, forme comunicative e pratiche in grado di intercettare l’enorme dissenso che cresceva nel paese.
La sfida, da oggi in avanti, è quella di non scivolare nei soliti automatismi: ambizioni egemoniche, scarsa cura degli spazi collettivi, atteggiamenti maschili e testosteronici, forzature organizzative o, all’opposto, la tentazione di spegnere i conflitti con modalità “pompiere”. Il vento fresco segnalato dalla piazza di ieri indica una possibilità collettiva che non possiamo permetterci di non coltivare con coraggio e cura.
In un post pubblicato dopo il corteo, il Collettivo di Fabbricə GKN ha scritto che:«è una giornata storica, da vivere fino in fondo. Non è solo una giornata fondamentale per il movimento contro il genocidio e per la resistenza palestinese, ma è forse l’uscita dalla minoranza e dal minoritarismo dei movimenti sociali nel nostro paese. Diciamo “forse”, perché la strada è ancora lunga. C’è da portare la lotta nei quartieri popolari, estendere il consenso del movimento».
Non sarà facile: ritrovarsi in uno spazio collettivo è un compito complesso e faticoso. Ma vale la pena provarci. Da ieri questa prospettiva non è solo necessaria e urgente: è anche nuovamente possibile. Per Gaza, per tuttə noi.
L’immagine di copertina è di Marta D’Avanzo
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