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Una medicina peggio della malattia

Il neo-calcio tra razzismo e pacchetti sicurezza.

Nel giro di poche settimane abbiamo assistito alla chiusura delle curve di Lazio, Roma, Milan e Inter per effetto della nuova disciplina contro le manifestazioni di razzismo e antisemitismo promossa dalla Uefa […] (l’organo di governo del calcio europeo), estesa dalla Figc (Federazione italiana gioco calcio) anche agli atti di “discriminazione territoriale”. L’ultimo provvedimento riguarda la squadra rossonera che giocherà a porte chiuse l’incontro con l’Udinese a causa dei cori intonati durante il match contro la Juventus.

“Milano in fiamme”, “Napoli colera”, “Romano bastardo”: oggi questi cori, da sempre brutta colonna sonora degli stadi italiani, possono portare alla chiusura indiscriminata di un settore o dell’intero impianto, colpendo anche quella maggioranza di tifosi comuni estranei ai codici identitari (spesso brutali) delle curve.

Una forzatura repressiva che rischia di ricompattare il mondo ultras attorno alla “difesa della libertà di espressione e di tifo”, che mette sullo stesso piano slogan antisemiti e nazisti con la libertà di insulto anche becera, chiudendo nel peggiore dei modi i pochi spazi di riflessione aperti nelle curve italiane. Domenica scorsa la curva B del Napoli, in nome della “difesa dei diritti dei tifosi”, ha intonato gli stessi cori razzisti che li accompagnano costantemente in trasferta, per esprimere una solidarietà trasversale a tutti i tifosi colpiti dai provvedimenti disciplinari.

Ieri è arrivato il comunicato dei tifosi interisti in cui si esprime il massimo sostegno agli omologhi partenopei, “contro i quali – si legge nella nota – coltiviamo forse la nostra più acerrima inimicizia. Auspichiamo che tutte le curve facciano cori discriminanti per arrivare ad una domenica di totale chiusura degli stadi. Questa volta – chiude il comunicato – sono gli Ultras che vi ricordano la Costituzione della Repubblica Italiana, l’articolo 2 (‘La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo’) e l’articolo 3 (‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’)”.

La sacrosanta battaglia contro il razzismo, se si consegna esclusivamente alle misure repressive, rischia di peggiorare la situazione, lasciando sul campo una guerra di posizione tra gli organi dello stato e i settori ultras più ideologizzati e “militarizzati”. Un problema principalmente di ordine culturale e politico ha bisogno di spazi pubblici di partecipazione, di confronto, di messa in gioco dei protagonisti che apra contraddizioni e rotture, a partire dal ruolo dei tifosi comuni (spesso complici silenti di sottoculture fascistoidi) fino a quello dei giocatori e dei dirigenti.

Per oltre dieci anni – dalla metà dei ‘90 in poi – molte curve sono state il proscenio ideale per la rappresentazione di simboli e di un immaginario esplicitamente fascista e razzista, nella completa indifferenza delle società, dei giocatori e delle istituzioni calcistiche, quest’ultime più interessate all’evoluzione finanziaria ed economica del circo pallonaro, appeso ai diritti tv e alle sirene delle grandi corporation globali. Anzi, sembra esserci una precisa corrispondenza tra le misure repressive, ammantate da valori etici emersi con una urgenza tanto improvvisa quanto sospetta, e il progetto strategico di stadi-bomboniera sul modello inglese. Stadi comodi e di piccole dimensioni, dotati di spazi commerciali e di intrattenimento, dedicati soltanto a un pubblico consumatore, ammaestrato, disposto a spendere 50 euro per un posto in gradinata, senza il fastidio e le contraddizioni che hanno segnato 40 anni di passione popolare e ultras.

Ma tutto questo non basta, nessuna critica al “sistema” ci assolve dal guardare in faccia il tunnel disperato in cui si è andato a ficcare il mondo ultras, non un movimento omogeneo (come ci ha insegnato Valerio Marchi, studioso appassionato delle culture di strada), ma un territorio sociale segnato da derive identitarie, corporative, nichiliste, incapace di costruire un’alternativa al calcio-business di cui, a tratti, rappresenta la faccia speculare. Le mobilitazioni contro la tessera del tifoso, i dispositivi di controllo dentro e fuori lo stadio, la mercificazioni del “prodotto calcio” non sono riuscite a costruire uno spazio pubblico capace di parlare a tutti, generalizzare le rivendicazioni a quei pezzi di società che, da punti diversi, subiscono misure repressive molto simili. Gli stadi si blindano e si svuotano, la pay tv modella calendari a suo piacimento, i poteri forti dettano legge, mentre il “conflitto” assume i tratti autistici della contrapposizione alle forze dell’ordine o di un immaginario gretto, subalterno o nostalgico di un “tempo felice” mitizzato. I magnifici anni ottanta e novanta sono solo un placebo buono per rimuovere errori ed orrori.

Difficile immaginare risposte a tavolino, anche se alcune esperienze ci aiutano a rimetterci in cammino: dal basso, le tante esperienze locali di sport popolare che, senza rifiutare il profilo agonistico della prestazione, provano a ricostruire un modo di stare insieme, vivere l’organizzazione societaria e praticare sport lontano dai meccanismi speculativi economici e di omologazione culturale; dall’alto, a livello professionistico, le vicende esemplari di alcune tifoserie soprattutto europee (Amburgo, Barcellona e Bilbao su tutte), che accettano la sfida di un’aggregazione ultras matura, solidale, antirazzista, in grado di condizionare anche la gestione delle stesse società, attraverso sperimentazioni di azionariato popolare, partecipazione diretta e di controllo democratico. Questa è l’Europa che ci piace.