PRECARIETÀ

Modello Ryanair

Lavoro a basso costo, diritti violati, contratti collettivi nazionali evasi, riciclo continuo della forza lavoro, business dell’avviamento professionale: è il modello Ryanair. Aerei in volo, ma radici ben piantate nella devastazione sociale e occupazionale dell’Europa del Sud e dell’Est

«Idioti» ha risposto Michael O’Leary, direttore generale di Ryanair, a sette fondi pensione che il mese scorso hanno ritirato milioni di euro di investimenti dalla compagnia irlandese. Una mossa a sorpresa, vista la crescita imperterrita delle sue azioni, dovuta, più che ai grafici di andamento della borsa, a ciò che accade nei corridoi degli aerei e tra il personale di bordo. Tre cause «di alto profilo» sono state avviate contro il colosso dei cieli in Norvegia, Danimarca e Francia. Sotto accusa sono finite le condizioni di impiego dei dipendenti e l’utilizzo di contratti irlandesi per contenere diritti e costo del lavoro. «Abbiamo relazioni eccellenti [con lo staff], mai uno sciopero e nessuna minaccia che accada», ha continuato O’Leary.

In realtà, l’assenza di scioperi nella trentennale storia di Ryan sembra dipendere dal mancato riconoscimento dei sindacati, piuttosto che dalla qualità delle relazioni tra azienda e lavoratori. La compagnia aerea non è particolarmente rinomata per il trattamento dei suoi dipendenti. Solo nelle ultime settimane, programmi televisivi e racconti semiseri diventati virali in rete hanno denunciato le forme di lavoro a basso costo offerte ai candidati assistenti di volo e ai piloti. Ciò che accade dopo aver preso servizio, però, sembra oltrepassare le peggiori aspettative.

RETRIBUZIONI

Ryanair assume attraverso due agenzie di reclutamento: Crewlink e Workforce International. I contratti erogati non prevedono un fisso mensile e forniscono un corrispettivo solo per le ore di volo effettive, chiamate block hours. Queste rappresentano soltanto una parte del lavoro complessivo, il cosiddetto duty time. Lo stipendio, dunque, subisce forti oscillazioni sia tra le buste paga di un singolo lavoratore, in base alle ore volate ogni mese, sia tra quelle dei cabin crew basati in Paesi differenti, dal momento che la retribuzione oraria dipende dall’aeroporto di stanza. Inoltre, viene completamente rotto il legame tra salario e ore complessive di lavoro.

«Ho lavorato a Londra Stansed da gennaio 2016 a maggio 2017» – racconta Giuseppe – «È una delle basi migliori: si vola tanto e le ore sono ben retribuite. Dopo un anno di lavoro, però, sono riuscito a mettere da parte solo 800 sterline: una miseria, considerando i turni massacranti che facevo. E pensare che per risparmiare sono tornato a casa una volta sola e mi sono concesso appena quattro giorni di vacanza». Alessandra ha lavorato per Ryan nel 2012, in Norvegia. Dopo 10 mesi è stata licenziata e ha fatto causa alla compagnia, vincendo: «al netto di tutto, a fine mese arrivavo a percepire l’equivalente di 1.300 euro. Può sembrare un ottimo stipendio, ma in Norvegia corrispondeva alla metà di un salario medio-basso. Affitti e trasporti, di conseguenza, erano molto alti. Alcune volte è stato difficile anche mangiare». «Io lavoravo a Dublino. Non ero pagata male, ma, per la mole di lavoro che sopportavo, il mio stipendio era del tutto insufficiente. Comunque, ho sentito di colleghi basati in altri Paesi, soprattutto nell’Europa dell’Est, che alla fine del mese si ritrovavano con 300 euro in busta paga. C’è anche chi è stato spedito in basi con poco traffico aereo ed è rimasto a terra per 20 giorni di fila, senza vedere un euro», ricorda Giulia, hostess Ryan per 15 mesi, da giugno 2016.

18 EURO

La mancanza di uno stipendio fisso produce una forte instabilità retributiva. «Quando hai 20 anni, magari non ci pensi. Ma se ne hai dieci in più e vorresti iniziare a fare qualche progetto a lungo termine, è impossibile», dice Giuseppe. «Il problema non sono solo i soldi, ma anche a quante ore di lavoro corrispondono. Ad esempio una volta, mentre ero in reperibilità, sono stata chiamata per un Dublino-Liverpool: 30 minuti all’andata e 30 al ritorno. Ho guadagnato circa 18 euro: praticamente il costo del taxi che sono stata costretta a prendere per raggiungere in tempo l’aeroporto. Peccato che tra i due voli ci sono state 8 ore di ritardo, ovviamente non retribuite», afferma Giulia. Le autorità europee hanno stabilito, per contenere gli effetti sulla salute del personale di bordo, un tetto mensile alle ore di volo (100) e uno annuale (900). Per quanto riguarda il duty time, però, le cose stanno in maniera diversa: si possono raggiungere, e perfino sforare, le 12 ore lavorative giornaliere, arrivando a 60/70 ore settimanali. A cui bisogna aggiungere un’ora e mezza o due, di media, per il tragitto da casa all’aeroporto e viceversa. «Quando hai i turni early ti alzi alle tre di notte e torni a casa alle sei di pomeriggio. Alle sette vai a dormire, perché la mattina dopo ricominci. È vero che le ore di lavoro effettive sono sotto la media, ma quelle totali sono molto più alte. E Ryan non te le paga in alcun modo», dice Giuseppe.

ASSENZE O MALATTIA?

I problemi non si limitano allo stipendio. Anche le tutele generalmente previste in un impiego subordinato sono nulle presso la compagnia irlandese, che non rispetta i contratti collettivi nazionali e registra in Irlanda, o in pochi casi nel Regno Unito, i suoi lavoratori. «Se rimani incinta hai la possibilità di lavorare in ufficio solo se sei basata a Dublino, ma da quando partorisci al momento in cui torni a volare sei costretta a prendere del congedo non retribuito, che quantifichi tu», dice Giulia. Giuseppe, invece, sottolinea le problematiche relative alla malattia: «Se ti ammali, non ricevi stipendio. Inoltre, ti costringono ad andare in aeroporto ad autocertificare che non stai bene. Se non ti presenti prendi un no show, una sorta di assenza ingiustificata. Ma se stai male, come puoi uscire di casa, metterti su un treno e raggiungere l’aeroporto?». Simili vessazioni risultano particolarmente gravi per persone che svolgono un lavoro con effetti molto particolari sulla salute. Se quelli a lungo termine sono ancora oggetto di studio, nel breve e medio periodo si tratta di ricadute ben percepibili. «Ci ammaliamo spesso. L’aria della cabina è riciclata solo per metà ed è facile che, incrociando tanti passeggeri, ci si prenda qualcosa. Inoltre, è un lavoro che ti espone al sovrappeso: stando sempre in movimento, hai continuamente fame e sete. Molti di noi soffrono anche di disturbi del sonno. Queste cose, però, fanno parte del lavoro. Il problema con Ryan è che non ti paga la malattia e fa di tutto per costringerti a volare anche quando non sei in forma», continua l’ex steward. «Ci viene anche detto che si può essere vittima della cosiddetta fatigue: non è stress, non è stanchezza, ma un affaticamento cronico fisico e mentale. Io personalmente non riuscivo a conviverci. Durante i giorni off volevo solo dormire», aggiunge Giulia.

L’OBBLIGO DI VENDERE

Altra questione spinosa, che riguarda anche i passeggeri, è quella delle vendite di prodotti durante il volo. È capitato a tutti di provare a chiudere occhi e orecchie pur di interrompere il flusso continuo di pubblicità che dal decollo all’atteraggio attraversa senza sosta gli aerei Ryanair. Almeno una volta, avremo detto male di uno steward o di una hostess particolarmente insistente. Quando ci ritroveremo in una situazione simile, prima di prendercela con il personale di bordo, sarà utile considerare alcuni elementi. Da un lato, Ryan promette di restituire il 10% delle vendite al singolo lavoratore. Una percentuale piccola, e spesso oggetto di aspre contese tra i calcoli della compagnia e quelli dei lavoratori a causa delle cosidette discrepancies, ma necessaria per rimpinzare lo scarno stipendio. Dall’altro, per ogni volo l’azienda indica un minimo di vendite da raggiungere, calcolato in base alla tratta e al numero di passeggeri. Non vendere abbastanza, può comportare richiami disciplinari, forme di mobbing, pressioni continue. «Ryanair ha trasformato gli aerei in supermercati e i cabin crew in distributori di merendine. Tutte le persone a bordo sono considerate oggetti da spremere: chi per vendere, chi per comprare. Mettetevi nei nostri panni, lavori per 10/12 ore, poi nell’ultimo volo non raggiungi lo standard e devi passare un’altra ora nell’ufficio a spiegare perché hai fallito», dice Giuseppe. «Una volta abbiamo avuto un’emergenza medica in volo, ma dopo l’atterraggio siamo stati richiamati per non aver raggiunto l’obiettivo di vendita» – ricorda Giulia – «A bordo, inoltre, ci fanno pagare sia il cibo, che l’acqua. A prezzo intero. In pratica, quello che manca, ci viene detratto dallo stipendio». «Quando non raggiungi l’average spend vieni richiamato dal supervisor. Mi chiedo: se hai fatto domanda per diventare cabin crew perché devi essere costretto a vendere, che è un compito che esula da questa professione?», aggiunge Alessandra. Nell’estate del 2015, inoltre, la compagnia ha introdotto un’ulteriore novità: un dispositivo vpos, per il pagamento elettronico, individuale. Questo calcola le vendite sul singolo lavoratore. «Hanno distrutto il lavoro di squadra. Siamo stati messi in competizione uno contro l’altro. A fine mese pubblicano le statistiche in ogni base e fanno le medie. Ho visto scene assurde: persone di quarant’anni piangere per non aver raggiunto gli standard, colleghi rubarsi le vendite a vicenda », conclude amaro Giuseppe.

Un modello sales-oriented, quello di Ryan, che ha anche un’altra importante peculiarità. Più nascosta, più perversa. Si tratta delle spese di avviamento dell’attività professionale. Ogni aspirante cabin crew, infatti, deve seguire un corso di formazione obbligatorio, che costa fino a 3.000 euro, più 500 di tasse di iscrizione e 700 di vitto e alloggio per sei settimane: un totale di 4.200 euro. A questi vanno aggiunti 360 euro per la divisa, che il lavoratore paga in 12 rate mensili. Secondo la compagnia, tali costi vengono attutiti dai 1.200 euro di bonus corrisposti in tre mandate durante il primo anno e da un parziale rimborso, nel secondo, per le spese di manutenzione della divisa. Chi lascia il lavoro prima dello scadere dei dodici mesi, però, deve restituire i bonus. È facile capire che questo schema produce una situazione di forte ricatto sul lavoratore. «Ci sono alcuni che ti dicono: se non ti piace, non lamentarti, vattene! Ma dove vai quando hai speso più di 4mila euro di corso e invece della tredicesima hai ricevuto un bonus che ti chiedono indietro? Dopo che, in pratica, hai pagato per lavorare?», dice Giuseppe. Per l’azienda, invece, il ricatto che pende sui nuovi assunti è una ghiotta occasione di mercato. «Dopo 10 mesi ho iniziato a subire pressioni. Avevo appena finito di pagare il corso e volevano fare spazio ai nuovi arrivati, quelli che stavano ancora pagando la formazione», racconta Alessandra. L’esperienza di Giuseppe è parzialmente diversa: «Non licenziano quasi nessuno. Sai perché? Perché c’è un sacco di gente che se ne va, che non ce la fa più dei turni e delle pressioni e scappa. Questo per loro è un vantaggio, perché assumeranno qualcun altro che prima di iniziare gli deve già diverse migliaia di euro».

L’INDOTTO DEL RECLUTAMENTO CONTINUO

Non abbiamo dati rispetto al numero dei licenziati, né a quello dei nuovi assunti. Sul sito è possibile leggere soltanto che Ryan dispone di 11.000 assistenti di volo. Circa 5.000 sono impiegati da una delle due agenzie di recruitment, Crewlink. È certo, comunque, che il calendario dei giorni di selezione è quanto mai fitto: dal 30 maggio al 28 luglio di quest’anno sono previsti ben 65 recruitment days. Più di uno al giorno, fino a quattro contemporaneamente. Il range geografico comprende quasi esclusivamente Paesi dell’Europa del Sud e dell’Est: Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Bulgaria, Romania, Polonia, Slovacchia. Uniche eccezioni: le città di Dublino, Manchester e Londra. Di nuovo, è impossibile sapere quante persone partecipano a ogni selezione. Secondo gli intervestati, comunque, buona parte dei candidati viene accettata e spedita al corso di formazione. Crewlink scrive che questo viene superato dal 96% dei partecipanti. Mancano i numeri, ma è facile intuire che il flusso di lavoratori in entrata e in uscita è molto consistente. E con questo l’indotto costituito dalle spese che devono sostenere per iniziare a lavorare.

«Ryan gioca sulla disperazione dei ragazzi dell’Europa mediterranea e orientale, sui tassi di disoccupazione alle stelle, sulla mancanza di futuro. Loro ti garantiscono che il 10 di ogni mese, cascasse il cielo, prenderai i soldi. Non voucher, non pagherò, ma soldi. Anche se sono soltanto briciole, arrivano puntuali. Quando intorno c’è il deserto, questa sembra un’oasi» – riflette Giuseppe «Lavorare in simili condizioni è una scelta che non condivido, ma comprendo bene, vista la situazione generale. Quello che davvero non posso accettare è il discorso secondo cui, nonostante tutto, dovremmo ringraziarli perché ci fanno lavorare. Ho sentito tanti colleghi parlare in questo modo. Io penso che quando ci illudiamo che gli interessi dell’azienda siano anche i nostri, quando pensiamo che siccome ci danno lavoro possono disporre di noi come credono, abbiamo perso come lavoratori, come categoria, come esseri umani. Ho rilasciato quest’intervista perché spero che denunciando ciò che accade su quegli aerei, in quegli aeroporti, venga fatta pressione sulla compagnia. Essere low cost non può significare bullizzare i lavoratori e offrire un servizio infimo, esistono altri modi per abbassare i prezzi dei biglietti».

 

* Articolo pubblicato su Il Manifesto