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Lo spazio dei movimenti e la guerra simulata

Alcune riflessioni a freddo sulla May Day No Expo del 1 maggio: tra 30mila persone in piazza e la guerra simulata […] con le sue conseguenze, è necessario ora più che mai aprire una discussione sulla ‘forma movimento’ e sul suo spazio pubblico.

Alfano chiede di vietare le trasferte per i cortei, a Milano e in tutta Italia è caccia ai black bloc, meglio ancora se stranieri, la procura milanese ha aperto un fascicolo per devastazione e saccheggio, i telegiornali mandano in loop le immagini degli incidenti. Arriva il coro unanime di condanna e indignazione. Qualche immancabile sociologo d’accatto non riesce a trattenersi dal dire la sua, Saviano tesse le lodi delle forze dell’ordine. Un film già visto, ma con l’ossessione per il decoro che diventa soggetto politico della Reazione. Con quella sorta di riedizione della “Marcia dei 40mila” guidata da Pisapia, con leghisti e “democratici” che “ripuliscono” insieme la città.

Del fallimento di Expo, dei lavori in deroga e in scarsissime condizioni di sicurezza, dello sfruttamento intensivo, dell’ipocrisia delle corporation che affamano il pianeta si preferisce non parlare. Non ora, adesso è il tempo di costruire il nemico interno per nascondere lo scempio che sta andando in onda nella realtà: corruzione, infiltrazioni mafiose, il pubblico piegato agli interessi di pochi, i ricchi che diventano sempre più ricchi.

Venerdì 1 maggio abbiamo partecipato assieme ad altre 30mila persone alla May Day No Expo di Milano. Assieme a molte altre realtà nazionali, europee e milanesi abbiamo costruito lo spezzone “Scioperiamo Expo”. Perché l’Expo milanese è soprattutto, per quanto ci riguarda, il paradigma dello sfruttamento del lavoro contemporaneo. Lo scellerato accordo sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil, istituzionalizza di fatto il lavoro gratuito, legalizzando forme di neo-schiavismo salariale. Expo come paradigma dell’economia della promessa, quella che ripaga in “esperienza”, utile per allungare il curriculum e arricchire il capitale umano, lasciando intatta la miseria quotidiana con il miraggio di un domani migliore. Ma che resta sempre un domani. Abbiamo portato in piazza i percorsi di autorganizzazione sociale dei precari costruiti dall’autunno ad oggi all’interno dei laboratori per lo sciopero sociale, nella mobilitazione contro il piano Garanzia giovani, contro il lavoro gratuito e sfruttato dentro scuole e università.

Dal corteo abbiamo deciso di staccarci per andare verso la sede dell’Unione europea, con l’obiettivo di denunciare le politiche neoliberiste e di austerità garantite dalla Bce e della governance della Ue, come già avevamo fatto lo scorso marzo a Francoforte nei giorni della mobilitazione di Blockupy. Qui ci siamo scontrati con determinazione contro l’incredibile apparato di sicurezza che ha militarizzato la città, portando gommoni e salvagenti per denunciare le responsabilità della Fortezza Europa nell’aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero. Abbiamo costruito uno spezzone europeo perché siamo convinti che ogni rottura del presente possa ormai darsi solo a livello transnazionale, misurando a questa altezza ambiziosa la sfida dei movimenti sociali.

Crediamo, però, di dover affrontare i nodi politici che la giornata ci consegna. Perché di nodi politici si tratta. Proprio perché non crediamo che quanto accaduto possa essere letto con la categoria del “teppismo”, riteniamo che questo sia espressione di una strategia politica e come tale vada trattata.

Per farlo è necessario prima di tutto sgomberare il campo da equivoci: chi ha praticato l’assalto ai negozi, a filiali bancarie e dato fuoco alle macchine in sosta, lo ha fatto in maniera organizzata, praticando un’opzione politica assolutamente legittima ma che non condividiamo e che crediamo non debba essere confusa con altre forme di espressione. È francamente ridicolo chi intravede, ogni volta, la ripetizione di una nuova “Piazza Statuto”, l’irruzione plebea di nuovi soggetti sociali che farebbero saltare le vecchie logiche organizzative del movimento. Questo è accaduto e accadrà, ma non questa volta. Il primo maggio a Milano non ha visto nessun riot o tumulto, non era Baltimora e neanche piazza del Popolo a Roma il 14 dicembre 2010. Noi, che al corteo c’eravamo, non abbiamo visto alcun “evento”, alcuna “eccedenza” né, tantomeno, alcuna “destituzione”. Forse, per la precisione, tutto l’opposto: nessuno spazio politico è stato aperto, nessuna faglia nel consenso all’evento si è prodotta, nessuna identità, sociale o politica, è stata messa in discussione. Ognuno può rimanere comodamente ai posti di partenza.

Un corteo partecipato e plurale è stato cannibalizzato da parte di un’opzione politica significativa ma di certo non maggioritaria. Non ci dissociamo, non condanniamo quanto avvenuto, rispediamo al mittente le criminalizzazioni mediatiche, chiediamo la liberazione di tutti gli attivisti fermati e che andranno a processo nei prossimi giorni rischiando di pagare per tutte e tutti. Tuttavia, tutto questo non può far dimenticare che la potenziale politicizzazione di un campo sociale è rimasta chiusa nell’ambito della «pura amministrazione» di un fatto di piazza, uguale nei codici e nei simboli, nel dibattito stesso che ha prodotto, ad altri che abbiamo già conosciuto e che continuano a ripetersi uguali a se stessi a prescindere dal contesto e dagli obiettivi contro cui si lotta. Proprio come il neoliberalismo, toglie di mezzo qualsiasi spazio di organizzazione collettiva dei precari e dei poveri, così l’opzione politica emersa a Milano assume la “folla solitaria” come unico agente della trasformazione. Nessuno dubita che questa sia, propriamente, un’opzione politica. Abbiamo invece più di qualche dubbio che essa possa dirsi rivoluzionaria.

È sotto gli occhi di tutti quanto le elité capitalistiche siano oggi disposte a congelare le contraddizioni e le spinte alla trasformazione in una logica di guerra, per conservare i rapporti sociali di potere che si stanno consolidando nella crisi. Solo una cosa è per il capitale è preferibile alla guerra: la sua versione simulata.

Conviene però non chiudere qui la questione. Se è utile partire da una considerazione critica della giornata di Milano, pensiamo che questa debba riguardare tutti i soggetti che, in un modo o nell’altro, hanno dato vita alla manifestazione. Tempo fa, su questo stesso sito, avevamo provato ad alimentare una discussione pubblica sui limiti stessi del movimento italiano e delle culture politiche che lo compongono. L’abbandono di qualsiasi prospettiva strategica e programmatica ci era sembrata l’altra faccia da un lato, della riduzione della forma-movimento ad un confronto asettico e auto-referenziale tra famiglie e aree politiche e, dall’altro, dell’iniziativa politica ad una serie di contro-eventi. La definizione di nuove sperimentazioni organizzative, la coalizione fra differenti esperienze di “sindacalismo sociale”, l’articolazione fra radicamento e conflittualità molecolare e scadenze centrali, l’individuazione di ciò che è “fuori” dal movimento organizzato come il terreno su cui intervenire, ci erano sembrate l’unico modo per superare questo stallo. Una parte consistente del movimento ha intrapreso questa sperimentazione negli ultimi mesi, nella consapevolezza che essa comporta, necessariamente, l’abbandono di qualsiasi logica delle “identità”: il rovesciamento dei rapporti sociali si può agire solo “dentro” la società. Suscitare empatia ed essere intellegibili per aprire delle contraddizioni.

Non è certo il primo maggio a Milano ad averci fatto scoprire l’esistenza di queste differenti opzioni in campo. Il corteo milanese ci ha solo reso maggiormente consapevoli della loro crescente incomponibilità. Su tutti gli altri, per un motivo fondamentale: chi agisce la “guerra simulata” ritiene che, oltre sé stesso e i suoi simboli, vi sia uno spazio sociale già completamente colonizzato dal capitale. Che fra se stesso e il bancomat non ci sia nulla, tranne la magra possibilità di esprimere simpatia per l’uno o per l’altro. Per questo se ne frega del consenso. Per noi, invece, quello spazio di mezzo è uno spazio aperto, l’unico che conta perché oggetto di una contesa continua fra poteri contrapposti. È sulla possibilità di spostare i termini di questa contesa, di espanderla e di radicalizzarla, che si misura l’efficacia di un’azione collettiva. Quello stesso spazio che per noi deve essere attraversato da processi di politicizzazione e organizzazione, è lo stesso che rischia ogni volta di essere prosciugato e consegnato ad un gioco delle parti senza alcun residuo. Quando non apre a dinamiche di politicizzazione a noi avverse, come quella capitanata in questi giorni da Pisapia.

La giornata milanese, dunque, lascia sul tappeto, e rilancia con maggiore forza, la sfida per una trasformazione di ciò che comunemente intendiamo per movimento. Superati i commenti e le prese di posizione, è attorno a questa sfida che conviene riprendere la discussione.