La sinistra italiana e il nuovo “populismo penale”

Apriamo un dibattito su cosa sono “legalità” e “giustizia”, per un nuovo garantismo.

Con questo contributo intendiamo avviare, all’interno di Dinamopress.it, un focus di analisi, inchiesta, discussione sullo stato attuale della “giustizia” in Italia. Indagare la natura e le modalità dei nuovi dispositivi repressivi, le tendenze e le trasformazioni in atto nella gestione dell’ordine pubblico, le nuove forme di attacco ai movimenti e alle lotte sociali. E ancora, interrogarsi su quali siano oggi le condizioni di possibilità, o quantomeno gli spazi residui, di un’azione politica garantista in Italia. Termine carico di ambiguità quello del garantismo, come specificheremo più avanti, ma che dal nostro punto di vista ci rinvia ad una nobile esperienza di lavoro comune tra militanti, avvocati, giuristi, associazioni, volto all’autotutela delle lotte stesse.

Su queste linee tematiche tenteremo, nelle prossime settimane, di raccogliere contributi, interviste, punti di vista.

Le ragioni di una tale urgenza sono sotto gli occhi di tutti. Soffermiamoci soltanto sulle ultime 48 ore. Nella giornata di lunedì, a Padova, due attivisti vengono sottoposti agli arresti domiciliari, due agli obblighi di firma, altri cinque denunciati a piede libero, con l’accusa di violenza e lesioni a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio (il che rasenta l’assurdo se consideriamo il contesto, una giornata di sciopero europeo). E’ l’ultima di una fitta sequenza di azioni repressive che, dopo il 14 Novembre, hanno colpito studenti e attivisti in molte città italiane (tra cui Roma, Torino, Napoli), la reazione alle grandi mobilitazioni autunnali.

Sempre nella giornata di lunedì a Roma sei giovani vengono condannati in primo grado a sei anni di reclusione ciascuno, per i fatti del 15 ottobre 2011 di piazza San Giovanni. Ritorna, dopo la sentenza estiva su Genova, il reato di devastazione e saccheggio, risalente al Codice Rocco ancora vigente. Reato posto a tutela della sacra e inviolabile proprietà privata, all’interno di un ordinamento penale dove non è invece ancora stato introdotto il reato di tortura (un’importante iniziativa su questo tema si è svolta lo scorso 10 novembre al Cinema Palazzo Occupato, in collaborazione con l’Associazione Papillon-Rebibbia). In sostanza, il nostro ordinamento penale, in un’ottica “sistemica”, antepone la difesa della proprietà all’incolumità fisica e morale del singolo.

Martedì mattina invece la Corte Europea di Strasburgo condanna lo Stato italiano al risarcimento di centomila euro per sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, affermando senza mezzi termini che la condizione carceraria in Italia viola, in maniera oramai strutturale, i diritti umani. La replica del Ministro Severino è a dir poco grottesca: «Avvilita, non stupita», ha dichiarato la Severino, per poi aggiungere, «non si faccia però campagna elettorale sulla pelle dei detenuti».

Non ci sembra che si corra questo rischio, neanche lontanamente. La tematica della condizione carceraria italiana è del tutto assente dai programmi delle coalizioni politiche in campo. Così com’è del tutto assente un qualche tipo di ragionamento sullo stato dell’arte del nostro ordinamento penale, su quel progressivo formarsi, per utilizzare le parole di Livio Pepino, di un «diritto penale del nemico» (cfr. L. Pepino, Forti con i deboli. Perché oggi la magistratura non riesce a fare giustizia, Rizzoli, 2012). Al contrario, registriamo un totale appiattimento di gran parte degli schieramenti politici sulla parola d’ordine, del tutto mistificatoria, della legalità.

E’ singolare quanto emblematico che nelle scorse settimane, “a sinistra”, la competizione si sia aperta con lo scontro tra l’oramai ex Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso, candidato nel listino del Pd, e l’oramai ex Pm della Procura di Palermo, Antonio Ingroia, candidato addirittura alla Presidenza del Consiglio, con una lista che si propone di essere nientemeno che “rivoluzionaria”.

In tempi di crisi sistemica, di disoccupazione giovanile che ha raggiunto il 37%, di sovraffollamento delle carceri, in Italia una delle mete più ambite del nuovo ceto politico “di sinistra”, sembra essere il Ministero di Grazia e Giustizia, proprio quel ministero dal quale lo scorso 14 novembre sono piovuti lacrimogeni sulla testa dei manifestanti.

La pervasività del giustizialismo nella cultura politica della sinistra, il ripetersi con regolarità di un fenomeno che affonda le radici indietro nel tempo nella storia repubblicana, definisce forse il tratto più peculiare dell’anomalia italiana.

C’è una costante, infatti, che ha attraversato l’ultimo ventennio politico nel nostro Paese, che ha inciso in maniera determinante sulla transizione dalla Prima alla Seconda Repubblica, e tutto ci fa pensare che avrà un’influenza altrettanto decisiva in quello che sarà il probabile approdo alla Terza: il ruolo attivo che una parte della Magistratura, soprattutto Inquirente, svolge nella determinazione dei processi della politica, nella ridefinizione delle sue forme governamentali. In particolare, “a sinistra”.

La magistratura sembra rivestire in Italia lo stesso ruolo che nell’altra sponda del Mediterraneo è affidato agli eserciti: gestire le transizioni di regime politico, contenendo o reprimendo le istanze e le tendenze alla trasformazione radicale.

Alcuni, nel corso di questi anni, hanno messo in luce le fattezze – di certo mostruose – di questo fenomeno parlando di «ruolo di supplenza» della magistratura nei confronti della politica, altri, in maniera più evocativa, di «partito dei giudici». Occorre tenere aperto un punto di vista materialistico su questo fenomeno, coglierne la sua internità alla crisi dello Stato e dei suoi tradizionali istituti della mediazione politica. In tal senso la magistratura diviene a tutti gli effetti un dispositivo di governo, una forma di regolazione dei conflitti sociali che subentra allo sgretolarsi dello Stato dei Partiti.

In uno scritto molto importante apparso nel 1996, Luciano Ferrari Bravo (Processo all’italiana, ora in L. Ferrari Bravo, Dal fordismo alla globalizzazione, Manifestolibri, 2001, pp. 287 ss.) metteva in luce come il «partito dei giudici» si sia trovato ad essere protagonista della lotta politica in Italia in due momenti storici cruciali: negli anni Settanta, al fine di reprimere le istanze di trasformazione espresse dalla nuova composizione sociale del lavoro, esterna al patto fordista, e in un secondo momento nei primi anni Novanta, con l’avvio della stagione di Tangentopoli, nel quale invece si pone al servizio di una regolazione dei conti «infrasistemica», funzionale alla definizione di un nuovo regime politico, post-Muro di Berlino.

Tra questi due momenti cruciali della storia italiana, si materializza, secondo l’autore, un vero e proprio “idealtipo” di processo politico all’italiana: gli strumenti giurisdizionali si trasformano da garantisti a repressivi, il processo diviene un dispositivo per perseguire, per via giudiziaria, scopi di lotta politica.

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All’avvio di una nuova campagna elettorale che vuole essere costituente, constatiamo che questo fenomeno si è diffuso in maniera ancor più capillare, al punto da condizionare la selezione del ceto politico, le strategie e i programmi della maggior parte degli schieramenti in campo.

Per ora, nel dibattito pubblico, poche ci sembrano le voci che stanno manifestando insoddisfazione o inquietudine per questa tendenza. Luigi Ferrajoli, in un recente intervento all’Università di Roma Tre, ha definito questo fenomeno come «nuovo populismo penale», che ha contagiato la cultura politica della sinistra a ogni latitudine. Luigi Manconi, in un intervento molto “sobrio”, apparso su «l’Unità» lo scorso 27 dicembre, si chiedeva: «La crisi della giustizia non ha nulla a che fare con la delega alla magistratura dell’uso simbolico del diritto penale? Non è certo un caso che, proprio ora, al partito di un Pm possa subentrare il partito di un altro Pm, capeggiato da un terzo Pm (e tutto ciò si vorrebbe sinistra!)».

Ecco, questo ci sembra il punto: tutto ciò si vorrebbe sinistra.

Può una sinistra, che si propone di essere alternativa alle costituente neoliberale europea, essere appiattita attorno alla parola d’ordine della legalità? Non c’è forse, in questa delega ai professionisti della legalità e, nello stesso tempo, nell’investitura di nuove figure carismatiche, il rischio di produrre uno strano mix tra cultura dei tecnici e partito personale di berlusconiana memoria?

Ma chiediamoci ancora: cosa si intende oggi, al di là degli slogan e della retorica, per rispetto della legalità?

Se con questa parola si intende la centralità e la supremazia della legge all’interno dell’ordinamento rispetto alle altre fonti giuridiche, possiamo constatare con un certo realismo che questa centralità è finita e da un pezzo. Un punto di vista di classe dovrebbe assumere la crisi dello Stato di diritto e del rapporto di rappresentanza fiduciaria ad esso connaturato, come base di partenza per la riapertura di ogni sperimentazione politica. Assumere il pluralismo (e l’eccedenza) delle fonti del diritto come una premessa, per ripensare completamente il tema della legalità (e il binomio legalità-legittimità), valorizzare le sperimentazioni istituzionali dei movimenti, la produzione di diritto autonomo, come un laboratorio per la ricerca di nuove forme di decisione e di organizzazione politica. L’esperienza di Syriza, ad esempio, ci sembra interessante proprio laddove ha scommesso sulla valorizzazione delle esperienze di istituzionalità prodotte nella società e nei movimenti.

Se invece con legalità si allude alla lotta alla corruzione, anche in questo caso le torsioni giustizialiste rischiano di condurci, a nostro modo di vedere, del tutto fuori strada. Prendiamo la distinzione, più volte richiamata e un po’ manichea, tra un’economia “pulita”, da valorizzare, e un’economia “sporca”, da combattere a suon di manette, leggi e carceri speciali. Manca del tutto anche in questa seconda declinazione della legalità un punto di vista che colga la natura congenitamente corrotta del capitalismo contemporaneo. Con corruzione intendiamo, fuori da ogni tirannia della morale, il ritorno al centro della scena dello sfruttamento di forme di “accumulazione originaria”, di violenza sostanzialmente extra giuridica ma del tutto assorbita all’interno del c.d. regime di legalità. La corruzione, vale a dire l’appropriazione a fini privati di ricchezza pubblica, è a tutti gli effetti l’altra faccia della medaglia della crisi della rappresentanza. Non è una “deviazione” ma il segno di una modificazione generale dei rapporti sociali. Al contrario, ridurre la lotta alla corruzione alla lotta tra due economie – “buona” o “pulita” la prima, “sporca” o “cattiva” la seconda – rischia di essere del tutto speculare alla concezione del mercato propugnata dai neoliberali (si noti, infatti, come nei discorsi dei giustizialisti la parola legalità vada sempre a braccetto con “merito”, “competenze”, etc.).

Una sinistra “anticapitalista” pensiamo non possa non fare i conti con queste considerazioni.

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Per queste ragioni riteniamo opportuno aprire un ragionamento sull’attualità del garantismo in Italia, sottoporlo alla prova del presente. Distinguendo, sempre con Ferrari Bravo, un garantismo “passivo”, volto alla mera difesa dell’esistente (e che in fin dei conti si riduce alla riproposizione di un astratto quanto sbiadito principio di legalità costituzionale, da tempo assorbito dalle retoriche “presidenzialiste” sul patriottismo costituzionale) e un garantismo “attivo”, che mira piuttosto «alla garanzia dell’apertura continua delle regole di trasformazione del sistema». Su quest’ultimo “tipo” di garantismo vorremmo riaprire il ragionamento, provando anche a capire quali concreti elementi di campagna politica si possano costruire nei mesi a venire.