PRECARIETÀ

Il caporalato è il perno del nostro diritto del lavoro

I morti, italiani e migranti nei campi, del Sud Italia hanno fatto suonare un campanello d’allarme, ma quello di cui dobbiamo renderci conto che il caporalato non è un’eccezione ma il paradigma nel mercato del lavoro.

La morte durante il lavoro nei campi di Paola Clemente ha rotto qualcosa nell’immaginario collettivo.

La crudezza del lavoro nei campi, piegati a metà, o sempre sollevati, il sole a picco, l’attesa alle rotonde; tutte immagini collocate dalle persone comuni di solito all’interno del fenomeno dell’immigrazione sono improvvisamente sbalzate nel “cassetto” che la nostra mente dedica alla questione lavoro (o al massimo lavoro degli immigrati ovviamente).

La sofferenza e la morte di italiani ha reso chiaro come lo sfruttamento della manodopera sia davvero ampio.

Vorrei però disvelare un aspetto che non mi sembra emerso nel dibattito.

Il caporalato non è un’eccezione del sistema più o meno ampio, ma è uno dei perni del sistema prodotto – e che si continua a produrre – a cause delle riforme degli ultimi anni.

Nel nostro ordinamento vigeva il principio regolato dalla legge n. 1369/60 per cui il lavoro non è una merce e non è possibile vendere forza lavoro: chi lo facesse commetteva un illecito civile e penale (cioè un reato). Si trattava di un principio quasi banale: chi usufruisce dei frutti del lavoro deve anche farsi carico dei diritti del lavoratore.

Per fare ciò la legge vietava espressamente l’appalto che aveva per oggetto solo la manodopera e considerava tale l’appalto ogni qualvolta l’appaltatore impiegasse capitali, macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante anche a titolo oneroso (art. 1 comma 3): l’appaltatore non era tale se si limitava a dirigere gli operai;

Inoltre, la legge imponeva nel caso di appalti leciti interni all’azienda una parità di trattamento economico tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli dell’imprenditore, obbligando anche quest’ultimo al pagamento della eventuale differenza (art. 3). Così il legislatore impediva che l’appalto fosse il modo surrettizio per abbassare il salario e rendeva non conveniente l’interposizione di manodopera.

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Oggi si assiste al capovolgimento del principio descritto, cioè al tentativo di realizzare la separazione del lavoro dall’impresa.

E questo fenomeno non riguarda solo il lavoro nei campi ma è una strategia regressiva diffusissima in tutti settori e molto praticato dalle grandi imprese.

Da anni assistiamo ad una vera e propria “fuga del reale datore di lavoro” che inventa stratagemmi giuridici per inserire un datore di lavoro fittizio tra sé e il lavoratore.

Per chi si occupa di diritto del lavoro è frequentissimo incontrare – e difendere – lavoratori impiegati in un azienda, ma formalmente assunti da cooperative o società che non hanno mai conosciuto – spesso con sede presso studi dei commercialisti – magari rette da una persona che vedono una volta al mese per consegnargli la busta paga.

Faccio un esempio: la Unicoop fornisce ai suoi consumatori un servizio di spesa a domicilio, denominato “la spesa che non pesa”. Il consumatore ha un ordine on line e poi dei lavoratori fanno materialmente con il carrello la spesa che poi verrà consegnata con dei furgoni. Questi lavoratori lavorano dentro la Coop, rispondono al caporeparto Coop, si “sentono” della coop, però sono formalmente assunti da una piccola cooperativa.

Il Tribunale deciderà, ma io qui intendo interrogare anche il buon senso. A Lui la sentenza.

Ma gli esempi sono tanti.

E poi non è da annoverare nella “fuga del datore” anche il fenomeno delle partite iva monocommittenti? In questo caso l’imprenditore impone un rapporto formalmente ugualitario, quindi senza dover garantire i diritti al collaboratore, quando di fatto usufruisce del lavoro altrui e il collaboratore lavora interamente o quasi per lui.

A questa tendenza del mercato le riforme degli ultimi anni hanno dato un appoggio. Cioè il legislatore non le ha osteggiate ma rese più agevoli.

Il lavoro più sporco lo ha fatto Berlusconi. Ma come spesso è avvenuto il centro-sinistra ha spianato la strada. Qualcuno ricorderà che le agenzie di lavoro interinale sono state introdotte nel 1996 dal primo governo Prodi, per alcune ipotesi specifiche. E solo un eccezione si diceva.

Ma il muro era sbrecciato, a Berlusconi è bastata una spallata.

Il Dlgs 276/03 – c.d. legge biagi – ha abrogato la legge 1369/60 e ha introdotto il contratto di somministrazione consentendo alle agenzie interinali di vendere manodopera a tempo determinato e indeterminato.

E’ giusto precisare che non è che adesso il nostro sistema ammette in maniera indiscriminata la vendita di manodopera. Speriamo che non si arrivi mai a tanto.

Ma la legge Biagi ha realizzato qualcosa di molto grave.

Si è passati da un sistema che non dava cittadinanza alla vendita di manodopera ad un sistema che l’ammette seppure ad alcuni soggetti soltanto. E’ un po’ come assoldare dei rapinatori in un esercito regolare.

Il senso dell’abrogazione della legge 1369/60 è proprio quella di fare in modo che la regola e la eccezione invertano le loro posizioni.

Del resto, oltre ad abrogare la legge 1369/60 il dlgs 276/03 ha introdotto delle disposizioni che rendono più agevole il caporalato e la “fuga del datore di lavoro”.

In primo luogo, si ammette la liceità di un appalto in cui il servizio reso dall’appaltatore sia caratterizzato “dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto” (art. 29). Cioè l’appaltatore organizzi solo il personale senza avere alcuno strumento. Ma è evidente che il confine con il caporalato è labile, dire quasi inesistente. E la prova che il lavoratore deve fornire nel processo più complicata. E un po’ come se in una partita di calcio una delle due squadre potesse toccare la palla con la mano per un intero tempo.

>Abrogando la legge 1369/60 la legge Biagi ha eliminato l’obbligo di parità di trattamento tra i dipendenti dell’appaltatore e quelli del committente, favorendo l’esternalizzazioni finalizzate al risparmio e una odiosa disparità tra lavoratori che lavorano gomito a gomito. E poi, rimane la possibilità per il lavoratore di adire il committente per ottenere il pagamento della retribuzione negata dall’appaltore, ma solo “previa escussione”, cioè dopo aver faticosamente tentato un pignoramento dell’appaltatore.

Ho fatto questi brevi accenni per precisare che le tragedie che giustamente hanno toccato l’opinione pubblica, non sono incidenti ma ovvie conseguenze del sistema come si sta delineando. E’ che le dichiarazioni del governo hanno il sapore di spot che non intendono saputamene invertire la tendenza.