MONDO

Di catene, biciclette e vento di cambiamento

Quando ti accorgi che il lavoro che fai è determinato soltanto dalla necessità economica o dalla pressione sociale è arrivato il momento di sparigliare le carte

Ma può succedere che mentre ti arrovelli per cercare la strategia meno colpevolizzante per mollare un lavoro a tempo indeterminato, ma reso terribilmente frustrante da una conduzione aziendale famelica e da un Paese che ha fatto del mercato del lavoro un terreno senza ragione, il tuo datore di lavoro ti faccia trovare sul tavolo una lettera di licenziamento con effetto immediato.

Eri stata convocata formalmente per discutere di quel nuovo cliente che ti aveva appena assegnato ma ti ritrovi, senza alcun preavviso, di fronte ad un capovolgimento totale di prospettiva. Piedi sulla scrivania, ti ringrazia col cuore in mano per i sei anni di duro lavoro e ti comunica che, suo malgrado, non ha più alcun bisogno di te. Spiacenti, ma nell’operazione “Jobs Act” il Governo ha lavorato per allargare il proprio consenso promettendo crescita, ha fatto un regalo alle aziende utilizzando soldi pubblici per assicurargli sgravi a copertura del 100% della contribuzione e a distanza di un anno ha alzato le mani, dicendo “Abbiamo scherzato”.

Leggi la lettera più volte perché non credi ai tuoi occhi ma è così, sei stata scaricata. D’altronde avevi detto a te stessa che sarebbe successo appena un anno prima, quando dopo cinque anni di precariato, quello stesso datore di lavoro ti aveva offerto una stabilizzazione con conciliazione: un contratto nuovo di zecca, a tempo indeterminato e a tutele crescenti, in cambio della rinuncia a rivalerti sull’azienda per i co.co.pro. degli anni precedenti. Un ricatto e con poco stile. Ero stata lungimirante ma poco coraggiosa e avevo siglato quel contratto.

Nei giorni a seguire ho percorso molti chilometri in bicicletta, che è uno dei modi che conosco per schiarirmi le idee, riflettere, prendere le distanze e recuperare lucidità. Sono una donna senza marito né figli, ormai senza lavoro e con un mutuo da pagare e vivo in una delle più belle e inospitali città di Italia, Roma. Mi guardo intorno e vedo solo macerie.

Faccio un paio di colloqui per non lasciare nulla d’intentato ma nel primo vengo presa prima ancora che mi venga comunicata la mia retribuzione e nel secondo, superata la prima intervista, mi viene candidamente chiesto quanti figli ho messo al mondo e se intendo riprodurmi ancora, quale lavoro faccia il mio compagno/marito – che non ho – e quanto ho guadagnato per gli ultimi tre lavori svolti. Sono anni che resisto ma ora non ho più voglia di difendermi e capisco che le poche energie che mi restano devo tenerle per me e organizzare il migliore degli epiloghi: la fuga.

Se il Jobs Act ha fatto dell’articolo 18 carta straccia e trasformato la possibilità di licenziamento in una seccatura da gestire con un po’ di indennizzo, quello che posso fare è affittare il mio appartamento, prendere quell’indennizzo e andarmene. Vorrei scappare sulla luna ma punto a caso il dito fuori dall’Europa e in poco più di un mese mi ritrovo a Chicago.

Sono una donna disoccupata dicevo, ma sono anche una cicloattivista. Uso la bicicletta quotidianamente e sono fermamente convinta che le due ruote siano l’unica soluzione possibile per ridisegnare i lineamenti delle nostre città invivibili, l’unica soluzione possibile per attivare un cambiamento organico capace di impattare sulla qualità delle nostre vite e contemporaneamente realizzare un beneficio collettivo di ordine economico, ambientale e sociale. Così, una delle prime cose che decido di fare nella windy city è acquistare una bicicletta. Non conosco altri mezzi di trasporto che mi consentirebbero di comprendere meglio uno spazio urbano così complesso e ampio, dentro al quale faccio fatica a considerarmi propriamente una turista e non posso dirmi una residente. Una transitoria, liquida identità da rinegoziare in una metropoli d’oltreoceano, alla quale chiedo solo di assorbire un po’ della mia rabbia e di lasciarmi indossare i miei panni.

Ed è stato percorrendo su due ruote strade e boulevard, parchi e ponti mobili di Chicago che ho compreso che quel licenziamento sarebbe stato una benedizione che in un solo colpo mi liberava dallo sfruttamento che avevo subito per troppo tempo, dalla frustrazione di tutti i miei slanci e da quella terribile sensazione di stasi e soffocamento che si avverte in Italia quando si auspica un cambiamento. Chicago mi stava offrendo l’opportunità di prendere una pausa e insieme di guadagnare distanza, di scrollarmi di dosso le catene e in caso di cambiare direzione.

Mentre ancora sentivo in bocca il sapore amaro dell’impossibilità, davanti ai miei occhi si dispiegava la rappresentazione plastica di un cambiamento possibile. Un cambiamento strutturale e di visione che aveva permesso a questa città a vocazione industriale e con enormi problemi di inquinamento ambientale di operare una rivoluzione nella gestione del trasporto urbano, riconoscendo alla bicicletta un ruolo determinante.

Nonostante la città avesse sempre espresso una vocazione per le due ruote e si fosse affermata già nel 1890 come la capitale americana per la produzione di bicilette con i primi costruttori divenuti punto di riferimento per l’intero paese. Nonostante fosse proprio di manifattura chicaghese la Sterling con la quale Annie “Londondarry” Kopchovsky divenne la prima donna a compiere il giro del mondo in bicicletta, Chicago era stata storicamente inospitale per i ciclisti che la attraversavano quotidianamente, che non si sentivano sicuri nel percorrerla. I tanti club e le associazioni di ciclisti urbani ma soprattutto la Active Transportation Alliance, una organizzazione da sempre impegnata per il “diritto allo spostamento”, avevano avviato un lavoro costante di pressione per stimolare l’inversione di tendenza, ma la città era bloccata nel traffico e nulla si era mosso fino agli anni ’90.

Come aveva potuto dunque una città di oltre 3 milioni di abitanti, proprio come Roma, diventare in soli dieci anni “the Best Cycling City in the United States”? Come era stato possibile in così poco tempo realizzare più di 200 miglia di strade protette, corsie ciclabili condivise, molte miglia di percorsi off-street, con 18 miglia di lakefront trail, installare più di 13.000 rastrelliere e numerosi parcheggi dislocati nelle stazioni metro di tutta la città, periferia compresa? In che modo una metropoli che si era affermata come secondo centro industriale degli Stati Uniti ed uno dei più importanti centri finanziari mondiali, aveva compreso che si può godere del progresso tecnologico senza necessariamente dover sfregiare lo spazio pubblico e affermare un principio di sopruso quotidiano?

Pedalavo con sempre più energia e ad ogni falcata comprendevo sempre meglio che alla base di questo cambio di passo c’erano stati due ingredienti fondamentali: da un lato la convinzione che lo spazio pubblico urbano non possa appartenere solamente alle automobili ma anche ai pedoni e alle biciclette appunto e l’intelligenza di comprendere che quando le persone possono partecipare agli indirizzi di un concreto mutamento, allora le soluzioni sono con buona probabilità appropriate, adatte e più sostenibili.

Il vento del cambiamento aveva iniziato a soffiare forte sulle le strade di Chicago quando nel 1991 il Sindaco Richard M. Daley aveva annunciato il Mayor’s Bicycle Advisory Council, un comitato consultivo con il compito di proporre delle policy generali ed organiche per sostenere e facilitare l’uso della biciletta. Il Consiglio, dopo aver ascoltato i movimenti, i gruppi e le associazioni di ciclisti urbani attivi sul territorio, aveva emanato così il Bike 2000 Plan, il primo documento nato per incoraggiare soggetti pubblici e privati a recepire le strategie chiave e una serie di raccomandazioni per trasformare Chicago, entro l’anno 2000, in una metropoli a misura di bicicletta.

Studiare questo primo documento di indirizzo – e gli altri a seguire – redatto in maniera sintetica, organica, logica era stato illuminante e soprattutto incoraggiante. In prima battuta perché raccontava una concreta possibilità di cambiamento anche lì dove sembrava impossibile e poi perché indicava un metodo, un processo, un approccio. La realizzazione di una rivoluzione nel sistema dei trasporti è imprescindibile dalla base e dalle sue pratiche e il compito di un’amministrazione è quello decidere da che parte stare, se da quella delle persone e dei loro bisogni o da quella delle automobili e degli interessi che il comparto persegue. Se far prevalere insomma un interesse pubblico o uno privato.

Attraversavo questa metropoli immensa e accessibile e pensavo a Roma, alla sua mancanza di visione e alla miopia che aveva bloccato provvedimenti strutturali a livello centrale e azioni anche minime a livello locale. Pensavo all’aggressione quotidiana che avevo sperimentato per anni in strada come pedone, come ciclista, come persona e al paradigma che questa aggressione sdoganava. Ivan Illich nel suo “Energia ed equità” aveva sintetizzato con precisione disarmante questo sopruso nella correlazione inversa che si stabilisce tra la potenza dei veicoli e l’equità: “Superata una certa soglia di consumo d’energia, l’industria del trasporto detta la configurazione dello spazio sociale. […] Ad ogni incremento della velocità di un veicolo, cresce il costo della propulsione e della rete stradale e aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento […], si crea così una struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità. Il valore di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi anche nella lingua: il tempo si spende, si risparmia, s’investe, si spreca, s’impiega.” Questo stesso modello mi aveva fagocitato, senza digerirmi, nell’esperienza professionale a tutto vantaggio del più forte. Ero stata espulsa, anzi direi defecata, da un mercato del lavoro reso sempre più aggressivo e violento e che nelle ultime rilevazioni statistiche aveva dimostrato tutta la sua inadeguatezza.

Ecco che il valore della fuga mi appariva in tutta la sua chiarezza. Ero arrivata fin qui per ricordare a me stessa che non avrei mai ceduto il passo a questo modello di violenza e aggressione costante, che mi sarei, come ho sempre fatto, difesa e avrei combattuto per i miei diritti, quello ad un lavoro dignitoso, quello ad una città accessibile, quello ad un’esistenza più umana.

Oggi, seduta sulle sponde del Lago Michigan, guardo lo skyline di Chicago brillante, bellissimo e sorrido pensando che dovevo arrivare fin dentro la pancia dell’ipercapitalismo per recuperare quella sana energia necessaria per combattere il carattere ontologico che gli è proprio. La redditività non può essere principio, causa unica e criterio dell’essere, non nella mia piccola, privata esistenza.