POTERI

Ballottaggi amari

Che bilancio possiamo trarre dai ballottaggi? Non facciamo parte dei vincitori (tranne che a Napoli), però a nostro modo abbiamo vinto anche noi. Se vincere vuol dire cominciare a sgomberare la strada da ostacoli, abbiamo vinto.

Il Faraone è sgomento per le piaghe, ma noi stiamo ancora in Egitto. Se vincere vuol dire costruire basi positive sufficienti per avviare un’alternativa, allora non ci siamo, se non inizialmente a Napoli.

Abbiamo goduto come ricci per la sconfitta tattica e strategica di Renzi e per lo scacco dell’arroganza sabaudo-fordista di Fassino e della liquidità postfordista del “doganiere” Giachetti. Non parliamo neppure delle campagne tutte fallite di Repubblica, la cui irrilevanza dovrebbe spingere alle dimissioni il suo direttore, secondo solo al menagramo Stefano Esposito nella navetta Torino-Roma.

Ma la nostra (sempre eccetto Napoli) non è la schietta gioia che spinozianamente si collega a un incremento di potenza di cui noi stessi siamo causa. Niente di male, basta saperlo e agire di conseguenza. Rendersi conto che siamo solo all’inizio di un percorso tortuoso dove abbiamo occasioni più che alleati, necessità di scindere più che di fonderci. Dove avremo bisogno di tecnopolitica al servizio del municipalismo dal basso più che di cosmopolitica subalterna a questo o a quello.

Ciò doverosamente premesso (ma è l’unica cosa essenziale), passiamo al bilancio. Che vuol dire che Renzi ha fallito tatticamente e strategicamente?

La tattica renziana è stata quella di una campagna elettorale permanente, di un continuo rilancio di obbiettivi senza mai soffermarsi a verificarne l’efficacia dichiarata, la sua nemesi è che adesso il M5s utilizzerà tutti gli strumenti per dissipare gli imbrogli e contestare i risultati, senza prendersi la briga e la responsabilità di gestire proposte proprie. Oddio, speriamo che qualcosa faccia, ma gli basta purtroppo cambiar verso alla propaganda.

La strategia renziana era quella di arrivare a un referendum-plebiscito e subito dopo a un ballottaggio (facile) con la destra, facendo finta che il tripolarismo non esista. Invece è molto probabile che al referendum si riproduca la convergenza M5s-destra-sinistre deluse a favore del NO. E che al ballottaggio dell’Italicum vadano Pd e M5s, con prevedibile esito disastroso per il primo.

Certo, in teoria è possibile una correzione di rotta sul piano tattico e una modifica dell’Italicum su quello strategico. Però, come disse un fiorentino d’altri tempi (della città e non del contado arnesco), «perché e tempi et le cose universalmente et particularmente si mutano spesso, et li huomini non mutono le loro fantasie né e loro modi di procedere, adcade che uno ha un tempo buona fortuna et uno tempo trista». E par difficile che Renzi dismetta la tracotanza verso i sudditi e le minoranze e riesca a ricomporre, con la dovuta umiltà, il proprio schieramento per adattarsi ai tempi nuovi, che poi sono ancora quelli vecchi, di stagnazione economica e crescente diseguaglianza, solo che la gente nel frattempo si è stufata delle favole. Sul piano strategico un abbandono dell’Italicum non è agevole e sarebbe uno smacco propagandistico notevole (sempre per quella mania renziana di enfatizzare e personalizzare ogni progetto). Calcolare il premio di maggioranza sulla coalizione e non sulla lista potrebbe aggiungere qualche briciola alfaniana o sellina a un Pd lacerato, ma non intaccherebbe la capacità di M5s di incorporare, senza negoziazione, i voti della destra – voti che ormai sono in libera uscita, non offerti né contrattati da nessuna delle due componenti, moderata e fascio-leghista. Soprattutto dopo che il declino politico e clinico ha messo fuori gioco Berlusconi e Salvini ha chiaramente perso ogni spinta propulsiva. Occorrerebbe tornare a un sistema maggiormente proporzionale o al doppio turno: una campana a morto per il populismo plebiscitario e insieme castale di Renzi. Nel medio periodo il segretario-premier dovrà misurarsi con i colonnelli usciti vivi dai ballottaggi (Sala, Merola) o risparmiati dalla verifica (Rossi, Emiliano, Zingaretti, Chiamparino, perfino De Luca). E saranno cazzi suoi.

Come hanno enfatizzato tutti i topi in fuga dalla nave allo sbando, siamo di fronte a una crisi di sistema: in altri termini non è ancora chiaro se conviene insistere con il Pd o affidarsi al M5s (la destra è out, il pittoresco successo sannita di Mastella è là a dimostrarlo). Per noi il problema è allora: come noi o il progetto di De Magistris può rapportarsi al M5s, dove rapidamente esploderanno contraddizioni e agiranno pesanti spinte dei poteri forti, dove soprattutto ci sono figure di diverso orientamento e capacità di autonomia. Appendino, per es., è una seria riformista e non ha bisogno di rendere omaggi a Grillo e Casaleggio sr. e jr., come la fragile e ambigua Raggi. Di Battista e Di Maio sono rapidamente sbiaditi rispetto alle elette, ma hanno ancora in mano le leve del potere, Grillo ha capito che non deve esporsi troppo ma cercherà di lavorare nell’ombra. La composizione e il lavoro delle squadre di assessori potrebbero sovrastare la figura mediatica delle sindache e molto conterà la loro capacità di fare un vero audit del debito, da cui dovrebbe partire (altro che legge di stabilità autunnale!) una rimessa in discussione delle politiche economiche nazionali, già precarie a livello europeo.

La vera sfida, insieme alla campagna referendaria e costituente per bastonare il bullo che affoga, è rimettere in moto pratiche dal basso di diritto alla città, difesa degli spazi abitativi e sociali, contestazione della buona scuola e del JobsAct (non è mai troppo tardi, la Francia insegna), rivolta contro i venti di guerra e battaglia per lo jus soli, i diritti civili e il reddito di cittadinanza. Dovremo discuterne a fondo. Del tipo di difesa della costituzione, della natura del M5s, degli obbiettivi immediati di lotta, del perché il rigetto dell’austerità neoliberista ha preso da noi una via diversa dalla Francia e dalla Spagna.