MONDO

50 anni di occupazione, fino a quando?

Il 10 giugno 2017 ricorrono 50 anni dalla fine della Guerra dei Sei Giorni che determinò l’inizio dell’occupazione militare di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est.

Vittoria dei prigionieri politici palestinesi. Interrotto sciopero della fame

Quel giugno del 1967 è un momento chiave della storia di tutto il Medioriente, perché ha dettato equilibri e paradossi che ancora oggi pesano sulla situazione politica e su ogni orizzonte di cambiamento.

Ma andiamo con ordine, Israele vince una guerra lampo (appunto, in 6 giorni) contro una coalizione di stati arabi e porta le sue truppe fino al fiume Giordano, controlla interamente Gerusalemme, inclusa la città vecchia che era rimasta sotto amministrazione giordana, e così pure la striscia di Gaza che invece era sotto governo egiziano. Controlla anche Golan e Sinai, ma quest’ultimo sarà restituito all’Egitto nel 1973. Israele dichiara la legge marziale su tutti i territori occupati, e in virtù di questa, (concessa dalla Convezione di Ginevra solo per brevi periodi), affida a tribunali militari l’amministrazione della giustizia nei territori stessi.

Al tempo stesso, però, lo Stato israeliano dimostra di voler fare un uso tutt’altro che temporaneo di quei territori e quindi, anzichè seguire procedure “normali” in una dinamica post conflitto (ritiro delle truppe dalle zone occupate e negoziati per una pace duratura basati sulla posizione di potere di chi ha vinto), inizia a utilizzare West Bank e Gaza come spazio di espansione coloniale. Gli strumenti per compiere questo passaggio sono: il non ritiro delle truppe, la nascita di colonie abitate da civili, la costruzione di infrastrutture civico-militari di controllo permanente del territorio (basi, torrette, postazioni segrete, strade), l’accaparramento delle risorse naturali. Inizia pertanto il progetto politico che è alla base dell’apartheid di oggi: da un lato mantenere la popolazione palestinese ancora sotto l’eccezionalità del “military rule”, dall’altro procedere all’annessione di fatto di terre e alla costruzione di vere e proprie città per coloni israeliani. Questi ultimi, al contrario dei palestinesi, godono di pieni diritti, sono sotto “civil rule” e hanno accesso illimitato alle risorse.

C’è pure un altro aspetto che caratterizza quel 1967 come un nodo della storia mediorientale. Israele entra pienamente nel ruolo di pedina statunitense nell’ambito dello scacchiere geopolitico mediorientale, mentre fino a quel momento apparteneva maggiormente alla sfera di influenza sovietica, per ragioni opportunistiche ma anche ideologiche, raccontandosi come Paese socialista e avendo l’URSS interesse a coltivare buoni legami con lo stato sionista.

Sono trascorsi 50 anni, mezzo secolo, decine di altre guerre, violenza infinita, morti, trattati e conferenze di pace credibili e altre molto meno, in ogni caso tutto ad oggi è carta straccia. L’annessione di fatto si è conclusa, in Cisgiordania vivono più di 580.000 coloni israeliani e più di 205.000 vivono nei quartieri occupati di Gerusalemme Est.

Israele in West Bank controlla (oltre ai tribunali militari già menzionati) i confini, l’emissione di moneta, l’approvvigionamento energetico, le fonti d’acqua, le dogane e le tasse, l’emissione di passaporti, i registri anagrafici, le strade, la proprietà della terra e molto altro ancora. In quanto potenza occupante, secondo la Convenzione di Ginevra Israele dovrebbe pure occuparsi di mantenere in vita la popolazione locale, ma a questo ci pensa la comunità internazionale, complice pertanto di questo quadro insostenibile, con aiuti diretti o mediati attraverso l’ANP. Quest’ultima ha l’autonomia che può avere un sindaco di una città o poco più: controlla di fatto solo le grosse città e può amministrare piccole questioni civili e locali, tutto il resto è in mano agli occupanti e quindi alle scelte politiche del governo israeliano e della Knesset. Peccato, però, che i 3 milioni di palestinesi della West Bank e l’1,8 milioni di Gaza, (che imprigionati dentro la Striscia hanno un destino simile) non possano votare per la Knesset e rimangono quindi cittadini di serie b, con enormi limitazioni nei propri diritti civili, politici, ma anche in quelli sociali, economici e ambientali.

In Palestina/Israele si gioca da anni una partita geopolitica che ha interessi globali e che ha preso una forma precisa in quel drammatico giugno 1967.

Da allora, gli attori sono cambiati più e più volte (al tempo in Egitto c’era Nasser, oggi Al Sisi, per dare un’idea) ma la centralità dell’area per le superpotenze mondiali è rimasta, tant’è che West Bank e Israele sono tra gli stati che ad oggi ricevono più aiuto internazionale (sia civile che militare) in proporzione alla popolazione. Henry Kissinger una volta disse «Per ogni carro armato che regaliamo ad Israele, gli Stati vicini ce ne comprano tre». Una frase che sintetizza molto della politica statunitense per lunghi decenni.

Oggi, nonostante la situazione con i Paesi limitrofi sia cambiata e solo Siria e Iran siano rimasti “ostili” allo Stato sionista, l’importanza strategica di Israele per gli USA è ancora intatta e declinata verso nuovi aspetti economici e nuovi equilibri mondiali (Arabia Saudita, Iraq frantumato, petromonarchie del golfo etc…), visto che i nostri politici continuano a condannarci alla dipendenza dalle fonti fossili che rendono il Medioriente così drammaticamente al centro di violenza e guerre.

Infine il modello che è stato costruito, basato su sistematico controllo/confinamento delle persone, limitazione dei diritti e sfruttamento della popolazione palestinese rappresenta un “laboratorio” a cui le nostre illuminate democrazie occidentali guardano spesso con interesse e attenzione, per ispirarsi o per apprendere a gestire situazioni “emergenziali” e le potenziali conseguenze di politiche altamente repressive.

Al proprio interno, poi, l’occupazione ha trovato basi solide sulle quali riprodursi, tra cui un innegabile vantaggio economico per l’economia israeliana, ma pure gli interessi di cui buona parte dell’élite economico-politica palestinese beneficia grazie proprio allo status quo attuale (situazione privilegiata, profitti economici per se stessi, mantenimento di conflitto sociale interno basso, etc..).

Questo groviglio di interessi e sopraffazioni è stato poi ricoperto da sovrastrutture ideologiche che ne hanno favorito la calcificazione e la riproduzione. Da parte israeliana la strumentalizzazione dell’Olocausto e dell’antisemitismo, da parte palestinese l’estremismo islamico (non presente prima degli anni ’90) e in generale l’esasperazione retorica di una lettura nazionalistica del conflitto, che omette le complicità della Anp e finge che la questione si potrebbe, ad oggi, risolvere come fu in Algeria negli anni ’50.

Davanti a questo quadro non è facile trovare la soluzione. Se la soluzione sia uno o due Stati è una discussione già troppo lunga. Allo stesso tempo non credo che sia “ormai troppo tardi per i due Stati”, come se ci fosse mai stato un momento, dal quando il progetto coloniale del 1967 è iniziato, in cui questa soluzione fosse a portata di mano. Credo invece che sia proprio necessario spazzare via la retorica paternalista della “ricerca della soluzione al conflitto”, tanto più quando questa viene esercitata con stile ed intellettualismo nei salotti liberal euro-americani.

Un mio caro amico israeliano una volta mi disse “Uno Stato? Due Stati? Fosse per me, nessuno Stato, ma in fondo che mi importa? Voglio diritti per tutt* e che l’occupazione abbia termine, ora!”

Ricordo sempre il filo rosso di un libro cardine per comprendere il conflitto, Storia della Palestina Moderna, di Ilan Pappe. L’autore ricostruisce in modo straordinario la storia di quelle terre dalla fine dell’800 ad Oslo, evidenziando ogni traccia che testimonia quanto le diverse vicende avrebbero potuto avere uno sviluppo differente. Ebrei migrati, forzatamente o meno, e palestinesi potevano costruire già prima della Seconda Guerra Mondiale una società dove i diritti fossero pari per tutti a prescindere dall’identità nazionale, dove l’odio nazionalistico potesse essere superato, dove i nemici potessero essere gli sfruttatori economici, a prescindere dalla loro etnia o religione. Le basi c’erano, lo forze in campo a livello mondiale hanno però definito un altro corso della storia.

Qualunque soluzione politica per venire fuori dal tunnel iniziato nel giugno 1967 passa inevitabilmente per questo nodo, diritti per tutt* a prescindere da lingua, credo e identità, e la fine dell’occupazione e di quanto essa comporti. In molti hanno già studiato come ciò potrebbe avvenire, in forma confederata tra entità regionali o in modalità più tradizionale.

Credo pure che la straordinaria esperienza dei cantoni multietnici del Rojava potrebbe essere fonte di ispirazione. La strada è tutta in salita, ma solo una piena consapevolezza della situazione attuale può essere la base per la costruzione di un orizzonte di lotta verso il cambiamento. Il nostro ruolo, da qui, è sostenere ogni sforzo in tal senso.