editoriale

One step beyond

Riflessioni a partire dalla giornata del 12 aprile e oltre. Appunti di discussione […] per i movimenti all’epoca del governo Renzi e della post-democrazia.

I fatti degli ultimi giorni segnalano un’impressionante puntualità tra l’agire di governo e quello delle forze dell’ordine nel cercare di spazzare via e terrorizzare i movimenti di lotta per la casa. L’applicazione dell’articolo 5 del decreto Lupi è avvenuta direttamente nelle strade della nostra città con gli sgomberi del 5 aprile, le violente cariche i pestaggi del 12 aprile, la mattanza della Montagnola. Vale la pena partire da questo assunto, per collocare al meglio le prospettive dei movimenti di fronte alla “svolta” del governo Renzi.

1.

Il corteo del 12 aprile ha avuto l’indubbio merito di rompere l’apparente calma sociale determinata nel paese dalla nascita del governo Renzi e di aver tenuto aperto in Italia uno spazio di dissenso senza il quale uno dei più pesanti e brutali attacchi sferrati contro i precari, i migranti e le mille soggettività colpite dalla crisi (Decreti Poletti e Lupi) sarebbe rimasto senza alcun contrappunto. L’esistenza di questo spazio conflittuale è la condizione minima anche solo per poter animare una produttiva discussione dentro e fuori il movimento.

Quello che questo 12 aprile rende massimamente visibile, è la conferma dell’esistenza, in Italia, di un fitto tessuto di esperienze di autorganizzazione sociale capace di raccogliere attorno a sé una partecipazione radicale. E di garantire, non senza fatica e generosità, l’indicazione di scadenze di mobilitazione. Questo è il modo in cui abbiamo interpretato il processo avviato con la manifestazione del 19 ottobre del 2013 e che ci spinge a pensare al «laboratorio italiano» come un caso – se non unico – sicuramente raro nello scenario dei movimenti europei: invece di una «sollevazione» moltitudinaria, abbiamo nel nostro paese, in questo momento, una forma di mobilitazione differente, che passa per la convergenza e la cooperazione di un tessuto pre-esistente di lotte e di esperienze autonome di ogni genere. Invece delle narrazioni basate su fenomeni di auto-suggestione, conviene partire da questo dato di realtà: è guardando a questa composizione differenziata che ci pare infatti di poter individuare le potenzialità inespresse e i limiti manifesti della situazione attuale. E di poter tracciare dei punti di differenza tra le posizioni in campo.

Questa composizione è non solo significativamente estesa e radicata, ma si presenta come un bacino di sperimentazione e conflittualità politica e sociale assai complesso. Dopo il 19 ottobre vi era l’effettiva possibilità di lavorare su questa composizione, limitandone il carattere particolaristico, definendo un piano comune di lotta e di elaborazione politica all’altezza dei tempi. In questo particolare contesto la processualità che prepara e costruisce le scadenze è un elemento tutt’altro che secondario: l’attivazione di questo tessuto eterogeneo (di cui il movimento è potenzialmente composto) apre alla possibilità che questo funzioni come un moltiplicatore sociale e come un vettore di soggettivazione politica nuovo. La scarsità di momenti di discussione e di definizione pubblica degli obiettivi, in particolare nei luoghi sociali attraversati dalle soggettività implicate dai provvedimenti contestati, così come la modesta esposizione delle dinamiche di movimento verso il loro «fuori», crediamo che sia stato il limite metodologico più significativo del processo che dal 19 ottobre ha portato al 12 aprile, intaccandone la propria potenzialità espansiva. Ciò che va in tutti i modi scongiurato è la riduzione dell’autonomia del movimento nell’autonomia delle componenti che lo animano.

2.

La specificità di questa forma-movimento va inoltre messa da subito in rapporto con l’altro ingombrante termine della questione, ovvero il blocco politico-istituzionale che, di governo in governo, va sempre più consolidandosi, non senza un contributo determinante della più che ventennale concertazione sindacale, che non solo ha ignorato il lavoro precario ma ha esposto a un degrado inarrestabile gli stessi strati ormai minoritari del lavoro industriale e commerciale garantito, per non parlare del pubblico impiego. Il mutamento nella gestione neo-liberale della crisi, che risponde alla preoccupazione di rilanciare l’accumulazione capitalistica oltre il limite in cui si è criminalmente spinta, si associa in modo sempre più visibile a modalità di governo propriamente post-democratiche: la crisi delle stesse forme di «contrattazione sociale» messe in campo dai movimenti (vedi in particolare l’esperienza delle lotte sul diritto all’abitare) non è altro che l’altra faccia della reazione brutale e ignobile delle forze dell’ordine alla legittima espressione di dissenso e conflitto praticata sabato scorso davanti al Ministero del Welfare e poi negli sgomberi selvaggi delle occupazioni. Del resto, già i movimenti studenteschi e quelli dell’acqua avevano saggiato la consistenza di questo blocco politico-istituzionale. Oggi il Governo Renzi rappresenta non solamente la versione italiana di questa mutazione nel management della crisi ma anche, al contempo, l’ulteriore definizione di un blocco di potere ancora più esteso e trasversale, di cui i provvedimenti già assunti e quelli in itinere raggruppati sotto il programma del Jobs Act sono un segno inquietante.

L’apertura di una discussione su queste fondamentali questioni ci sembra non più rinviabile. Questi nodi, a nostro parere, coincidono con il problema delle forme di conflitto e dello spazio europeo. Qui non si tratta affatto di confrontare le opinioni circa la natura neoliberale dell’Unione Europea e ancor di più della moneta unica. Questa discussione è semplicemente priva di senso. Qui si tratta di affermare che lo spazio europeo è il terreno minimo su cui è possibile giocare un rapporto di forza favorevole per la lotta di classe. Non c’è, infatti, progetto di trasformazione radicale dell’esistente che non parta dalla designazione dello spazio fisico ed istituzionale da investire conflittualmente. La costruzione di questo orizzonte organizzativo transnazionale è, oggi, la precondizione per pensare lo sviluppo stesso di movimenti trasformativi. Questo, del resto, è stato il limite, non l’unico ma il più vistoso, di quello straordinario ciclo di lotte moltitudinarie che negli ultimi anni ha visto mobilitarsi nei vari contesti nazionali composizioni sociali ampie e radicali. È stata proprio l’incapacità di quelle lotte di ripensarsi su un’altra scala a determinarne la crisi. È da questo punto di limite che occorre riprendere il lavoro.

3.

Ma il limite di fronte al quale si trovano i movimenti non riguarda solo la loro connessione transnazionale. Il blocco politico-istituzionale a cui ci riferiamo pone inevitabilmente la difficoltà delle forme di conflitto di esercitare un certo potere di minaccia e di rottura per le compatibilità governamentali. Il problema è capire come queste necessarie rotture siano in grado di costruire rapporti di forza duraturi e imbocchino una direzione trasformativa. Il rischio è, in altri termini, quello di rispondere all’impasse attraverso forme di radicalità estemporanee. Sull’estensione del conflitto sociale oltre la dimensione militante e sulla composizione sociale che lo anima, dovremmo riflettere senza confondere auspicabili proiezioni di rivolta con la difficile realtà che viviamo.

Allo stesso tempo, e a questo strettamente legato, c’è il rischio che le esperienze di sperimentazione nel sociale e che si misurano nella riappropriazione democratica delle istituzioni pubbliche e dei territori, finiscano per essere marginalizzate e sterilizzate in quella stessa forma di welfare residuale che va definendosi. In tal senso, lo sviluppo e l’elaborazione di un programma costituente è tutt’altro che un puro esercizio di retorica. È una responsabilità di prim’ordine e, insieme, un possibile metodo politico. Del resto, la modificazione delle politiche di austerità costringe i movimenti a ridefinire il proprio discorso: attorno alle questioni del reddito garantito e incondizionato, così come a quelle relative all’affermazione dei commons contro le politiche del debito e alla riconquista dei diritti di contrattazione dei rapporti di lavoro, c’è il bisogno di costruire un piano comune di convergenza e di apertura di relazioni ampie e socialmente situate.