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«Vogliono distruggere tutto quello che abbiamo costruito». Un appello dal Rojava sotto attacco

A poche ore dall’inizio dell’offensiva militare turca contro il Rojava, Emced Osman, portavoce del Consiglio democratico siriano, e Salih Muslim, portavoce del Partito curdo dell’unione democratica, fanno il punto sulla situazione nei cantoni autonomi e chiedono sostegno alle persone solidali: «È questo il momento di far sentire la vostra voce»

Nel pomeriggio di ieri Recep Tayyip Erdoğan ha dato l’ordine all’esercito turco di avviare l’offensiva militare contro i cantoni autonomi del Rojava. Intorno alle 17 del pomeriggio si sono sollevati gli aerei e l’artiglieria ha iniziato a colpire le città a maggioranza curda situate lungo il confine. I primi attacchi hanno interessato i principali centri abitati situati lungo i 300 km che dividono la Siria dalla Turchia. Sono state colpite Serikane, Derik e Qamishlo. La violenza dell’esercito turco si è sfogata soprattutto nei cento chilometri che separano Tal Abyad da Ras Al Ayn. Gli aerei da guerra hanno bombardato anche Kobane, città simbolo in tutto il mondo della lotta contro l’Isis.

«Questo attacco significa che la Turchia vuole occupare tutta la Siria del nord», dice a Dinamopress Emced Osman, portavoce del Consiglio democratico siriano. L’organo costituisce l’ala politica delle Syrian defence forces (Sdf), le forze democratiche siriane a prevalenza curda e araba che garantiscono la stabilità nei cantoni del Rojava.

Tra ieri e oggi si contano oltre 30 feriti e 9 morti tra i civili. A Qamishlo è stato colpito il quartiere della minoranza cristiana. Case in fiamme e due morti: marito e moglie. Ferita la figlia. Sette persone hanno perso la vita a Tal Abyad. Le cifre sono approssimative e sicuramente al ribasso, data la difficoltà a raggiungere le diverse zone. Inoltre, non includono i soldati colpiti nell’autodifesa del progetto del confederalismo democratico (secondo Erdogan sarebbero circa 100).

Subito dopo gli attacchi, e soprattutto tra Ras Al Ayn e Tal Abyad, molti civili hanno cercato riparo allontanandosi dai centri abitati situati lungo il confine. «Non sappiamo quante persone sono in fuga, non possiamo contarle – dice a Dinamopress Salih Muslim, portavoce del Pyd, il Partito curdo dell’unione democratica – La maggior parte della popolazione, comunque, vuole resistere e si sta mobilitando in queste ore».

Mentre l’esercito turco iniziava a bombardare, alcune cellule dell’Isis ancora attive hanno provocato scontri a Raqqa. Intanto, nei campi in cui sono reclusi i familiari dei miliziani si sono verificate tensioni. La situazione più difficile ad Al Hol dove si trovano 70 mila persone, tra cui 15 mila familiari di combattenti di Daesh. I problemi derivano anche dal necessario spostamento verso la frontiera di uomini e mezzi militari che sorvegliano le parti di campo più pericolose e delle organizzazioni che svolgono funzioni umanitarie.

Le autorità curde sottolineano come la popolazione sia terrorizzata perché conosce la mentalità delle forze jihadiste alleate della Turchia e ha visto cosa l’esercito turco ha fatto ad Afrin. Il 20 gennaio 2018 le forze comandate da Erdogan misero sotto assedio la città, capitale di uno dei cantoni del Rojava, riuscendo alla fine a invaderla il 18 marzo dello stesso anno. Durante l’operazione denominata “Ramoscello d’ulivo” l’esercito turco si macchiò di numerosi crimini di guerra: spari sui rifugiati in fuga; uso di napalm; mutilazione dei cadaveri dei combattenti e delle combattenti curde.

«Dopo Afrin – continua Osman – i turchi vogliono imporre un cambio demografico in tutto il nord della Siria. Vogliono importare popolazione da altre aree per costringere i curdi ad abbandonare il paese. Temiamo che questo possa produrre nuove ondate di emigrazione». Il portavoce curdo insiste sulle responsabilità di Trump e critica duramente il suo assenso all’invasione turca. «Il presidente degli Stati Uniti – continua – ha anche la responsabilità dei circa 12 mila miliziani dell’Isis che sono al momento detenuti nelle nostre prigioni. Con questa guerra non si sa cosa ne sarà di loro». A conferma di queste preoccupazioni c’è il dato che nel primo giorno di attacco la Turchia ha bersagliato la prigione di Qamishlo, dove sono reclusi i leader di Daesh. Gli esponenti più pericolosi che al momento si trovano in carcere sono stimati tra 2 e 4 mila.

«Vogliono distruggere quello che abbiamo costruito in cinque anni di lotta contro Daesh e tutti i nostri tentativi di creare stabilità in quest’area – dice ancora Osman – La comunità internazionale deve schierarsi dalla parte delle Sdf e delle popolazioni che vivono in Rojava. Se verremo sconfitti sarà facile per l’Isis ricostruire le sue organizzazioni. Solo le Sdf sono riuscite a sconfiggerlo».

Subito dopo l’inizio dell’attacco le reti di solidarietà europee hanno chiamato alla mobilitazione. Già ieri in decine di città ci sono stati cortei e sit-in. Venerdì 11 è stata indetta una manifestazione contro la guerra. A tutte le persone che sostengono il popolo curdo, il progetto rivoluzionario del confederalismo democratico e la lotta contro l’Isis il portavoce del Consiglio democratico siriano lancia un appello: «Forse il presidente Trump ci ha lasciati soli in questa guerra, forse i politici continuano a crearci problemi, ma noi sappiamo che in tutto il mondo, e soprattutto in Europa e negli Stati Uniti, ci sono milioni di persone che sono dalla nostra parte. Adesso abbiamo bisogno del vostro aiuto e della vostra voce».