Vivere e lottare nel tempo della Grosse Koalition

Noterelle sulla primavera e le sfide a venire.

Meteorologi

Non occorreva essere meteorologi per capire che la logica dell’alternanza politica, nella crisi, si trasformasse in quella della Grosse Koalition. Lo ha chiarito, senza sbavature, Giorgio Napolitano, nel discorso che ha seguito la sua seconda investitura a presidente della Repubblica. D’altronde è già così in Gran Bretagna e lo è stato in Germania (2005-2009), pensando ai colossi; e in Grecia, con riferimento ai pezzenti. E noi italiani siamo pezzenti, siamo parte dei PIIGS, Hollande, ammesso che il suo sia un riformismo sociale aggressivo, non possiamo permettercelo. Lo capiremo a fine settembre, ma è molto probabile che anche in Germania, l’unica locomotiva possibile dell’economia europea, alla Grosse Koalition non ci siano alternative.

Se c’è una cosa che Dinamo non ha mai smesso di dire, da quando ha mosso i primi passi, è che la gestione neoliberale della crisi ha come corrispettivo politico le larghe intese. L’Italia, in questo senso, si conferma un laboratorio, altro che siparietto marginale.

Sì, siamo consapevoli, le ultime elezioni sono state segnate dall’imprevisto: il trionfo grillino e il tonfo montiano. C’è da dire che un’altra grande protagonista, assai sottovalutata, ha occupato il palcoscenico: l’astensione. Le due tornate elettorali amministrative, quella siciliana e quella friulana, dell’astensione hanno fatto la prima attrice, senza rivali. Bello che l’astensione sia donna, imprendibile e veloce come solo le donne sanno essere!

Abbiamo parlato di un vero e proprio «Cigno nero» e, senza euforia da ultras, abbiamo guardato con grande interesse alla spaccatura profonda tra società e rappresentanza che le elezioni di fine febbraio e i mesi successivi, fino alle elezioni del presidente della Repubblica, hanno reso evidente con forza senza pari. La frattura è indiscutibile, fenomeno che, nella continuità discontinua della crisi, non può che acuirsi; cosa accadrà dentro questa frattura è questione aperta. Chi o cosa, meglio cosa (evento, processo, fatto moltitudinario ecc.), sarà in grado di organizzare l’indignatio che attraversa la società impoverita e umiliata dalla crisi: questo è il problema più rilevante, ciò che conta, e solo la prassi sovversiva ci aiuterà ad afferrare qualche soluzione, sicuramente caduca e parziale.

Una cosa è certa, la nostra unica povera bussola: nella catastrofe europea, in seconda battuta italica, non c’è soluzione riformista dotata di qualche realismo. Le pressioni (interessate) anti-austerity provenienti da Washington continuano a non fare presa e sicuramente l’FMI conta di più degli elettori dei PIIGS. La speranza, poi, che sia la novità elettorale di questo o quel paese a fare la differenza, è stata inequivocabilmente vanificata dai fallimenti hollandiani quanto dalla rivincita presidenzialista, quella dello stalino-liberista Napolitano, in Italia. Lo stesso Grillo, dopo la mossa azzeccata di Rodotà, e a pochi mesi dal boom elettorale, ha rotto prematuramente il “giochetto”: invochi la rivolta, ma poi chiama la Digos… meglio tornare a casa. La ruvidità di un limite, l’inizio della depressione, con tinte razziste e xenofobe (il no indegno, non c’è altro da dire, allo jus soli).

Che un’opposizione ampia e del tutto irresponsabile al governissimo ci sia è cosa auspicabile per i movimenti. Quale dovrebbe essere il suo compito? Battersi per il reddito minimo garantito e incondizionato, contro Letta e il suo workfare per famiglie povere e numerose; darsi da fare per strappare una vera e propria “amnistia sociale” (relativa cioè a tutti i reati contestati alle lotte sociali, l’unica effettiva opposizione di questi ultimi dieci anni); difendere, ovunque, i conflitti anti-austerity, cosa fondamentale, tenendo in conto l’offensiva sicuritaria e repressiva già avviata dal governo Letta-Alfano (dalle cariche in Statale a Milano ai fatti napoletani del giorno successivo). Poi molto altro, ma già sono faticose, epocali, le prime imprese delineate.

Spetterà ai movimenti, se sapranno essere radicali e costituenti nello stesso tempo, ricostruire la minaccia, ricominciare a far paura. Sottrarre la forza al conflitto e all’intelligenza significherà sempre di più, con l’approfondirsi della crisi, consegnarla al gesto isolato, alla disperazione, al risentimento. Dalla vendetta alla lotta: una volta ancora, sarà questa la scommessa dell’organizzazione sovversiva.

Mappe

Non occorre essere meteorologi per capire che l’euforia dei mercati, soprattutto in Europa, segnala sventure assai prossime. Come è possibile, infatti, che vengano venduti in gran quantità bond greci o italiani? Semplice: la liquidità garantita dalle banche centrali, BCE compresa, sta rilanciando in forze il rischio. Tanta liquidità e, paradossalmente, pochi titolirisk-free disponibili, viste le politiche di quantitative easing che fanno della FED, ad esempio, il principale acquirente di T-Bond. Allora ci si inoltra di nuovo nelle terre spericolate degli alti rendimenti, mentre nulla è stato fatto per ristrutturare, definendo solidi standard di capitalizzazione, le banche più colpite dalla crisi e rimesse in sella dai contribuenti e dalla distruzione della spesa pubblica. Siamo nel mezzo di quella che Krugman chiama «trappola della liquidità»: misure monetarie espansive che non creano posti di lavoro o welfare, ma favoriscono nuove ondate speculative. A pagare sono e saranno i poveri, il lavoro cognitivo declassato, precari e disoccupati.

Torniamo alle cose che contano: o rottura del Fiscal Compact o barbarie? L’alternativa è secca, inutile girarci attorno. Altrettanto: è nello spazio europeo e non altrove che si gioca la partita decisiva. Misurare i propri limiti in Europa è cosa più virtuosa di spendere le energie migliori a difesa della propria consolante nicchia ambientale (o riserva indiana). Certo, il lavoro da fare è ancora tanto e faticoso, i risultati lontani. Il 14N è stato un debutto, nulla di più. Ma un inizio promettente, un primo robusto esperimento di uso precario e antagonista del sindacato e dello sciopero europei. La CES ha capito e prevedibilmente ridurrà al minimo la sua mobilitazione, già la scadenza di Bruxelles lo ha dimostrato. Eppure, ed è questo uno degli elementi emersi in primo piano proprio a Bruxelles, la capacità di contenimento sindacale dell’iniziativa sociale si sta profondamente indebolendo. Non è detto che al vuoto della proposta sindacale corrisponda un pieno di conflitti autonomi, capaci di parlare una lingua transnazionale e non corporativa, ma non ci sono scorciatoie. Ricostruire la minaccia significa farlo sul terreno europeo, meglio, in una combinazione virtuosa tra lotte metropolitane e scadenze continentali.

Con questo spirito torneremo a Francoforte per Blockupy il 31 maggio e l’1 giugno prossimi. Dopo il successo, tutt’altro che scontato, dello scorso anno, la mobilitazione francofortese assume oggi una centralità ancora maggiore. Sono solo quattro i mesi che ci separano dalle elezioni tedesche, a fine settembre sapremo qualcosa in più sul futuro dell’Eurozona. Ed è evidente che senza una crescita dei conflitti anti-austerity in Germania, quelli anche aspri che hanno attraversato e attraverseranno i PIIGS sono stati e saranno insufficienti. Consolidare il rapporto virtuoso tra movimenti sociali dell’Europa mediterranea e quanto, con coraggio, si oppone alle politiche Ordoliberali tedesche, una Koalition assai ampia che tiene assieme movimenti post-autonomi e Ver.di (il più grande sindacato europeo dei servizi, con 2,4 milioni di iscritti), è quanto di meglio si possa fare nell’Europa della catastrofe.

Altrettanto sarà importante attraversare le mobilitazioni portoghesi del primo giugno, quanto ciò che si muoverà attorno all’AlterSummit di Atene dal 7 al 9 giugno. La tessitura di lotte, ritmi, pretese non sempre omogenee è impegno costante, un vero e proprio lavoro di traduzione che solo i movimenti possono fare, laddove sindacati e partiti, nella subalternità alle tecnocrazie europee, propongono corporativismo, frammentazione, guerra fra poveri, nuovi nazionalismi.

Si tratterà dunque di una primavera di sperimentazione continentale, di ricerca pratica oltre i confini angusti della palude politica e sociale italica. Un modo per respirare aria buona e per dare fiato a quel paziente processo di connessione, molto spesso inappariscente, sicuramente più essenziale di tanto altro.

Mostri

Nel lontano 1981, Lucio Castellano utilizzava l’espressione hopefulmonster per descrivere le figure del lavoro protagoniste del passaggio dal fordismo al post-fordismo. Mutanti, salti evolutivi: dal lavoro operaio, taciturno e ripetitivo, al lavoro a mezzo di linguaggio e affetti, dal processo di valorizzazione inscritto dentro le mura della fabbrica alla sussunzione della cooperazione produttiva diffusa nella metropoli, nel territorio. Trent’anni dopo il salto evolutivo è stato completato e si presenta nella forma della crisi.

Motivo decisivo della crisi, altrimenti continuiamo a confonderci le idee, è il seguente: il pieno sviluppo delle forze produttive (intelligenza collettiva, creatività, affetti, multilateralità dell’individuo sociale) mette a rischio la capacità di comando capitalistico. Ancora: l’espansione dell’economia basata sulla conoscenza porta con sé la diffusione di pratiche sociali anti-proprietarie (fondate sull’uso di prodotti non deperibili) e della condivisione. La precarizzazione selvaggia del mercato del lavoro, la distruzione dei dispositivi indispensabili alla riproduzione della forza-lavoro (il welfare), il dominio della rendita finanziaria e immobiliare: queste sono le risposte capitalistiche che fanno della crisi regola e non più eccezione. L’Europa Ordoliberale esemplifica, con violenza, questo processo.

C’è un salto evolutivo ancora da compiere, solo parzialmente compiuto nell’ultimo decennio: organizzare l’inorganizzabile, organizzare il lavoro precario, intermittente, autonomo. Si tratta di una spericolata sperimentazione istituzionale, non c’è dubbio, si tratta di muovere i primi passi dalla discontinuità imposta dai mostri pieni di speranza. Quali sono le anomalie o gli hopefulmonsters sui quali insistere? Intanto occorre essere coscienti che non basterà un mostro promettente per fare il salto, ce ne vorranno molti, una molteplicità (propendiamo decisamente per una «teoria degli equilibri punteggiati»). In questo senso, bisogna saper censire e inchiestare le tante lotte precarie, frammentate e a volte inappariscenti, che già segnano la scena sociale della catastrofe. Ci vuole poi il coraggio di osare: costruire dispositivi ibridi o biosindacali, capaci di connettere produzione comune e mutualismo, vertenza e formazione. Questa è la nostra sfida a Roma, questa è la nostra pazza idea che sta prendendo forma in questi giorni.

Nuovi mostri dovranno sorgere per rivendicare reddito garantito, proprio oggi che questa parola, vergognosamente respinta nell’ultimo ventennio dalla CGIL (che la respinge tutt’ora) e dalla sinistra lavorista tutta, diventa parte, seppur tra mille ambiguità, del dibattito politico. Il rischio che il reddito sia l’apripista per un sistema di workfare all’italiana, con tanto di familismo cattolico, è tutt’altro che marginale. Eppure lungo questo solco ambiguo occorre far crescere la battaglia. Gli avversari sono tanti: per un verso il neo-pauperismo della Balena Bianca di nuovo al governo del paese, per l’altro il disastro sindacale. Le tre confederazioni sindacali oggi sono apertamente, quando propongono o ammiccano al patto dei produttori e scendono in piazza il Primo maggio con Confindustria, forze della conservazione, parte della casta, funzionari della gestione neoliberale della crisi. Se in Spagna, in Portogallo, in Grecia i sindacati combattono, tra mille ambiguità, le politiche del rigore, in Italia Epifani, leader ombra della CGIL, diventa reggente del PD a sostegno delle larghe intese con Berlusconi. Sarebbe sciocco gioire di questo vero e proprio blocco («tanto peggio, tanto meglio»), si tratta di assumere fino in fondo il problema e far saltare il tavolo. Si tratta, con umiltà, di rilanciare l’inchiesta e far crescere il radicamento sociale delle soggettività politiche di movimento, il volontarismo (che è sempre anarchico, anche quando finge di essere un po’ leninista e un po’ schmittiano… povero Lenin!) davvero serve a poco, quando non crea danni.

Ci attendono mesi faticosi, dove la crisi sarà sempre più accompagnata da convulsioni politiche, dalla disperazione e dalla frammentazione sociale. Il rovescio di questo processo è ciò di cui dobbiamo occuparci: connettere laddove insiste la solitudine, riconquistare la rabbia alla lotta, consolidare le passioni gioiose, studiare senza sosta, proteggere gli esperimenti più spericolati, osare.

Non sarà facile, non è mai stato facile.

DINAMOpress, Roma, 14-05-2013