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La mia oddkin e altri animali. Animali si diventa di Federica Timeto

Qual è l’eredità dell’animalizzazione delle donne nere durante la schiavitù? Che cosa rende oggi le persone vegane protagoniste di una rottura dei ruoli di genere? E cosa fa della relazione con gli animali un’arma contro la norma eterosessuale? Con “Animali si diventa. Femminismi e liberazione animale” (Tamu, 2024), Federica Timeto esplora le storie dell’incontro tra antispecismo e femminismo, per muovere in direzione della giustizia sociale multispecie

«Abbiamo bisogno del potere delle moderne teorie critiche su come significati e corpi vengono costruiti, non a scopo di negare significati e corpi, ma per costruire significati e corpi che abbiano una speranza per il futuro», scriveva Donna Haraway in Manifesto cyborg. Abbiamo bisogno di intessere una rete di rapporti con maglie abbastanza strette e salde, e assieme abbastanza lasche e generose, da includervi il mondo (una rete non vera ma anzitutto efficace) – legami che uniscano assieme, in una forma di resistenza, comunità e gruppi e singolarità differenziate in termini di potere, o che il potere ha storicamente differenziato. E una simile rete intreccia Federica Timeto in Animali si diventa. Femminismi e liberazione animale per i tipi di Tamu; che nasce, in una forma di resistenza per corpi che abbiano una speranza per il futuro, «in quei giorni infuocati, nell’immenso dolore condiviso di una devastazione ambientale prevista e incontenibile» (p.  11) quando, il 25 luglio del 2003, nelle ore notturne, il promontorio che guarda su Palermo prende fuoco.

Abbiamo bisogno di Animali si diventa, quindi, come si ha bisogno di un atto di cura – quell’atto che è il districare quei corpi e quei significati che le ideologie del dominio hanno legato assieme, quei corpi su cui le ideologie del dominio si sono intersecate e ancora e ancora sovrapposte, spietate. Quell’atto di cura che è il trovare, per quei corpi significanti, per le loro spoglie, diversa composizione. Corpi femminilizzati, corpi marginalizzati, che hanno epidermizzato la propria inferiorità di razza, di genere, di specie – a partire da, quindi, o per arrivare a, quegli animali che si (impersonale, collettivo, singolare-generale) diventa. «Quando si parla di ideologie del dominio, come il sessismo o il razzismo, delle loro intersezioni e dei relativi sistemi materiali di sfruttamento, la priorità della giustizia sociale resta nella maggiorparte dei casi l’umano; lo specismo è raramente preso in considerazione» (p. 7), scrive infatti Timeto. Il singolare-generale Animale è infido dispositivo di cattura che include in sé, come fa notare Jacques Derrida, tutte quelle singolari bestiole che vanno dal cavalluccio allo sparviero, alla mantide e ancora all’orango: che cosa le tiene assieme, se non la morsa dello strapotere Umano, decisosi dall’Animale differente, e che l’Animale quindi dice, come (questo era invece Benjamin) si dice una condanna a morte? Come si dice un presagio di lutto? Ma forse, anche soprattutto, l’Animale è singolare-generale, infido dispositivo di cattura, che include in sé, come fa notare Mary Wollstonecraft, la libertaria Séverine e ancora Marie Huot, la Donna – egualmente asservita agli interessi dell’Uomo, strumento di sola riproduzione oppure oggetto di cura; e anche, e forse, e ancora, l’Animale è singolare-generale, infido dispositivo di cattura, che include in sé, protesterà l’abolizionismo, le persone nere, disumanizzate o animalizzate – costituite, attraverso il paragone coi brutes, come soggetti subalterni, mera materia. Ha catturato e divorato anche corpi queer e corpi crip, l’Animale – Animale non si diventa, questo no: Animale si è sempre resə, come si è resə mutə, senza voce e senza un preciso volere, senza la possibilità di sentire dolore e piacere (esseri senzienti!), attraverso un logorante processo di domesticazione e disciplinamento dei corpi e dei significati.

Come non si diventa Uomo, indicava Deleuze: non si può mai divenire maggioritariə, metro di paragone, padronə di sé e di quel senso dal quale il vettore del sapere-potere scorre, emettendo sentenza. Si diventa invece animali, lo si diviene come si diviene donne, come si diviene bambinə – impersonale, collettivo. Facendo giocare la generalità dell’Animale contro sé stessa, alleandosi con lə animali che vi sono statə ingabbiatə – questo ancora fa il volume di Timeto. Raccontando, per esempio, di come l’Animale sia stato impiegato, a partire da quelle rivendicazioni femministe che sugli animali hanno fatto leva, e per combatterne la decisa assimilazione (la donna, come l’animale, non possiede pienamente o per nulla il senno: lo diceva già quel Padre dell’Occidente che era Aristotele), e per renderlo perno di una nuova visibilità – si ricorda qui la lotta contro la vivisezione, la manifestata cura degli animali di strada, che «permetteva da un lato di insistere sull’analogia con le vittime non umane della società, dall’altro di perseguire una strategia di accreditamento che, pur cavalcando certi stereotipi della femminilità, in primis le capacità di cura e l’empatia, piegava il sessismo a proprio vantaggio, riconnettendo la casa e la strada e fornendo visibilità oltre l’ambito domestico» (p. 30). Creando quindi nuove configurazioni, per confondere quelle gerarchie che hanno diviso umanə e animali, che hanno spartito tutta la razionalità, l’agentività, la libertà da un lato – e che dell’altro hanno fatto solo strumento. A volte la rete tiene, a volte no – le donne bianche borghesi “schiavizzate” dal lavoro riproduttivo hanno avuto forse buon gioco a raccontarsi come persone schiavizzate nelle piantagioni, come animali da latte, da monta e infine da macello, ma in questi casi «l’analogia finiva comunque per servire gli interessi delle bianche, non essendo propriamente reversibile» (p. 22). L’Animale non è verità senza tempo ma è un punto di presa, cattura una retorica: in un contesto potrà essere impiegato in maniera cotroegemonica, per immaginare nuovi mondi e nuove configurazioni di parole e di cose, in un altro servirà invece la voce del padrone. Si cercherà comunque di trovare quel buono, o quel po’ di convergenza, che ha storicamente reso possibile la nascita del movimento antispecista – farà da bussola l’articolazione harawayana, antidioto al ventriloquismo: «se non possiamo parlare al posto di, possiamo senz’altro parlare» di ciò che ha storicamente privato i corpi detti animali «della loro possibilità di espressione e comunicazione» (p. 120).

Farà da bussola – perché è e sarà importante una continua localizzazione del proprio punto di vista: il rinunciare all’oggettività, a quel sapere-potere che possa essere eguale, nel tempo e nello spazio, per tutti i corpi (così opera la forzatura, così ha operato la forza). «Localizzare il punto di vista ha anche il vantaggio di decentrare, e così decolonizzare, le cornici dell’analisi, che non di rado restano quelle dell’epistemologia occidentale e della sua valenza simbolica spesso implicitamente perpetuata perché indiscussa» (p. 67). È in questa multi-ottica soltanto che si possono inquadrare, squadernare, i meccanismi di alterizzazione che hanno sinora operato, per comprendere lə Altrə mai come datə, differenti essenze, ma come prodotte – e da qui ripartire per decostruire quelle maglie che sono genere, razza, specie. E da qui ricostruire «in una chiave non astensionista (dall’umano a includere il non umano) ma ricostruttiva – in termini di connessioni ecologiche piuttosto che analogiche – fra differenze che entrano in rapporto tra loro fuori dalle relazioni di dominio, sia simboliche che materiali» (p. 78); ricostruire una nuova immagine del mondo, intessere nuove oddkin, che sono quelle relazioni (più importanti, o anzi già premessa, delle singolarità che le compongono!) non proprietarie e non familistiche, incontri multi-specie messi in moto dalla responsabilità per le altre soggettività.

Un lavoro da fare assieme – la rivoluzione non è bipede, diceva qualcunə, ma cammina come un millepiedi, su più zampe, protesi, velocità. Come ci ha insegnato il femminismo (e il femminismo antispecista forse ancor di più, racconta Timeto), la vita è del resto una questione complicata, implicata, di interdipendenza – in cui differenti abilità, capacità, zampe, protesi si ritrovano congiunte. E con questo assemblaggio si può quindi viaggiare dal femminismo occidentale al femminismo antispecista nero (l’afrofuturismo ci insegnerà, per esempio, che divenire animali può significare divenire trickster, sconvolgere le maglie del cosmo, divincolarsi dalla presa del potere, rendersi piccolə e ora enormi, illeggibili), ai feminist animal studies all’antispecismo queer – che fa dell’essere vegan un possibile manifesto: rifiutare di mangiare la carne è rifiutare quel sistema che compone e smembra i corpi come naturali (com’è naturale), è rifiutare quell’assegnazione di posto e di bocconi che ci racconta ogni tavola imbandita; è rifiutare di imbandire il tavolo e di partecipare alla mensa della famiglia tradizionale e la sua continua, indefessa, rigenerazione – nella carne. La conclusione – «senza tornare all’identità» (p. 201), come annunciato già dall’indice – è uno scatenamento: perché i saperi percorsi vanno riconosciuti come prassi, perché «il sapere che non prende posizione resta statico» (p. 145), perché il sapere di Animali si diventa mette in movimento, è lutto ma anche festa danzante, e così agita – libera, anche, quei corpi sui quali si è soffermato, che ha invocato e dai quali ha preso congedo. Da tutti questi corpi, dal loro lavoro produttivo, riproduttivo e di cura dipende del resto anche il sistema (quel sistema bianco e borghese che invece si fonda, dice, su principi di indipendenza e abilità), cosa che lo rende sempre esposto al collasso. Perché non immaginarsi, quindi, queste rovine? Perché non abitarle già adesso? Forse queste sono l’unica forma che corpi che abbiano una speranza per il futuro potranno prendere, e che potrebbero abitare; spettri (nella continua minaccia che simili istanze vengano invece incorporate, rese spendibili, signficanti), macerie, assemblaggi, o, ancora con Haraway, «identità permanentemente parziali», «voci esitanti». Invece che dismettere la natura singolare-generale dell’Animale, la sua referenzialità instabile, dovremmo forse amplificarla, farla esplodere – aprire, per queste vie, un mondo post-identitario? Animali si diventa – è un augurio e un segnavia, un sapere-prassi capace di «fare la differenza, invece che restituirla fedelmente» (p. 208).

In copertina un’immagine di “Donna Haraway Reads the National Geographic on Primates” (Paper Tiger Television, 1987)

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