OPINIONI

Uscire o non uscire? Una, tante battaglie per la libertà

Con un piede nella “fase 2” una riflessione su eventi e narrazioni che hanno determinato la “fase 1”

La libertà in tempi di pandemia

Ormai giunta la cosiddetta “fase 2”, tanti potrebbero chiedersi: «quanto è cambiata la nostra libertà?». O meglio: «quand’è che torneremo a sentirci davvero liberi?». È molto difficile dare una risposta, in ogni caso sembra che l’idea di libertà sembra arrivata a coincidere con la possibilità di ri-tornare a muoversi senza restrizioni. Più precisamente, di uscire di casa.

Accettare acriticamente di ridurre “la libertà in tempi di pandemia” alla possibilità di uscire dal proprio domicilio e da qui leggerla o come sola reazione fisico-biologica a un lockdown di quasi due mesi, o come rottura di un’imposizione proveniente dall’alto, impone delle precauzioni. In primo luogo, il rischio è quello di perdere di vista le forti tensioni che hanno prodotto questa relazione, senza evidenziarne il carattere (di scontro) politico e nient’affatto “naturale”.

A ciò si lega un’altra questione molto importante: la memoria storica che avremo di questa pandemia e, più nello specifico, del lockdown. Chi lo ha decretato? Chi lo ha voluto? È stata una mossa di autoconservazione, oppure l’ultimo espediente per dispiegare ulteriori limitazioni alle nostre libertà personali? È stata un’operazione di governo, oppure un “campo di battaglia” tra l’alto e il basso? È stata la scienza, il virus o il popolo?

Un rischio ulteriore, infine, è quello di perdere di vista le “altre libertà” –  o meglio, le altre battaglie per la libertà – che, volenti o nolenti, si sono manifestate e rigenerate dentro la pandemia ancora in corso.

Uscire di casa = libertà?

Se oggi il concetto e il senso di libertà sono diventati sinonimi della libera uscita dallo spazio domestico, lo dobbiamo a una serie di eventi disarmonici e di natura molto diversa, che abbiamo il dovere di tenere distinti.

Un primo fatto è l’escalation di abusi condotti dalle forze dell’ordine in nome del “distanziamento sociale” e delle riduzioni del contagio, che vanno dalla comminazione di multe salate anche in casi di dubbia legittimità – durante il lavoro, andando in ospedale – ai fermi ordinari tramutati in aggressioni vere e proprie da parte delle fdo.

Un secondo fenomeno è quello della “caccia agli untori”. Media e politici hanno lavorato in maniera minuziosa, con decreti, ordinanze e “discorsi” – famosi sono i diminutivi “passeggiatina” e “corsetta” di De Luca, insieme alle sue minacce di usare il lanciafiamme contro le feste di laurea – al fine di creare un clima di terrore e sfiducia per criminalizzare chi, pur rispettando il distanziamento, si è concesso qualche minuto all’aperto.

Questo humus di tanti fatti di cronaca si è poi accompagnato ad alcuni tentativi di coniugare – e connotare politicamente – libertà, mobilità e presenza nello spazio pubblico. Protagonisti indiscussi Confindustria e l’opposizione. Quest’ultima, si è impegnata in una precisa operazione: ricondurre la forte personalizzazione dell’esecutivo sulla figura di Conte – ricercata e voluta dal premier stesso – in una trasformazione autoritaria della gestione della crisi. Questa la postura con cui Meloni e Salvini hanno risposto a Conte quando ha accusato i primi, in diretta nazionale, di aver approvato il Mes ai tempi di Monti. È così che il “distanziamento sociale” e il rimanere in casa, per il gioco delle opposizioni, sono diventati enunciati contro la libertà.

Una distorsione resa possibile dalla confusione di fondo relativa a chi abbia effettivamente deciso e voluto la sospensione di mobilità e relazioni sociali, comprimendo – in maniera indebita – natura del virus, autotutela dal contagio da parte della popolazione e volontà governativa dietro il volto dell’attuale primo ministro. Dentro questo solco si colloca anche il tentativo di svalutare il contenuto specifico del 25 aprile sotto una generica giornata di “liberazione dal coronavirus”.

Avviata da Ignazio la Russa durante una diretta fb, tale iniziativa si è poi sostanziata nella nascita di alcuni gruppi Telegram che hanno invitato a scendere in piazza proprio nella giornata partigiana per antonomasia, sotto il vessillo del tricolore, per “rompere la gabbia di una quarantena intollerabile” e liberarsi dal «dettame del lockdown». Un’azione che, raccogliendo le difficoltà a rimanere blindati in casa tanto tempo, ha visto in regia la longa manus di Roberto Fiore di Forza Nuova. Un’azione che comunque non ha avuto successo.

#IoRestoACasaMa…

Ma è solo la libertà di tornare per strada che nasce dai moti vorticosi della pandemia?

Partiamo dal mondo della sanità. È molto complesso ricostruire, con precisione, il punto di vista dei lavoratori degli ospedali nel momento in cui cominciavano a manifestarsi le prime avvisaglie del disastro. Dalla Lombardia, c’è chi racconta –  solo al telefono – di aver trovato, da un giorno all’altro, interi reparti stravolti da cima a fondo senza aver ricevuto comunicazioni preventive. In più, costretti a lavorare senza la dotazione adeguata ad evitare il contagio. Chi ha provato a denunciare la cosa ha subito minacce, obbligato ad evitare ogni contatto con la stampa. I più coraggiosi, si sono impegnati in scioperi spontanei.

Parimenti importanti sono stati gli appelli circolati soprattutto su Facebook prima dell’estensione del lockdown a tutto il paese, con l’obiettivo di contrastare lo scetticismo verso la virulenza del virus. Prese di parola, queste, che individuano posizioni sociali molto distanti dalle intenzioni che hanno guidato quelle iniziative di mistificazione come il tanto famoso video #MilanoNonSiFerma, uscito il 27 febbraio. Insomma, ben prima che l’Italia diventasse un’unica zona rossa, la consapevolezza sulla situazione si è costruita anche lungo traiettorie più o meno informali che dagli operatori della sanità arrivavano ai loro parenti, amici più stretti e follower, preparando quel senso di autotutela diffuso più che determinante per indirizzare le scelte adottate dal governo da lì in avanti. Se poi il dibattito giornalistico si è molto preoccupato dall’autorità acquisita dalla Scienza con la “S” maiuscola di mettere in scacco la politica, è bene riportare i dati del Ministero della Salute sul numero dei contagiati nel mondo della sanità, che ammontano al 10% del totale: tra questi, il 43,2% sono infermiere/i, soggetti che, normalmente, ben poco possono incidere nei conflitti di potere tra Scienza e Politica, per come sono confinati in aspri regimi di precarietà, ricatto e mobbing.

L’altro fronte è stato il mondo della produzione. Anche qui, è molto difficile ricostruire il punto di vista dei lavoratori stanziati nelle zone prossime al focolaio. I motivi sono principalmente due: la Commissione di garanzia degli scioperi, a fine febbraio, ha chiesto la sospensione di ogni iniziativa di astensione dal lavoro; le forti pressioni di Confindustria per tenere aperte le fabbriche, unite a diverse operazioni di propaganda lavorista. A tal proposito, fanno testo l’iniziativa del 28 febbraio di Confindustria Bergamo che, al fine di tranquillizzare i partner commerciali esteri, rilascia il video “Bergamo is running”, in cui si annunciava: «gli attuali avvertimenti sanitari dei dipartimenti governativi italiani indicano che il rischio di infezione è basso»; nonché l’imperativo «di tenere aperte le aziende, dando continuità a tutte le attività produttive e alla libera circolazione delle merci», firmato Confindustria Lombardia, dell’11 marzo scorso. A una prima occhiata, sembrerebbe che non si siano dati fenomeni di contestazione alla scelta di tenere aperti i luoghi di lavoro, nonostante dal 26 febbraio al primo marzo, solo a Bergamo, i casi positivi siano schizzati da 20 a più di 200.

Questa apparenza si dissolve ricordandoci che il primo lockdown è stato salutato dallo scontento dei lavoratori, divenuti sempre più consapevoli del pericolo in corso. Il decreto, infatti, ha disposto la chiusura delle attività commerciali, permettendo tuttavia alle fabbriche di rimanere aperte, senza predisporre interventi concreti per garantire la sicurezza dei lavoratori. Così, il giorno seguente sono scoppiati numerosi scioperi da Nord a Sud, che colpiscono le dirigenze di Amazon, Leonardo, Fincantieri etc., costringendo il Premier a convocare, per il giorno successivo, un tavolo con sindacati e industriali. Le iniziative di contestazioni non si arrestano per tutto il mese di marzo, registrando, in molti appuntamenti, picchi del 90% di adesione, con una semplice richiesta: chiusura di tutte le attività non essenziali. Se non c’è sicurezza, restiamo a casa.

Physical distancing, social solidarity

Il panorama fin qui tratteggiato, per quanto frammentato, mostra un fatto inequivocabile: la decretazione del lockdown, nonché i confini della sua estensione, sono state il campo di conflitto privilegiato tra potere politico, interessi economici e autotutela sociale.

In questo contesto sono nate dal basso numerose iniziative che attraverso un uso autonomo dello spazio virtuale o un attraversamento delle strade in forme nuove si sono poste il problema di prendersi cura della salute individuale e collettiva. Tra le tante, ne citiamo tre.

La proliferazione di reti di cooperazione sociale, le cosiddette “Brigate di solidarietà”, per il sostegno ai più vulnerabili in termini di salute e reddito. Un’infrastruttura di braccia e gambe che ha portato a termine migliaia di commesse al giorno di beni di prima necessità. Nate con l’obiettivo di sostenere le persone più esposte alla virulenza del virus, la loro azione è diventata un vettore irrinunciabile di redistribuzione della ricchezza per chi, a causa dell’obbligo di distanziamento, ha perso il proprio reddito.

I gruppi di studio “Ecologia politica”, impegnati a ricostruire le cause ambientali alla base della pandemia. Tra i tanti seminari, particolarmente interessante è quello relativo alla correlazione tra inquinamento dell’aria e incidenza del virus.  Rendendo accessibili alcune ricerche accademiche che evidenziano come non sia un caso che la Pianura Padana, in quanto regione più inquinata d’Europa, sia lo scenario del focolaio più critico del pianeta, hanno reso disponibile ai più alcune, ma fondamentali, ragioni che motivano l’insostenibilità dell’attuale modo di produrre, fondato sui combustibili fossili e alte emissioni. Infatti, pare che la presenza nell’aria delle polveri sottili accrescano del 15% le possibilità di morire una volta contratto il virus.

Il lavoro sotterraneo per garantire l’autodeterminazione riproduttiva delle donne. Con lo scoppio dell’emergenza, la riorganizzazione degli ospedali pubblici ha finito per compromettere un diritto già molto difficile da vedersi riconosciuto in Italia: quello all’aborto. La piattaforma Obiezione Respinta, grazie a un apposito gruppo Telegram, ha ricevuto centinaia di segnalazioni che mostrano come «l’emergenza sanitaria in corso aggrava la situazione: alcuni ospedali hanno ridotto gli accessi e ci sono stati segnalati ospedali in cui il servizio di IVG (interruzione volontaria di gravidanza, ndr) è stato soppresso o trasferito».

Nel momento in cui diventa sempre più urgente contestare la mobilità differenziata aperta con la Fase 2, è importante ripartire dalle altre figure assunte dalla libertà nel procedere della pandemia: come salvaguardia della salute collettiva, solidarietà e welfare “dal popolo per il popolo”, saperi ecologici, lotta alla sospensione dei diritti alla salute riproduttiva. Traiettorie, queste, che individuano alcuni campi su cui strutturare i conflitti a venire e che, a loro volta, costituiscono il portato esperienziale che ci permetterà di affrontare (ed evitare) le pandemie future.

Lockdown a metà

Per dovere di cronaca, è importante riferirsi a un ultimo dato statistico che non va assolutamente dimenticato. Intorno alla metà del mese di aprile, l’Istat ha rilasciato un rapporto secondo cui il 55,7% della forza-lavoro è rimasta attiva durante il lockdown, spostandosi da casa per andare a lavoro. Il dato, dunque, non riguarda chi ha visto continuare la propria attività nella modalità dello smartworking. Percentuali impressionanti, che assumono tratti estremamente tragici se si guarda ai dati sulle città. I livelli più alti si sono avuti nei grandi centri, dove Milano registra il 67,1%: Milano non si ferma e mai si è fermata. Avvicinandoci ai focolai principali, osserviamo: Lodi 73,1% e Crema 69,2%, che distano solo 24 km da Codogno, epicentro del virus.

Il dato si spiega alla luce del Dpcm del 22 marzo, quello relativo allo stop delle attività ritenute non essenziali. Secondo uno studio condotto dalla fondazione Sabattini, il governo ha dato la possibilità alle aziende di definire, in totale autonomia, la propria funzionalità a quanto è definito fondamentale, ovvero sanità, agroalimentare, energia etc., come se tutto quanto abbia una minima relazione con l’agroalimentare possa essere irrinunciabile. Una scelta, questa, che il governo ha preso accogliendo forti operazioni di lobbying da parte di Confindustria, cui si aggiungono non poche responsabilità da parte dei sindacati confederali i quali, durante il decorso della pandemia, hanno impostato il loro discorso su posizioni votate alla continuazione della produzione in presenza di strumentazione adeguata – limite facilmente scavalcabile adottando mascherine dalla dubbia efficacia.

Come se non bastasse, secondo un’altra statistica, questa volta dell’Inps nelle province in cui sono concentrate un maggior numero di attività considerate essenziali i contagi sono cresciuti del 25% in più rispetto alla media. Il dato è al ribasso, visto che i tamponi sono fatti solo a coloro che manifestano sintomi avanzati, escludendo gli asintomatici. Insomma, la produzione si è fermata ben poco. E l’obbligo al lavoro si è dimostrato determinante nella circolazione del virus. E, ovviamente, per l’ammontare dei morti.

 

Camillo Chiappino, nato a Pescara nel 1995, rider e studente di filosofia presso l’Università di Pisa. Attivista dello spazio sociale eXploit_Pisa.

Tutte le foto sono di Gianluca Rizzello e fanno parte di un progetto fotografico sugli spazi comuni dei condomini di Bologna durante il periodo di isolamento sociale (https://www.gianlucarizzello.it/).