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MONDO
USA al bivio #2: Fiumi di dollari e prove di plutocrazia
Come si finanziano i candidati presidenziali? Visto che l’esito delle primarie è scontato, è partita la corsa ai grandi donatori, da Hollywood alle grandi corporations della Silicon Valley. Con l’incognita della questione palestinese e il Partito Repubblicano sempre più controllato dalla famiglia Trump
Sabato scorso al fundraiser hollywoodiano di Joe Biden gli ospiti d’onore erano Barack Obama, George Clooney e Julia Roberts. Il ciclo di autofinanziamento elettorale quest’anno è entrato nel vivo con un paio di mesi di anticipo sul normale calendario, visto che i pretendenti sono già arcinoti, ben prima delle convention. Sia Trump che Biden battono dunque cassa ai rispettivi sostenitori e in una campagna democratica il sostegno politico e finanziario di Hollywood non può mai mancare.
Si può discutere, certo, del valore aggiunto portato dall’appoggio di megastar del cinema e quanto invece possa essere controproducente, vista la narrazione avversaria sui limousine liberals e le élite radical-chic. Resta il fatto che per la raccolta di fondi i progressisti hollywoodiani rimangono fra i contribuenti più affidabili. Per la campagna 2019-2020 i contributi di Hollywood a Biden ammontarono a $104 milioni (contro $12 milioni per Trump). A marzo un altro evento pieno di star al Radio City Music Hall con presentatore Stephen Colbert raccolse un premio record di $26 milioni. Sabato ospiti, il pubblico di Vip di Los Angeles ha collettivamente donato $30 milioni per sostenere la rielezione del presidente.
L’evento ha avuto un retroscena imbarazzante quando la Camera ha approvato una mozione di condanna della Corte penale internazionale per aver spiccato mandati di cattura per crimini di guerra nei confronti dei leader di Hamas e di Benjamin Netanyahu e il suo ministro della difesa Yoav Gallant. Il procedimento contro Israele è stato fortemente condannato anche da Biden. Questo ha a sua volta suscitato le proteste di Clooney la cui moglie Amal è avvocata consulente dell’Aia, potenzialmente passibile quindi delle sanzioni punitive americane paventate contro i funzionari della corte internazionale (gli USA non hanno mai ratificatolo statuto di Roma e non riconoscono la Corte).
Prima del fundraiser, l’attore, che quattro anni fa ha staccato per Biden un assegno di $500,000, ha chiamato Steve Richetti, consigliere della Casa Bianca, per esprimere il proprio disappunto per la proposta di sanzioni inizialmente sostenute da Biden. In seguito, il presidente ha cambiato rotta definendole «non la risposta giusta». La vicenda è stata l’ennesimo indizio di quanto la questione palestinese continui a essere una mina vagante per la campagna Biden e le prospettive dei Democratici. Alla fine la crisi è rientrata e il pubblico di Vip ha collettivamente donato $30 milioni per sostenere la rielezione del presidente.
Se la macchina democratica macina milioni, la campagna Trump non sta con le mani in mano e, dopo aver inizialmente perso terreno nella gara del cash, ha recuperato terreno. Per cominciare la famiglia che di fatto ha preso il controllo del partito repubblicano, ha blindato il Republican National Committee (ovvero il direttorato GOP preposto principalmente proprio a raccogliere e smistare i fondi elettorali per i candidati). A marzo, alla direzione del RNC è stata insediata la nuora del capostipite, Lara Trump, che ha immediatamente assicurato che ogni centesimo verrà speso a favore del consuocero. Meno chiaro è quanti fondi verranno dirottati anche per le ingenti spese legali cui fa fronte il candidato-imputato, sta di fatto che la contabilità elettorale è stato l’ultimo pezzo di partito e passare sotto controllo diretto di Mar-a-Lago. Dal hotel/golf club/reggia alabastrata di Palm Beach, lo stesso Trump gestisce il “brand” familiare e i rapporti con i “donor”, i donatori, importanti. Quando l’affarista immobiliare era insediato alla Casa Bianca, il principale risultato legislativo del suo mandato è stato il drastico taglio delle tasse delle corporation dal 35% al 21%, un mastodontico regalo ai colleghi imprenditori costato $1300 miliardi al bilancio.
Come ha scritto Bloomberg News, il marchio di famiglia è stato successivamente «danneggiato» dal tentativo di sovvertire l’ordine democratico e, dopo il 6 gennaio, diversi esponenti di Wall street avevano preso le distanze dal presidente golpista, intuendo forse che la guerra civile non avrebbe giovato agli utili aziendali. Ma come dimostra la processione sempre più folta di amministratori delegati in pellegrinaggio a Mar-a-Lago, la promessa di ulteriori sgravi da parte dell’ex-presidente ricandidato sembra ora aver convinto il grande capitale a tornare a sostenere il proprio mecenate.
La scorsa settimana Trump è tornato sul “luogo del delitto,” visitando Capitol Hill per la prima volta dal 6 gennaio 2021. Dopo un incontro con i vertici politici del GOP per coordinare la strategia elettorale Trump ha parlato anche alla Business Roundtable, lobby che raccoglie CEO delle principali aziende USA. Ad ascoltare c’erano Jamie Dimon (JP Morgan Chase), Jamie Fraser (Citigroup), Tim Cook (Apple) e molti altri, un’assemblea che ha rievocato i viaggi che da presidente Trump organizzava in Arabia Saudita con dozzine di imprenditori americani a seguito.
Se è vero che alcuni dei presenti hanno espresso perplessità sulla mancanza di lucidità sui programmi concreti (Trump avrebbe proposto un ulteriore taglio delle tasse corporate fino al 20% «perché è un bel numero tondo»), molti CEO sembrano nuovamente pronti a sostenere il candidato GOP. È sintomatico della generale riabilitazione di Trump, che ha rischiato due impeachment e ora ha subito una condanna penale, ma sembra immune da conseguenze che avrebbero devastato altre carriere politiche. Emblematiche della rimozione sono state le dichiarazioni di John Kastimatidis, magnate di supermercati di New York, per il quale durante l’amministrazione Trump «non c’erano guerre e non c’era inflazione». Altri che dopo il 6 gennaio avevano criticato il “caos” provocato da Trump, come Stephen Schwarzman, amministratore della Blackstone, ora sembrano aver del tutto “perdonato” le sue intemperanze antidemocratiche, per preciso calcolo di convenienza.
D’altra parte il concetto era stato esplicitamente chiarito dal diretto interessato, quando aveva sollecitato un gruppo di petrolieri a fare una donazione di un miliardo di dollari alla propria campagna, specificando che un miliardo speso oggi avrebbe prodotto lauti dividendi un domani, quando, nuovamente presidente, avrebbe ricambiato con nuove concessioni petrolifere e l’abrogazione di norme ambientali per le loro aziende.
A Trump non mancano certo gli istinti di un politico-businessman. Quest’anno, ad esempio, ha lanciato un’OPA di sé stesso, inaugurando a Wall street il titolo del Trump Media & Technology Group (simbolo DJT), casa madre del suo Truth Social. Il social network è fallimentare, ma questo non nuoce al “meme stock”: un titolo che deriva il proprio valore in borsa dalla notorietà del titolare e in questo caso dagli acquisti online di un esercito di fedeli elettori.
Il sostegno va oltre a quello della grande finanzia e degli idrocarburi, estendendosi sempre più anche a settori della new economy. I capitani dell’industria tech si considerano disruptor, spregiudicati innovatori che rompono gli schemi e inventano il futuro scrivendo le proprie regole. L’altra faccia di questo liberismo estremo è il culto dell’individualismo della meritocrazia che nella Valley è sempre più diffuso, come anche un innato anti-sindacalismo e l’insofferenza per tasse e normative, recentemente esacerbata dai procedimenti antitrust intentati dall’amministrazione Biden contro Google e Amazon.
La fazione estremista del complesso tech è rappresentata da personaggi come Peter Thiel, la cui Palantir prende il nome dalle pietre divinatorie del mago Sauron nei libri di JRR Tolkien. Legato al think-tank anarco-capitalista, Property & Freedom Conference ed al gruppo Bilderberg, il magnate cresciuto in Namibia da famiglia tedesca, è aperto sostenitore di Trump e finanziatore di politici Maga, come il senatore dell’Ohio JD Vance. Thiel ha dichiarato in un saggio per il Cato Institute, di non credere alla «compatibilità di democrazie e libertà», per la congenita tendenza a restringere la forza innovativa de capitale. Non sorprende che di recente Silicon Valley sia diventata meta di puntate non solo di Trump ma anche di personaggi come Javier Milei.
Thiel è stato fra i fondatori di PayPal, un gruppo di cui faceva parte anche Elon Musk, oggi diventato massimo esponente della corrente trumpista del new tech. Alla causa, Musk contribuisce non solo la gigantesca disponibilità di liquidi ma, ovviamente, il dispositivo propagandistico di X, l’ex-Twitter trasformato in amplificatore full time di messaggistica Alt- Right, complottismo, e disinformazione. Il social, ormai più vicino a forum come 4 Chan, incita anche apertamente all’odio su siti come Radio Genoa. Ci sarebbe da riflettere sul fatto che questi due militanti pro-Trump, fra gli uomini più ricchi e potenti del mondo, si siano entrambi formati sotto regimi di apartheid coloniale.
A ogni buon conto, ai propri 184 milioni di follower Musk promuove sempre più disinvoltamente idee di suprematismo bianco ed eugenetica ai propri 184 milioni di follower, visita il “fronte palestinese” con Netanyahu e gira video di “denuncia” con selfie al confine messicano. Da qualche tempo girano perfino voci, non implausibili, di un suo incarico in un ipotetico governo Trump.
Le simpatie conservatrici di Silicon Valley non sono limitate a figure così estreme. Personalità come Larry Ellison (Oracle), Craig Barret (Intel) Michael Dell (Dell), Palmer Luckey (Oculus VR) e Tim Armstrong (AOL) sono tutti stati generosi sostenitori finanziari del GOP. Il partito trasversale del liberismo tech, influenzato per intenderci dal capitalismo “mistico” di Ayn Rand, conta inoltre aderenti in aziende come Airbnb, Reddit, SpaceX, Uber e Lyft e va ben oltre l’iniziativa individuale. Il mese scorso a Los Angeles Musk e l’investitore David Sacks (altro membro sudafricano della “PayPal mafia”) hanno organizzato una cena per miliardari militanti sostenitori di Trump. Fra gli invitati, oltre a Thiel, spiccavano Rupert Murdoch, Michael Milken e Steven Mnuchin.
Mnuchin, che nella prima amministrazione Trump, ha ricoperto la carica di ministro del tesoro, è particolarmente rappresentante del tipo di plutocrate rampante sdoganato dal trumpismo. A fine incarico, Mnuchin, già pupillo della Goldman Sachs (e che oggi guida una cordata che vorrebbe acquistare TikTok nel caso venisse confermato l’obbligo di vendere il video social network a una proprietà USA), ha fondato una società di investimento, la Liberty Strategic Capital, grazie a un finanziamento di oltre $1 miliardo del fondo sovrano saudita con cui aveva intrattenuto stretti rapporti ufficiali.
Lo stesso percorso ha compiuto Jared Kushner, il genero di Trump che l’ex-presidente aveva nominato inviato speciale in Medio Oriente con delega tra l’altro agli accordi di Abramo fra Israele e alcuni stati del Golfo. Lo stesso fondo, che fa capo alla famiglia Saud, ha investito circa $2 miliardi nella Affinity Partners, società di investimenti che anche Kushner ha fondato appena lasciato l’incarico di governo. Come Trump Kushner appartiene a una dinastia di speculatori immobiliari e ha di recente rivelato una serie di investimenti in grandi progetti nei Balcani (la riqualificazione dell’ex- ministero della difesa jugoslavo a Belgrado in un complesso alberghiero e residenziale di lusso e l’edificazione di una “eco-resort” di lusso sull’isola albanese di Sazan.)
Presi assieme, sono piuttosto trasparenti i presagi di una generazione particolarmente rampante di imprenditori tardo- capitalisti, dedita a flussi transazionali di capitale (specie con altri regimi autoritari e anti-libertari) che promette di costituire l’orbita di oligarchi attorno a una nuova presidenza Trump, i cui obbiettivi programmatici sono tanto opachi quanto è chiara la corruzione e l’affinità con criminocrazie globali.
Fotografia di copertina di Willian Justen de Vasconcellos (Pexels)
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