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Le radici profonde dei problemi dell’università

Oltre le inchieste sui concorsi truccati e al di là della retorica sulla mancanza di merito, l’università italiana è messa sempre peggio. Ma i mali sono di lungo corso e hanno nomi e cognomi: definanziamento, riforme universitarie, tagli alla ricerca.

E così, ancora una volta, un caso di cronaca fa scoppiare il dibattito attorno all’università. La vicenda dei “baroni” indagati e cautelativamente interdetti dall’insegnamento per aver truccato un concorso ha scatenato nuove polemiche sul declino dell’accademia italiana, rea di portare avanti meccanismi clientelari rimasti evidentemente intoccati dalla provvidenziale riforma Gelmini. Una ridda di commenti volti a spiegare i perché e i percome della vicenda si è propagata tra carta, etere e web, e tra livori personali e consigli ex-catedra – quali altri, sennò – l’università e il suo declino sono tornati al centro dell’interesse pubblico.

Come sempre, una mistura di risentimento personale e furore riformista ha caratterizzato un copione che va in scena ormai da anni sempre uguale a se stesso. Su Le parole e le cose Gilda Policastro si è sentita in dovere di condividere con noi i deludenti siparietti concorsuali cui ha assistito in qualità di diretta interessata, mentre Roberto Perotti ha continuato a battere sulla solita nota del merito, della qualità e degli esempi esteri, in una lista sui Sei luoghi comuni che fanno male all’Università. Fra tali supposti luoghi comuni c’è anche quello per cui «il nucleo dell’università italiana è sano», forse assurto al primo posto della classifica di Perotti in risposta a un altro articolo, a firma questa volta di Carlo Rovelli, apparso qualche giorno prima sul Corriere della Sera. E come Perotti insiste sul modello inglese quale esempio virtuoso di pubblico iper-efficiente e selettivo, così Rovelli aveva sottolineato la grande democraticità che, malgrado tutto, ancora caratterizza l’università italiana: «Certo» – scrive Rovelli – «non abbiamo Cambridge o Harvard, ma non abbiamo neanche il brutale elitarismo sociale che le nutre, per fortuna».

Non è mancato nemmeno chi si è lanciato in un’accusa a fondo perduto, come ha fatto Francesco Cancellato dalle pagine de Linkiesta, con un pezzo da clickbaiting depressogeno (Fosse solo “Concorsopoli”: la nostra università fa schifo e l’Italia non ha futuro). Ad esempio, tuona Cancellato, «mentre tutti gli altri sistemi promuovono la competizione leale e meritocratica come strumento di avanzamento professionale – o almeno ci provano – noi preferiamo la cooptazione e ne andiamo fieri». Oltre alla solfa meritocratica con cui non manchiamo mai di ingozzarci in casi del genere, in queste poche righe c’è soprattutto la faciloneria con cui si parla di solito dell’università, individuando magari nella cooptazione il male assoluto, ignorando volutamente che proprio nelle università meritocratiche che tanto piacciono ai riformatori – tipo quelle inglesi – è proprio la cooptazione diretta, e non il concorso pubblico, il meccanismo attraverso il quale si assegnano stipendi e ruoli. Cancellato ha il merito, tuttavia, di riportare alcuni dati oggettivi sullo stato di salute dell’università – la diminuzione delle immatricolazioni e del numero dei laureati, il tracollo delle risorse investite e l’aumento delle tasse per gli studenti – pur non traendone le necessarie conclusioni.

Eppure quei dati ci raccontano una storia diversa, garantiscono l’accesso a un livello del dibattito che forse sarebbe bene approfondire prima di prendere la mira per il tiro al bersaglio contro i “baroni” e l’università tutta. Si sono premurati di leggerli con attenzione Lorenzo Zamponi e Marta Fana, in un articolo apparso su Internazionale il 22 ottobre del 2016, dove affermano con forza – e perizia – che «è strumentale pensare che siano queste irregolarità a mettere in difficoltà chi vuole fare ricerca, ed è grottesco aspettarsi che “affamare la bestia”, continuando a togliere risorse al sistema universitario, possa migliorare la situazione. Anzi, più il sistema è chiuso e bloccato, più casi di questo tipo si ripeteranno. […] Se a una generazione di ricercatori fosse data la possibilità di condurre le proprie ricerche in maniera autonoma e indipendente, senza dover passare la maggior parte del proprio tempo a cercare opportunità per il contratto successivo, si spezzerebbero i legami di dipendenza che sono alla base di ogni meccanismo clientelare».

Il punto, sottolineano i due ricercatori, è che l’università è stata ridotta alla canna del gas. Definanziamento massiccio, blocco del turnover, diritto allo studio inesistente, svilimento dell’attività di ricerca di base e di didattica universitaria, una valutazione basata su asettici algoritmi scritti da un comitato di valutazione che suscita non pochi dubbi in quanto a efficacia e composizione, in un sistema che chiaramente svantaggia intere discipline – se non intere facoltà – nella possibilità di avere accesso ai fondi: questi sono i problemi dell’università italiana.

E spiace dirlo, ma tutte queste cose erano state viste chiaramente, nella loro logica e nelle loro conseguenze, dai movimenti studenteschi che negli anni passati – quasi dieci, ormai – avevano levato gli scudi contro i tagli brutali e la riforma della ministra Gelmini. L’Onda e poi il grosso movimento che nel 2010 si è battuto contro le misure draconiane e punitive introdotte dal Ministero (che avrebbero dovuto garantire un nuovo corso alle cose, la famosa meritocrazia, e che hanno evidentemente fallito) scendevano in piazza per denunciare a gran voce che questa strada avrebbe condotto al disastro.

Sapere di aver avuto ragione è però una ben magra consolazione vista la situazione attuale, dove le componenti dell’accademia – studenti, dottorandi, ricercatori precari e docenti strutturati – sono sempre più scollate e sorde alle reciproche richieste. Se non riusciremo nuovamente a mettere al centro del dibattito pubblico la funzione dell’università, a difendere il suo ruolo di polo educativo – di crescita culturale personale e collettiva –, se non riusciremo a immaginare per lei un futuro diverso che vada al di là delle polemiche sterili e continueremo invece a litigarci le poche briciole rimaste, resterà sempre poco, molto poco da fare.