TERRITORI

Una cattedrale sul Monte Peglia

Due nostri redattori sono stati all’apertura del WAO Festival.

Tra gli alberi si sono imbattuti in una cattedrale di bamboo, uno spazio dove si sperimenta un metodo che tende ad esaltare attraverso la creatività umana quella della natura. Così lo raccontano.

Monte Peglia giovedì 20 luglio 2017. «Ti lasci Orvieto sulla sinistra e inizi a salire». Queste le indicazioni di Luca che con Michelangelo e Vero organizza il WAO Festival. Quest’anno ’ la terza edizione. Luca con Valentina ci hanno convinto a venire facendoci vedere le foto di alcune strutture in bamboo che uscendo fuori dal terreno sembrano spiccare il volo verso il cielo. «Venite a vedere cosa diventeranno».

Stiamo arrivando. Iniziamo a salire. Dopo ogni curva gettiamo uno sguardo ad Orvieto. Da qui  la città appare davvero come racconta Pier Paolo Pasolini. Un insediamento «stretto sul colle sospeso tra campi arati da orefici, miniature, e il cielo». Il nome del paese dove ti hanno detto di dirigerti non lo trovi riportato su nessun cartello stradale. La strada salendo ti convince che la direzione deve essere quella giusta. Non hai voglia di interrogare il telefono perché ora non sei più su un colle brullo. Iniziano ad apparire gli alberi. Tanti. Ti accorgi che sono stati piantati secondo un disegno. Sembrano tante isole contigue. Vai avanti e le piantumazioni si fanno sempre più fitte.

Incontri poche case. Il paese nel cui territorio si svolge il festival è San Venanzo. Come è avvenuto in molti dei centri dell’appennino centrale il numero dei suoi abitanti si è ridotto nel tempo. Negli ultimi 50 anni, del 50%. Con gli abitanti sono scomparsi anche gli spazi destinati al pascolo. È un territorio rugoso e difficile. Da sempre. Con il sommovimento tellurico destinato a creare il sistema vulcanico dei colli albani, il Tevere, vista sbarrata la propria corsa verso sud, ha piegato verso il Tirreno. Quelle eruzioni, anche se lontanissime, hanno lasciato il segno su un territorio adagiato su tre vulcani (spenti) e padre di una pietra, la venanzite, a cui ha dato il nome.

Il vecchio proprietario del monte si era fatto prestare dal governo una schiera di prigionieri austro-ungarici, siamo a ridosso della prima guerra mondiale, per, diceva lui, alleggerire quel terreno con una forte piantumazione. Operazione inutile. A rendere la foresta più consistente ci ha pensato, una volta diventato bene demaniale, la Comunità Montana. Dall’inizio degli anni 70 del 900 ha creato un vero e proprio bosco.

 

Quando arriviamo incontriamo due guardie forestali. Ci chiedono dell’incendio dell’autostrada. Le loro radio gracchiano di uno nuovo dalle parti di Spoleto. «Dobbiamo stare attenti, è tutto secco, può bastare una scintilla provocata dallo sfregare di due pietre tra loro che si postano sotto la suola di qualcuno”. Sorridono quando gli confessiamo che sfregare tra loro le pietre “come gli indiani” è un gioco che facevamo da bambini che non ci è mai riuscito. «In quest’area dobbiamo fare attenzione» ci dicono « Eravamo qui  pure gli anni passati e questi ragazzi  stanno attenti».

La pensa nel medesimo modo Marsilio Marinelli il sindaco di San Venanzio raggiunto da Dinamopress. «Confesso che all’ inizio, il primo anno, avevo qualche timore. La tecno non è il target della nostra comunità. Quello del WAO è un target giovanile. Perché però averi dovuto dire di no? Avrei dovuto avere paura dell’uso di “sostanze” da parte di qualcuno? Che succede a Roma, a Firenze? Ad oggi non ci sono stai mai problemi.  È stata una buona scelta. Giunti alla terza edizione mi sento di dire che la nostra amministrazione ha fatto la scelta giusta. Chi organizza ha vinto un bando pubblico regionale per l’affidamento dello spazio per un periodo di 12 anni. Si sono presentati qui e abbiamo preso i rispettivi impegni. Ci troviamo benissimo. Con loro, grazie alle loro iniziative, San Venanzo è conosciuto in Italia e in Europa. Non solo per il festival. Per quello che facciamo e finalmente per la ricchezza rappresentata dalla bellezza dei nostri luoghi. Abbiamo concordato con gli organizzatori un ingresso a prezzo ridotto per i locali. Già in molti dei nostri giovani si sono avvicinati».

I due ranger, richiamati ai loro impegni, ci lasciano. Ci inoltriamo per un sentiero. Si è scelto di tenere le “residenze”, le tende, più in alto e più in basso lungo le curve di livello rispetto il sentiero principale che in alcuni tratti si allarga. Qui ospita alcuni servizi. «È importantissimo» ci avevano preannunciato i due forestali «avere un largo luogo “sicuro” per accendere fuochi e cucinare».

La scelta urbanistica è perfetta. Si ha l’impressione di stare sul “corso” di una cittadina e, confessiamo lo stupore, ognuno che viene in senso contrario incontrandoci ci saluta. Una sconosciuta piacevole gentilezza urbana. C’è pure un piccolo “parco giochi”. Sono tanti i bambini. Non mancano i  passeggini. Nello spazio “disegno” riconosciamo due nonni venuti qui in camper a “tenere” i figli di uno degli organizzatori.

Avanziamo. Seguiamo una larga curva che circonda una piccola collina. Su suo lato orientale è stato ricavato un anfiteatro naturale. È qui dove, iniziati il giorno precedente, si svolgono i “workshop”. Sulla sommità gli spazi per l’alimentazione e una tenda per le esibizioni. Alcuni compagni romani animano la Cosmic Fruits. In una tenda, arredata in modo che ricorda quelle afghane, vengono fornite centrifughe di frutta. Chi è in fila sa aspettare. In un casale di pietra a fianco ad una quota più bassa c’è il  “cervello” del Festival.

Entriamo. Ci spiegano che con quest’anno si vuole dare vita a una sorta di laboratorio continuo. Oltrepassare il tempo del festival per iniziare a sperimentare, «un modello di vita alternativo nel profondo rispetto di se stessi, degli altri e della natura che ci accoglie». I seminari e l’attività dei laboratori hanno una linea in comune: «puntare alla crescita individuale attraverso lo sviluppo di una visione olistica fino all’applicazione di soluzioni pratiche in materia di discipline all’avanguardia come eco-architettura ed agricoltura sinergica». 

  A indicare come riuscirci lo scopri appena passata la curva. In uno spazio largo che affaccia sulla valle sottostante ti imbatti in una cattedrale di bamboo. Questo sono diventate le forcelle che avevamo visto nelle foto uscir fuori dal terreno. Sono archi strutturali che accostati tra loro per mezzo di campate di minore altezza, raccordate tra loro con un’onda continua di copertura, individuano uno spazio centrale. Alcuni tiranti, come i contrafforti delle cattedrali, sostengono una tenda leggera e colorata. È uno spazio centrale a cui è annesso quello tecnico del sound animato dal protagonismo di 85 performers.

 

Lo osservi, entri dentro, alzi la testa, e nonostante quel materiale improprio, ti sembra che quello spazio sia sempre stato lì. Sai bene che non è cosi e cerchi di darti una risposta. La trovi capendo che quello non è uno spazio dato, un contenitore buono per tutte le occasioni. Ne è, come in altre occasioni anche recenti, uno spazio stereotipato costruito con una tecnologia “alla moda”. 

Lo spazio che il collettivo Canya viva ha realizzato dopo aver animato un seminario, come le cattedrali, è nato come un’opera d’arte collettiva. Non come uno di quelli dove il neo liberismo vuole costringerci a vivere nelle nostre disumane città. In questo luogo si sperimenta un metodo che tende ad esaltare attraverso la creatività umana quella della natura.  

Quest’architettura, deve continuare la propria vita sul Monte Peglia. Ha conquistato questo diritto perché è stata capace di rappresentarsi come organismo vivo, là dove lo sfruttamento, l’abbandono, il disinteresse avevano umiliato quel territorio costringendo i suoi abitanti ad abbandonarlo.

Quelle forcelle di bamboo e quegli archi le cui caratteristiche meccaniche, lo diciamo per i puristi del cemento, sono state testate in collaborazione con la Escuela Universitaria de Arquitectura Tecnica e Ingeneria de la Edificacion de la UPC (Università Politecnica de Catalunya), dicono molto di più.

Parlano del potere creativo della natura. A noi saperlo riportare al nostro abitare.

Ore 16,00 del 20 luglio. Monte Peglia: “Che la festa cominci”.

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