MONDO

Un altro anno di terrore per chi difende l’ambiente

Cifre impressionanti anche nel 2017 all’interno del Report annuale sugli attivisti impegnati a tutela del territorio uccisi in tutto il mondo. E le loro morti rimangono nell’impunità totale, con l’evidente complicità di governi e poteri multinazionali

E’ stato pubblicato anche quest’anno il rapporto congiunto del quotidiano britannico “The Guardian” e dell’Ong indipendente Global Witness inerente agli omicidi di attivisti difensori dell’ambiente in tutto il mondo durante l’anno appena concluso, il 2017.

Per la prima, volta dopo molti anni di preoccupanti crescite, il numero totale è rimasto analogo quello del 2016, ma al tempo stesso si parla sempre di cifre elevatissime che chiamano in causa l’intera società civile internazionale.

In totale sono stati assassinati 197 difensori della terra, quattro ogni settimana. Gli omicidi sono quasi sempre compiuti da gruppi paramilitari o da sicari al soldo delle imprese multinazionali o dei governi locali.

Gli attivisti uccisi anche quest’anno provengono interamente da luoghi del Sud del mondo, con l’America Latina al primo posto tra i continenti. Le loro morti sono diretta conseguenza al loro impegno per la tutela della terra, in particolar modo contro progetti minerari ed estrattivisti. Quest’anno in misura maggiore rispetto ai precedenti report, sono attivisti impegnati contro agricoltura industriale estensiva: soia e olio di palma.

In Sudamerica al primo posto vi è il Brasile, dove chi lotta per proteggere la foresta amazzonica, spesso popolazioni indigene con pochi strumenti di difesa, è stato oggetto di una quantità impressionante di omicidi, 46.

In seconda battuta, come ci si poteva immaginare, troviamo la Colombia post-conflitto. La ragione è facile da comprendere, poiché lo stato è arrivato ad accordi con le FARC, le multinazionali estrattiviste si sono potute spingere in zone inesplorate e incontaminate, fino a poco prima difese dalla guerriglia, come ha spiegato recentemente una attivista ambientale intervistata da DINAMO. Davanti alla resistenza della popolazione colombiana alle mire agroindustriali delle imprese, la violenza paramilitare si è imposta con un saldo finale di 32 morti.

Altro caso rilevante è il Messico che in un anno passa dal quattordicesimo posto al quarto con 15 morti. In questo caso sono chiaramente responsabili le numerose leggi emanate negli ultimi 3 anni dal presidente, Enrique Pena Nieto, finalizzate a liberalizzare lo sfruttamento delle risorse minerarie, agricole ed energetiche del paese da parte del capitale straniero, come ha spiegato a DINAMO una attivista messicana lo scorso ottobre. Anche in questo paese, come in Colombia, il crescente saccheggio di territori rurali ha determinato conflitti e resistenza da parte della popolazione locale, con conseguente crescita di violenza e omicidi.

Al di fuori del Sudamerica un caso particolarmente grave è quello delle Filippine, dove l’inasprimento della dittatura di Duterte è stato un fattore determinante che spiega l’impressionante numero di 41 morti. Lo scorso dicembre 116 organizzazioni di 25 paesi differenti si sono unite in un appello congiunto per chiedere al governo Duterte di fermare la repressione feroce contro chi difende l’ambiente nell’arcipelago del Sud est asiatico.

In Africa centrale invece, la maggior parte di morti sono attivisti impegnati contro la caccia di frodo, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo.

Va ricordato che il report annuale di Global Witness si focalizza sugli omicidi, che di solito sono però la punta dell’iceberg di una situazione drammaticamente più ampia e generalizzata. Infatti prima di arrivare all’omicidio vi sono una ampia serie di pratiche quali minacce indirette e dirette, persecuzione, violenza privata, arresti basati su prove fabbricate, torture, violenza nei confronti dei beni e delle terre dei difensori. Pertanto dietro ai 197 difensori che sono stati assassinati ce ne sono migliaia che stanno ancora lottando ma che subiscono vessazioni e violenze al limite del sopportabile. Dietro ai 197 uccisi, ce ne sono molti che hanno dovuto interrompere il loro lavoro a difesa dell’ambiente o sono dovuti fuggire per avere salva la vita.

La quasi totalità delle morti rimane nell’impunità più totale, a causa di sistemi giudiziari profondamente corrotti e collusi con il potere in loco delle multinazionali.

La curatrice del report per Global Witness, Rachel Cox, dice che «finché le imprese, gli investitori e i governi non includeranno in modo vero e genuino le comunità in tutte le decisioni riguardanti l’uso della loro terra e delle loro risorse naturali, gli attivisti che hanno il coraggio di denunciare continueranno ad affrontare violenza, arresti fino perdita della vita».

È forse utile ricordare il nostro ruolo in questo sistema. L’avidità di risorse che spinge le multinazionali ad aumentare i propri profitti sfruttando le terre del Sud del mondo, anche utilizzando la violenza paramilitare, è figlia del consumo che caratterizza le nostre società a capitalismo avanzato. Siamo noi che consumiamo l’olio di palma, il carbone, il petrolio che vengono prodotti saccheggiando quei luoghi. Il sistema in cui viviamo richiede di inseguire ciecamente il paradigma della crescita e, per crescere, è necessario trovare altre risorse, spingersi in ulteriori aree inesplorate, produrre quantità maggiori, senza ascoltare esigenze e bisogni di chi vive quei luoghi.

Siamo proprio noi, cittadini di paesi industrializzati, quelli che con il proprio consumo determinano questa violenza e questo sistema. Proprio per questa ragione dovemmo sentirci chiamati in causa e provare ad agire. Non solo è necessario criticare le multinazionali coinvolte, che spesso hanno la sede principale in Occidente (anche in Italia), ma dovremmo continuare lavorare per costruire alternative al capitalismo consumista nel nostro stile di vita quotidiano.