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MONDO

Trump in Medio Oriente: una storia di grandi vincitori e di perdenti ancora più grandi

L’imprevedibile comportamento e la predilezione per i dittatori del presidente uscente lasciano la regione in uno stato peggiore di quando è salito al potere

Domenica 21 maggio 2017, quattro mesi dopo che fu eletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump entrò in una stanza buia del Centro Globale per il Contrasto all’Ideologia Estremista, a Riyadh, in Arabia Saudita. Lì, insieme alla moglie Melania che osservava, Trump, in piedi accanto al suo ospite, il re Salman, e il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, mise le mani su una sfera luminosa montata su un piedistallo, e guardò i giornalisti presenti.

La foto di questo momento, twittata dall’ambasciata saudita negli Stati Uniti, ha colpito l’immaginario globale. Il nuovo leader di quello che era ancora il paese più potente del mondo, in una stanza piena di computer, circondato dall’oscurità e accompagnato da due uomini forti del Medio Oriente, sembravano trarre una sorta di malefico potere da un misterioso sferoide. Inaugurando questo centro per «combattere l’ideologia estremista», il nuovo presidente ha dichiarato solennemente che «i paesi a maggioranza islamica devono prendere l’iniziativa nella lotta alla radicalizzazione», espriemendo la sua «gratitudine al re Salman per questa forte dimostrazione di leadership».

Due ossessioni di Trump si nascondevano dietro questa affermazione: la convinzione che, come disse nel marzo 2016, «l’Islam ci odia» e la convinzione che fosse giunto il momento che gli alleati americani facessero il lavoro che avevano precedentemente affidato agli Stati Uniti.

Sul piano nazionale, la natura islamofobica della sua amministrazione ha trovato conferma durante la prima settimana in carica di Trump, con la firma dell’Ordine Esecutivo 13769, comunemente noto come il “divieto musulmano”, che sospendeva l’ingresso negli Stati Uniti da molti paesi a maggioranza islamica. Nel novembre 2015, prima di diventare presidente, Trump aveva affermato che avrebbe «sicuramente creato» una banca dati per monitorare i musulmani negli Stati Uniti, e si era mostrato in accordo con un sostenitore che durante un comizio del 2015 nel New Hampshire gli aveva detto, «Abbiamo un problema in questo paese: si chiamano musulmani». A Riyad, si scoprì che la sfera luminosa era solo un mappamondo traslucido, nient’altro che un oggetto di scena. Ma questo era stato il primo viaggio all’estero di Trump; ogni cosa era carica di simbolismo.

Dall’Arabia Saudita, in seguito si recò in Israele, dove scese dall’aereo camminando su un tappeto rosso. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu gli strinse il braccio e ripeté la frase: «Benvenuto mio caro amico». Trump in seguito visitò il Muro Occidentale, divenendo il primo presidente in carica degli Stati Uniti ad averlo fatto. A una conferenza stampa disse che era ora che l’Iran smettesse di «mortalmente finanziare terroristi e milizie». Questi episodi si sono rivelati significativi. Vale la pena ricordarli ora che Trump verrà sostituito come presidente da Joe Biden, il suo avversario democratico.

 

 

Trump e i legami che vincolano

A oggi, è improbabile che questa transizione avvenga senza intoppi. Il Congresso verrà controllato dai Democratici, mentre il Senato probabilmente sarà tenuto dai Repubblicani. La prossima amministrazione statunitense potrebbe non avere molto margine di manovra. Trump, e il trumpismo, non hanno subìto la disfatta che molti liberali speravano. Sia l’uomo che l’ideologia sono destinati a rimanere, con le profonde divisioni che gli Stati Uniti devono affrontare a livello nazionale e che influiscono sulla loro discontinua performance all’estero.

Le posizioni di politica estera assunte dalla Casa Bianca negli ultimi quattro anni potrebbero non essere così facili da cambiare. Va inoltre sottolineato che Biden, l’incarnazione di un establishment democratico che ha considerato il cambiamento sistemico offerto da Bernie Sanders tanto pericoloso quanto Trump, potrebbe non avere alcun reale desiderio di cambiarle.

Queste posizioni sono state ferree quando si è trattato di Arabia Saudita e Israele. Durante il mandato di Trump questi due alleati, già generosamente assistiti da Washington, hanno ricevuto più sostegno diplomatico e politico dagli Stati Uniti che da qualsiasi altro stato. Supporto affiancato dalla difesa personale di Netanyahu e di Mohammed bin Salman, l’autoproclamato principe ereditario modernista dell’Arabia Saudita, che è stato implicato in a una serie di violazioni dei diritti umani, tra cui l’uccisione del giornalista Jamal Khashoggi.

Il supporto è stato reciproco e se qualcosa ha definito una politica estera americana apparentemente incostante sotto questo presidente, è la predilezione commerciale di Trump per gli uomini potenti con cui poter fare affari; leader e nazioni il cui insaziabile interesse personale rende possibile stringere un accordo.

Più significativo è il fatto che il presidente sia stato preso per un burattino o un idiota utile da diversi consiglieri di politica estera, le cui opinioni erano state precedentemente considerate estreme anche per gli standard di Washington, un leader spesso guidato da chi gli parla a voce alta all’orecchio. Trump si è regolarmente stancato di questi consiglieri (o loro si sono stancati di lui). Lasciavano la Casa Bianca per scrivere un libro su quanto fosse idiota il loro capo, rifacendosi una reputazione.

L’ostilità nei confronti dell’Iran, l’aggressiva difesa di Israele, un interesse selettivo per la democrazia e una predilezione per i sovrani assoluti con cui fare affari sono sempre state caratteristiche della politica estera statunitense. Ma come è accaduto spesso durante la presidenza Trump, queste caratteristiche hanno assunto forme ancora più gravi, con le solite vittime (palestinesi, persone di sinistra, sostenitori della democrazia, musulmani) in una posizione di gran lunga peggiore alla fine del suo mandato rispetto a quattro anni fa.

 

Il percorso di Trump verso la Casa Bianca

Per decenni prima di diventare presidente, Trump è stato un uomo famoso a cui piaceva il suono della propria voce. A ciò si aggiungeva il tipo di notorietà che aveva, per cui spesso gli veniva chiesto se si sarebbe candidato alla presidenza, e le sue opinioni su questa o quella politica. Si può dire che prima di diventare presidente degli Stati Uniti nel 2017, questo figlio di un milionario del settore immobiliare di New York, che passava più tempo possibile davanti alle telecamere, non aveva mai riflettuto molto sulla questione della pace in Medio Oriente.

Ma è anche vero che era un uomo con una serie di impressioni e pregiudizi molto definiti, che vedeva la vita come una lotta per la supremazia e che più di ogni altra cosa valorizzava l’arte della trattativa. Quando si parlava del mondo in generale, un’idea ricorrente menzionata pià volte da Trump durante i suoi decenni come celebrità del settore immobiliare e star televisiva, era che i paesi che godevano di una qualche forma di protezione militare da parte degli Stati Uniti, non stavano facendo la loro parte, che erano sanguisughe e che i leader politici americani venivano presi per fessi.

Tema che è stato ripreso durante la sua campagna elettorale per diventare presidente e che è stato esplicitato soprattutto nella sua posizione nei confronti della NATO, i cui colleghi membri ritiene siano sovvenzionati dagli Stati Uniti.

Nel settembre 1987, Trump pubblicò annunci a tutta pagina, titolati “lettera aperta da Donald J Trump”, in diversi principali giornali americani. «Fate pagare il Giappone, l’Arabia Saudita e gli altri per la protezione che estendiamo come alleati», diceva l’inserzione, che era costata a Trump 94,801 dollari. Nelle interviste televisive, aggiunse il Kuwait alla lista. Trump esortò gli Stati Uniti a «tassare queste nazioni ricche», alleggerendosi del «costo sostenuto per difendere coloro che possono benissimo permettersi di pagarci per la tutela della loro libertà». Trump è noto per essere ipersensibile. La lettera aperta si concludeva così: «Non lasciamo che il nostro grande paese venga deriso».

 

 

Arabia Saudita: questioni economiche

Quando Donald J Trump intraprese la campagna per le presidenziali nel 2015, la sua posizione sull’Arabia Saudita sembrò cambiare. Mentre paesi come la Germania e altri membri dell’Alleanza Nord-Atlantica erano ancora considerati dei parassiti, il regno del Golfo era un pozzo profondo da cui attingere. In uno dei comizi nel 2015 disse «L’Arabia Saudita, e vado molto d’accordo con tutti loro, compra appartamenti da me. Spendono 40 milioni di dollari, 50 milioni di dollari. Dovrei disprezzarli? Mi piacciono molto».

In sostanza, questo approccio all’Arabia Saudita è cambiato ben poco una volta che Trump è diventato presidente. In quel primo viaggio all’estero come leader degli Stati Uniti, lui e la sua famiglia furono entusiasti di essere portati in giro su golf cart dorati, e di partecipare a una festa da 75 milioni di dollari organizzata in suo onore, con tanto di un trono su cui sedersi. Per un uomo la cui residenza principale a Manhattan è un palazzo di bronzo e chintz, situato in una torre che porta il suo nome, nel Golfo Trump si sentiva a casa. Insieme a suo genero e consigliere Jared Kushner, che andava d’accordo con Mohammed bin Salman, nominato principe ereditario nel giugno 2017 e leader de facto del regno, Trump puntò tutto su un’alleanza che era diventata sempre più debole a partire dall’inizio del ventunesimo secolo.

 

Barack Obama, predecessore di Trump, aveva detto ai sauditi di smettere di esagerare con le “minacce esterne” e aveva firmato l’accordo nucleare con l’Iran. Trump si è ritirato dall’accordo nel maggio 2018.

 

Influenzato da una serie di consiglieri violentemente anti-iraniani, da Michael Flynn a Jim Mattis (che secondo quanto riportato parlò di «idioti mullah straccioni» che governavano la Repubblica Islamica), da Mike Pompeo a John Bolton, che aveva fatto del cambio del regime in Iran lo scopo della propria vita, Trump ha esagerato la minaccia rappresentata da Teheran, imponendo sanzioni paralizzanti, inviando truppe nel Golfo Persico e ordinando, nel gennaio 2020, l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani.

L’uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi nell’ottobre 2018, che la CIA successivamente collegò a bin Salman, provocò un’indignazione bipartisan a Washington. Trump venne invitato a intervenire contro il principe ereditario ma nessun provvedimento fu preso. «Gli ho salvato il culo – disse il presidente del MBS nel gennaio 2020, secondo Bob Woodward – Sono stato in grado di convincere il Congresso a lasciarlo in pace. Sono riuscito a fermarli».

Mentre a Trump, e in particolare a Kushner, senza dubbio piaceva la MBS, la vera ragione del loro sostegno erano il denaro e la prospettiva commerciale che il presidente aveva del mondo. Il principe ereditario saudita aveva promesso investimenti e più fondi per le armi americane. Nel marzo 2018, cinque mesi prima dell’omicidio di Khashoggi, bin Salman sedeva accanto a Trump nello Studio Ovale mentre il presidente mostrava un grafico che riportava “accordi per 12,5 miliardi di vendite all’Arabia Saudita”, illustrato da immagini di armi statunitensi comprate dal regno.

In una conferenza stampa in Giappone nel giugno 2019, otto mesi dopo l’uccisione del giornalista saudita, Trump si riferì a bin Salman come a «un suo grande amico», un uomo che aveva «fatto grandi cose negli ultimi cinque anni in termini di apertura dell’Arabia Saudita… specialmente per le donne». Quello che stava accadendo nel regno del Golfo era, a detta di Trump, «come una rivoluzione in senso molto positivo». Interrogato più volte su Khashoggi, Trump tagliò corto. Qualche mese prima, nell’aprile 2019, Trump si era opposto a una risoluzione bipartisan per porre fine al coinvolgimento militare americano nella guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen.

 

Mahmoud Illean

 

Israele: sempre più a destra

Il sostegno del presidente alla destra israeliana guidata da Netanyahu è stato più estremo di quello per l’Arabia Saudita. Sulla scia della campagna elettorale del marzo 2016, Trump disse alla CNN che era «molto pro-Israele», vantandosi delle donazioni che aveva fatto al paese e dei riconoscimenti che aveva ricevuto. I suoi interessi economici in Israele prima di diventare presidente sembravano limitarsi a una Trump Tower mai realizzata e a una marca di vodka piuttosto popolare tra la comunità ultraortodossa a Pesach ritenuta imbevibile da quasi tutti gli altri.

Per quanto riguarda i palestinesi, Trump affermò che gli «sarebbe piaciuto essere neutrale», ma ciò risultava difficile dal momento che infliggevano troppo terrore. «Devono smetterla con il terrore perché quello che stanno facendo con i missili e gli accoltellamenti e con tutte le altre cose che fanno, è orribile e deve finire», disse nel marzo 2016, rinnovando una posizione non poco comune tra molti americani, secondo cui i palestinesi sono definiti dal loro “terrorismo”. Vale la pena notare che, in questa fase iniziale, secondo molti commentatori americani neanche questo tipo di retorica era sufficientemente pro-Israele. Tra questi c’era un opinionista della CNN che notava il «linguaggio insolitamente oggettivo su Israele» di Trump e sottolineava che a quel tempo, il candidato repubblicano aveva «evitato una domanda sulla possibilità di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme».

Il vento soffiava in una sola direzione. Sheldon Adelson, un convinto sionista il cui grande sogno era di vedere l’ambasciata trasferita a Gerusalemme, alla fine investì decine di milioni di dollari nella campagna di Trump del 2016 (e ne investì ancora di più in quella del 2020). Fu subito chiaro che il candidato repubblicano avrebbe verosimilmente preso una posizione fortemente pro-israeliana qualora fosse diventato presidente. Da sempre un uomo confortato dalla presenza di volti familiari, la politica di Trump in Medio Oriente fu definita dal genero Jared Kushner e da due ex dipendenti della Trump Organization: l’avvocato fallimentare David Friedman e l’avvocato immobiliare Jason Greenblatt.

 

Friedman, che divenne l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, è stato un sostenitore e finanziatore di insediamenti illegali su terre palestinesi occupate.

 

Figlio di un rabbino conservatore, ha contribuito a raccogliere ogni anno circa 2 milioni di dollari in donazioni deducibili fiscalmente dai sostenitori del movimento di insediamento, compresa la famiglia Kushner, attraverso un’organizzazione chiamata American Friends of Bet El Institutions.

Greenblatt, che dal 1997aveva lavorato per Trump, venne catapultato nel ruolo di delegato speciale per i negoziati internazionali, diventando uno dei principali architetti del piano di pace in Medio Oriente di Trump, il cosiddetto “negoziato del secolo”, respinto all’unanimità dai palestinesi. Fautore degli insediamenti illegali nella Cisgiordania, Greenblatt nel novembre 2016 dichiarò che non erano «un ostacolo alla pace», e che preferiva venissero indicati come «quartieri». Con Kushner amico di famiglia di Netanyahu, le probabilità erano tutte a sfavore dei palestinesi: un documento dell’amministrazione Trump del 2017 dichiarava che «Israele non è la causa dei problemi della regione [e che] i gruppi terroristici jihadisti» erano l’unico ostacolo alla pace.

Nell’ottobre 2019, Trump estese i suoi regolari attacchi alla deputata somala Ilhan Omar, una «socialista che odia l’America», durante una chiacchierata presso la comunità somala nel Minnesota, raccontando a un comizio che avrebbe «dato alle comunità locali una maggiore voce in capitolo nella politica dei rifugiati e attuato maggiori indagini e controlli sull’immigrazione». Nel marzo 2019, un uomo armato che aveva citato Trump come «un simbolo di rinnovata identità bianca in grado di rappresentare un obiettivo comune» uccise 51 persone nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda.

 

Il documento di sicurezza nazionale del 2017 fu seguito da una serie di mosse a sostegno di Netanyahu e della destra nazionalista di Israele. Nel febbraio dello stesso anno, gli Stati Uniti abbandonarono il loro impegno storico per una soluzione bilaterale dopo che Trump incontrò Netanyahu. Nel dicembre 2017, Washington annunciò che avrebbe spostato la sua ambasciata in Israele a Gerusalemme.

 

Quando ci fu il trasferimento nel maggio 2018, Adelson, che si era offerto di finanziarlo, pianse lacrime di gioia: in quello stesso giorno, più di 60 palestinesi vennero uccisi dalle forze israeliane (alcuni morirono in seguito alle ferite riportate) mentre protestavano il loro diritto di tornare a quelle che una volta erano le loro case. Questo avveniva quattro mesi dopo che la Casa Bianca di Trump aveva annunciato che avrebbe dimezzato i suoi finanziamenti previsti per l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. Prima della fine dell’anno, anche il resto del finanziamento venne tagliato, in quanto gli Stati Uniti dichiararono l’agenzia di sviluppo «un’operazione irrimediabilmente difettosa».

 

 

Il periodo peggiore mai attraversato dal Medio Oriente

Quando venne pubblicato nel gennaio 2020, il piano di pace di Trump per il Medio Oriente risultò peggiore di quanto i suoi detrattori avessero temuto. Accettava le richieste israeliane di annettere la valle del Giordano e gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania occupata. Chiedeva che Gerusalemme diventasse la capitale indivisa di Israele. Affermava che uno Stato palestinese poteva realizzarsi solo nel momento in cui la leadership palestinese avesse definitivamente accettato i nuovi confini di Israele, si fosse del tutto arresa, avesse rimosso Hamas a Gaza e avesse accettato la supervisione della sicurezza israeliana in tutti i suoi territori fino a un momento futuro in cui sarebbe stata possibile una sua revoca. Conteneva molto altro, e nessuna concessione per i palestinesi, i quali respinsero l’accordo all’unanimità.

Questo piano di pace fu poi seguito da accordi di normalizzazione tra Israele e gli Emirati, e tra Israele e Bahrein. La rivoluzione del Sudan, paralizzato dalle sanzioni statunitensi da anni, fu ricompensata con una pistola puntata alla tempia: firmare un accordo di normalizzazione con Israele o rimanere sulla lista dei terroristi statunitensi. Scelsero la prima, una soluzione rivendicata da Trump e Kushner. Altre nazioni arabe potrebbero benissimo seguire: Kushner si è vantato di come lui e suo suocero siano stati in grado di spezzare la solidarietà decennale tra queste nazioni nei confronti della Palestina.

 

Una volta non c’era pace con l’Israele che non prevedesse un po’ di giustizia per la Palestina. Questo accordo è stato spazzato via da un nuovo ordine regionale capeggiato da Netanyahu e dai regni del Golfo dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, da dove il principe ereditario Mohammed bin Zayed esercita una notevole influenza sia su Trump che su Mohammed bin Salman.

 

In Egitto, il presidente Abdel Fattah el-Sisi, un altro uomo potente, è stato definito un “killer” da Trump. Questa parola è usata dal presidente sia in senso letterale che per indicare un senso per gli affari: gli agguerriti affaristi sono, nel linguaggio del presidente, “killer”. Sisi corrisponde a entrambi i requisiti ed è stato anche indicato da Trump come il suo «dittatore preferito».

Più recentemente, il presidente degli Stati Uniti ha suggerito che l’Egitto avrebbe potuto «far esplodere» la diga Rinascita del Nilo, costruita in Etiopia, che sta causando enormi tensioni tra i due grandi alleati africani degli Stati Uniti. Mentre Obama aveva tacitamente rimosso il sostegno all’egiziano Hosni Mubarak, Trump ha attivamente sostenuto Sisi, i cui spaventosi precedenti in materia di diritti umani sono stati pressoché ignorati. Altrove, nel Medio Oriente e Nord Africa, è stato interessante per quelli di noi che si stavano occupando della campagna del magnate immobiliare prima della nomina Repubblicana, poi della presidenza, prendere nota di ciò che ha fatto una volta in carica.

Nel 2016, la comunità di osservatori di politica estera era ossessionata dal presunto isolazionismo di Trump. Comizio dopo comizio, Trump affermava di essersi opposto alla guerra in Iraq – in realtà, l’ha fatto esplicitamente solo un anno dopo l’invasione – e diceva di voler riportare a casa le truppe statunitensi. Mentre si può riconoscere che Trump si è sforzato di mantenere quelle promesse, ritirando migliaia di truppe dall’Afghanistan, dall’Iraq e dalla Siria, altre migliaia rimangono ancora sul campo.

 

Le morti civili sono salite alle stelle. Gli attacchi dei droni degli Stati Uniti, che si erano intensificati sotto Obama, sono ulteriormente aumentati sotto Trump. Nel marzo 2019, il presidente repubblicano ha revocato una misura, introdotta dal suo predecessore, che richiedeva ai funzionari dell’intelligence di pubblicare il numero di civili uccisi dagli attacchi dei droni fuori dalle zone di guerra.

 

Negli ultimi quattro anni, Washington ha ceduto il controllo geopolitico in alcune parti della Siria alla Russia. L’influenza dell’Iran in Iraq è cresciuta a sue spese. Ma la posizione di Trump,per quanto incostante, è stata tutt’altro che isolazionista.

Le truppe statunitensi rimangono nella Siria nordorientale, dove continua l’impegno militare contro il gruppo dello Stato Islamico (Isis), il cui leader, Abu Bakr al-Baghdadi, è stato ucciso dagli Stati Uniti nell’ottobre 2019, una grande vittoria per Trump. È improbabile che Washington abbandoni presto la sua base ad al-Tanf nel governatorato di Homs, per quanto inutile possa essere.

Le sanzioni statunitensi contro la Siria sembrano ferire la sua popolazione molto più del suo governante, Bashar al-Assad, e dei suoi amichetti. L’interruzione del sostegno militare degli Stati Uniti ai loro alleati curdi, a lungo paventata dall’Amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria, zona nota anche come Rojava, è stato comunque un enorme tradimento, sebbene il coinvolgimento americano sia sempre stato visto dalla maggior parte dei cittadini come egoista e di corto respiro. Nell’aprile del 2017, Trump rispose a un attacco con armi chimiche da parte del governo siriano con un attacco aereo, che ordinò subito dopo essersi seduto a cena con il presidente cinese Xi Jinping nella sua villa a Mar-a-Lago, in Florida. Il presidente degli Stati Uniti avrebbe ordinato l’attacco dopo che sua figlia Ivanka gli aveva mostrato foto di bambini siriani colpiti dal raid chimico, una scena che Steve Bannon ha descritto come «disgustosa».

Trump, forse, reagì emotivamente, ma quella fu anche una dimostrazione di forza nei confronti di Xi: la Cina da allora ha preso il posto dell’Unione Sovietica in una nuova Guerra Fredda preparata dalla Casa Bianca.

 

Il tempo di Donald Trump come presidente volge al termine con i peggiori tratti americani di un’egemonia globale inaspriti e con alcuni dei suoi migliori tratti più o meno accantonati. Trump ha affrontato la questione di Israele e della Palestina con un entusiasmo disordinato tipico dell’imprenditore pacchiano qual è, dando vita al più buio degli incubi palestinesi.

 

Poco interessato a lavorare, ma interessato a essere lusingato e coccolato, sprezzante di opinioni sostenute sinceramente, ma alla mercé di potere e il denaro, Trump ha mostrato al mondo il lato peggiore dell’America: un luogo di ingiustizia disperata, governato da pochi ricchi. Avvicinando gli Stati Uniti alla guerra con l’Iran, umiliando i palestinesi, non avendo un piano coerente in Siria o in Iraq e sostenendo gli autocrati assassini nel Golfo e nel Nord Africa, questo presidente degli Stati Uniti e la sua amministrazione lascia l’intera regione in condizioni difficilissime.

 

Articolo pubblicato originariamente in inglese su MiddleEastEye. Traduzione in italiano di Giulia Musumeci per DINAMOpress.

Immagine di copertina: Ted Eytan (Licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0)