approfondimenti

ROMA

Termini e la marcia dei “senzatutto”. Chi fa la città?

A Roma il rifacimento della galleria che collega via Marsala con via Giovanni Giolitti serve a impedire alle persone di dormire per strada. Il Comune di Roma fa la guerra ai poveri e finanzia la privatizzazione della stazione Termini. Un racconto dal quartiere di San Lorenzo

Ho abitato in via di Porta San Lorenzo per sedici anni. A sinistra le mura della stazione Termini, a destra le mura aureliane. Al numero quattro c’è un piccolo cancello che nessuno trova mai perché non sembra l’entrata di qualcosa, somiglia piuttosto a un anfratto, una piccola grotta, forse uno scantinato. Bisogna alzare lo sguardo per vedere che sopra-dentro le mura aureliane si erge una villa – l’abbiamo sempre definita illustre esempio di abuso edilizio del settecento. L’atmosfera dentro ricorda il film Fantasmi a Roma: il film preferito di mia sorella, che trovò l’appartamento e mi chiese di andarci a vivere con lei. Avevamo venticinque anni, credo. Io le dissi tu sei pazza, ma come ti viene in mente, non c’era un mobile, neanche uno, non c’era il riscaldamento, le finestre non si chiudevano, le mattonelle ballavano quando ci si camminava sopra. Eravamo povere, come avremmo fatto, scordatelo, le dissi. Poi sono trascorsi sedici anni, a un certo punto lei andò via, io rimasi.

Le mie finestre affacciavano sulla strada parallela a quella in cui c’è l’entrata, sul retro, se vogliamo. Il palazzo segna il confine tra due municipi, dunque io affacciavo sul secondo, ma l’ingresso si trova nel primo.

Essendo estrema periferia del primo municipio e limite esterno del quartiere di San Lorenzo, di fatto abitavamo in una terra di nessuno, ignorati sia dal primo municipio che dal secondo. La posta arrivava come nei western, una volta al mese, l’AMA passava ogni tanto ma solo se li chiamavamo. Lungo la strada non ci sono negozi, uffici, vetrine, i lampioni sono tutti diversi tra loro, pare li abbiamo aggiustati con gli scarti, le rimanenze dei magazzini. Gli altri numeri sono misteriosi – cosa c’è in Via di Porta San Lorenzo 1 io non l’ho mai capito. A ogni modo, in questo passaggio-mondo liminale, confuso e un po’ invisibile – la strada è luogo di passaggio e chi passa non vede quello che c’è, e se lo cerca non lo trova – gli altri numeri corrispondono a: la Caritas Diocesana; il centro di ascolto italiani (un guaio ogni volta che bisognava spiegare agli stranieri che il loro centro di ascolto si trova in pieno centro in via delle Zoccolette); un Help Center, sportello di ascolto, orientamento e assistenza sociale. Questo è situato nel «Termini Social Corner», un nome davvero trendy per un’attività che in italiano suona così: «intercettare e orientare le marginalità gravi presenti nel territorio della Stazione Termini e nei suoi dintorni».

In questo luogo marginale le marginalità sono gravi. Quasi tutte. In sedici anni ho osservato la trasformazione, anno dopo anno – freddo dopo freddo. Quando sono arrivata c’era Maria, sedeva sotto le mie finestre e parlava al telefono con Dio. Le suore che abitavano su quella strada le portavano tanta frutta – Maria era obesa e mangiava male. Un giorno il mio compagno che lavorava di notte si affacciò e le disse Maria ti prego io devo dormire, prova ad abbassare la voce! Diventarono amici. Lui la chiamava dalla finestra: Maria! Lei alzava lo sguardo sorridente. Capimmo che nella sua vita c’era stata la camorra, alcuni figli morti e c’era Dio, sempre al telefono.

Poi c’era Leo, che abitava dall’altra parte, in via di Porta San Lorenzo. Era sdentato e sempre sorridente, anziano, piccolino. Era molto curato, sempre in ordine. Mi chiedeva di tanto in tanto di tagliargli i capelli, dietro lui non ci arrivava.

Quando comparve il signore davanti la Caritas che per cinque euro o meno taglia i capelli a chiunque, dissi a Leo, perché non vai da lui? Io da quelli non ci vado, mi rispose. Quelli erano le persone che sostavano sul marciapiede, alcuni in fila, altri semplicemente a osservare. A Leo piaceva stare da solo. Un giorno la mia vicina gli regalò un cappotto bellissimo. Lui se lo provò, gli stava davvero bene. Poi alzò lo sguardo e disse mi piace molto, ma se posso, se posso chiedere, lo preferirei verde, crede sia possibile? La mia vicina scoppiò a ridere, lui si tenne il cappotto e io imparai che non perché non si possiede nulla si perde il diritto al piacere, a scegliere, a preferire, a volere una cosa anziché un’altra. (In verità la prima cosa che imparai è che due sono le cose che non mancano mai e sono cibo e vestiti. Che l’idea che ci facciamo della povertà nelle città è sbagliata. Che quello che manca è tutto il resto).

Per farla breve – dovrei nominare una a una le persone che ho conosciuto e con cui ho stretto amicizia – il disagio mentale è cambiato. La città è cambiata. La sofferenza si è aggravata. Le persone che dormivano per lunghi periodi sotto le mie finestre hanno smesso di chiacchierare. Alcune hanno urlato. Altre hanno lanciato oggetti. Una cosa, tuttavia, non è mai successa: non mi sono mai sentita in pericolo. Neanche quando, tanti anni fa, facevo la cameriera e tornavo a casa a piedi alle quattro di notte. Per sedici anni ho camminato nelle strade da sola anche di notte. Che non vuol dire che non ci siano situazioni pesanti da sopportare e difficili da gestire. Ma questo non ha nulla a che vedere con la sicurezza. Una strada abitata è quasi sempre più sicura di una strada deserta. Perché le persone che non hanno una casa hanno la città e spesso la curano. La abbelliscono – penso alla tenda attorno a cui c’erano piante, tante, fiori, un vero giardino. La accudiscono: spazzano, sistemano, lavano, buttano, smistano, organizzano. (Se c’è una cosa che manca a chi non ha una casa è un posto dove lasciare le cose di giorno, i documenti, soprattutto. La casa diventa un guscio e loro delle tartarughe, immagina doverti portare appresso tutto quello che hai ogni volta che ti sposti).

Flashmob contro l’architettura ostile organizzato il 29 ottobre 2022 da Mama Termini e Termini.tv con la partecipazione di Casetta Rossa, Baobab, il collettivo Stalker, Sveja podcast

Le guerre dell’acqua

La geografia invisibile a chi usa la città solo per spostarsi, non per dormirci, è fatta di angoli-risorse. È un ambiente, è un reticolo di luoghi e di relazioni, non facilmente distinguibili. Per anni, ogni volta che incontravo un fotografo gli raccontavo la mia idea, secondo me geniale, puntualmente ignorata, di reportage – io non potrei mai, le mie capacità fotografiche si limitano a fare in modo che nella foto ci sia anche la testa della persona che sto fotografando. Il reportage dovrebbe consistere in questo: d’estate piazzarsi con uno sgabello davanti la fontanella di piazzale Tiburtino e aspettare. Io la fontanella la frequentavo perché a un certo punto qualcuno nel mio palazzo decise che la nostra acqua non era sicura, così cominciammo ad andare in piccole processioni con i bottiglioni da cinque litri alla fontanella. Dietro alla fontanella c’è un bar che chiamavano semplicemente “dei cinesi”, anche se non ci ho mai visto uomini cinesi, solo donne, sempre sorridenti e gentili.

Le persone che frequentano il bar sono le persone che generalmente non verrebbero accolte in un bar, che probabilmente verrebbero mandate via. Io mi ero affezionata a quel luogo giovanissima, perché mia sorella già abitava a San Lorenzo prima che prendessimo la casa insieme e a vent’anni era l’unico bar che ci potevamo permettere.

Ci andavamo con le nostre amiche, ordinavamo delle bottiglie giganti di Peroni e ci sentivamo come regine – anche noi facevamo l’aperitivo. Alcuni anni più tardi ho scoperto, avendo studiato la questione, che è l’unico bar in tutta San Lorenzo ad avere il sole. Nel senso che gli altri bar hanno il sole, ma per poco tempo. Mi piace pensare che il bar con il sole è delle persone senza-casa, è degli svitati, degli ubriachi e dei cani randagi e delle ragazze povere. Essendo dunque abitato più che frequentato – come una città dovrebbe essere – questo bar occupa molto più spazio di quello che effettivamente occupano i suoi tavolini. Si allarga, si spande sul marciapiede, arriva fino alla fontanella. È un bar-territorio, i suoi confini sono incerti, o mobili. La mattina presto c’è generalmente un secchio che appartiene alla ragazza, anche lei cinese, che gestisce il negozio accanto al bar. Un fotografo che ci si piazzasse lì davanti, preferibilmente d’estate quando la vita all’aperto è ancora più intensa, osserverebbe le persone andare e venire, diversissime, da sole, insieme, organizzate, di passaggio, con bambini, o animali. Osserverebbe una varietà infinita di usi che si fa con l’acqua di questa fontanella e un’infinita varietà di attività. Lavare, asciugare, stendere, pulire, bere, strofinare, riempire.

È qui che è cominciata la guerra. Quando a Roma si è iniziato a chiudere alcune fontanelle d’estate, a San Lorenzo, per chi le fontane che ci sono le conosce, era chiaramente in atto una guerra. Perché alcune, non altre. Perché quelle che si trovano nei pressi delle abitazioni delle persone che non hanno una casa. Noi con i nostri boccioni da cinque litri abbiamo cominciato a usare la fontanella che si trova in Via dei Ramni, all’altezza di Piazza dei Siculi. Era poco più distante, ma l’acqua c’era, tanta. A un isolato, percorrendo Via dei Ramni in senso inverso e svoltando a destra si arriva in viale Pretoriano. La via è simile a via di Porta San Lorenzo, nel senso che non c’è nulla: c’è un prato e ci sono le mura aureliane. Sul prato di svolge una guerra che dura da anni: sul prato le persone ci dormono. Dal prato le persone vengono sgomberate. Sul prato vengono piantati fiori, cespugli – credo con l’aiuto dell’associazione Binario 95 che si trova in via Marsala.

Le persone tornano. Passandoci l’altro giorno ho notato dei sacchi per la spazzatura sistemati con cura accanto agli alberi. (Mi hanno ricordato di quando il mio vicino di casa che è falegname costruì dei contenitori per metterci dei sacchi neri dentro e li sistemò nella nostra via, sempre sporca, sempre piena di cartacce. Passò l’AMA e li portò via, dissero che gli unici cassonetti che ci potevano stare erano i loro. Lui gli disse ma non ci sono. Loro dissero non importa).

Per tornare alla fontanella in via dei Reti si capisce la sua importanza – la parola vitale non è in questo caso fuori luogo – data la sua vicinanza a questo centro abitativo che si stende e si stendeva sull’erba in una strada in cui non c’è niente. Un giorno arrivai con i miei bottiglioni. Era stata manomessa. Ma l’acqua sgorgava. Capii che anche qui era arrivata la guerra. La guerra durò tutta l’estate. Ogni giorno la fontanella era stata riaperta, fatta funzionare, poi richiusa, sigillata, poi riaperta. Con il trascorrere dei giorni la sua ingegneria si era complicata, qualcuno era stato dal ferramenta, la fontanella era una macchina da guerra, era indistruttibile, avevamo vinto, avevamo acqua. Chiuderla sarebbe stato impossibile. Quell’estate si arresero, andarci era una festa – c’era un’aria di complicità, gioiosa, si chiacchierava mentre si stava in fila, ci si lasciava passare avanti, qualcuno a un certo punto insistette a portarmi le bottiglie fino a sotto casa.

Le manifestanti si coprono il volto e marciano nella galleria, «in solidarietà con le persone senza dimora, invisibilizzate e trattate come non individui, senza volti, appunto. L’iniziativa ricorre nel giorno dell’ora legale, in cui ogni anno Termini.tv organizza una festa in strada per riappropriarsi simbolicamente dello spazio della stazione, in un tempo che non esiste»

Geografie invisibile

Questa geografia fatta di nulla – non c’è niente – e di vita, intensissima, la conosce chi l’ha vissuta. In fondo a via di Porta San Lorenzo c’è un piazzale in cui parcheggiano le macchine. C’è un cancello che porta alla stazione. Non c’è altro. C’era una volta un giornalaio, era molto simpatico. Ha chiuso. C’è stato per un periodo un signore che aveva un banchetto che vendeva le cose trovate. Ci ho comprato uno specchio e lui mi ha aiutata a portarlo. E anche qui – non essendoci niente – ci dormono delle persone. Regolarmente, una volta ogni sei mesi forse, arrivano. Sono le camionette, al buio, con le luci che fendono l’aria di blu, gli uomini della polizia accompagnati dall’AMA. Ogni volta che accadeva mi disperavo. Perché le persone non evaporano. Perché quello che succede quando sposti un gruppo di persone buttando le loro cose è che queste persone si riversano nelle strade vicine e a quel punto tutte le strade vicine cominciano a comportarsi come un’onda. Nessuno è più felice.

Ogni cosa è per aria. Tutto è sottosopra. Immagina la polizia entrare a casa tua, immagina la polizia che mette le mani nelle tue cose, immagina la polizia fare grandi mucchi con le tue cose al centro della stanza e poi voltarsi verso il collega dell’AMA e dire: vai. Una sera, esasperata, andai a parlare con la polizia.

Era la Celere, sembrava, in assetto antisommossa. Gli dissi vi prego state fermi cosa fate ma dove credete che vadano questo persone. L’agente mi guardò perplesso, allora io gli spiegai: l’unica cosa che otterrete facendo questo è che queste persone si sposteranno, e gli dissi dove sarebbero andate, quali altre strade avrebbero occupato – prima chiaramente di tornare qui. Lui era molto giovane: mi disse signora io queste cose non le so, non lo conosco il territorio, mi mandano da Firenze, io domani mattina neanche sarò a Roma. Voi queste cose infatti non le sapete. Voi non sapete niente.

E così, negli anni, abbiamo partecipato alla guerra. Non c’era altro da fare che partecipare alla guerra. Perché quando io chiamavo la Sala Operativa Sociale per qualcuno non c’era mai niente. Non c’è posto, non c’è nulla, è tutto pieno, mi dicevano. Cristosanto il freddo non è un’emergenza l’inverno arriva ogni anno io imprecavo. Poi un operatore mi diede il suo cellulare, mi disse così facciamo prima. Io lo chiamavo di tanto in tanto, sono io. E ancora, non c’è niente. Negli anni abbiamo dato via più coperte noi (il noi sono io e i miei vicini di casa) della Croce rossa. Di giorno camminando in giro c’era sempre qualcuno che le riconosceva queste coperte – non era tuo quel piumone? Abbiamo cucinato, regalato vestiti, siamo andati da Decathlon a comprare una tenda. (In realtà quella volta finì male perché poi lei si rifiutò di sistemarla dove le avevamo detto e si piazzò al centro del sito archeologico in via di Porta San Lorenzo in bella vista, tutta fiera della sua nuova tenda che le venne confiscata il giorno dopo). Nulla di questo era fatto con spirito caritatevole, per generosità, per non so quale disinteresse. Veniva fatto perché in realtà anche la situazioni in cui abitavamo noi aveva qualcosa di speciale, ovvero di bello e ingiusto allo stesso tempo. Era un abitare-insieme che si espandeva e si occupava della terra di nessuno in cui ci trovavamo. Perché è sempre vero che chi ha meno tende a dare di più, e le persone che non erano sicure di arrivare a fine mese erano le prime a scendere in strada con qualcosa per qualcuno. Perché si fa così. E così la casa-liminale era molto indecisa nei suoi confini, i suoi contorni, era una villa in un deserto che diventava vivo ogni volta che qualcuno si occupava di qualcosa.

L’altra faccia era un abitare faticoso, il dover fare tutto da sé. Nulla è scontato nelle terre di mezzo e così l’acqua era centrale, la spazzatura. La strada: una vicina un giorno arrivò a pagare qualcuno perché la pulisse, generando un dibattito infinito.

Con il passare degli anni le cose sono peggiorate. Ci siamo sentiti sopraffatti. Non c’era più Maria, non c’era più Leo. C’era Costanza, con gli occhi giganti e pieni di lacrime, che non capivamo se era incinta. C’era N., con la sua storia infinita. E a lieto fine. È tornato a casa. Ma è durato per circa due anni. Non si può fare niente: lo conoscevano tutti, i carabinieri, il pronto soccorso, i medici, le ambulanze, lo conosceva tutto il quartiere, si parlava di lui nelle chat, ci si chiedeva come stava. Il suo caso era impossibile e lui era in pericolo. Ha lavorato un quartiere intero a risolverlo. Un giorno il mio operatore di riferimento mi spiegò: lui è un caso difficilissimo perché uno, è psichiatrico, due, ha problemi di dipendenza, tre, è straniero. Esisteva un servizio ma non esiste più. Esisteva una struttura ma non esiste più. È “intersezionale”, pensai senza dirlo. Lui si trova nel punto di incrocio di una sorta di tutto. Non esistono servizi per persone che stanno male come lui. Non esiste una struttura in grado di aiutarlo perché lui ha più problemi e dunque è troppo grave. Per lui non c’è niente. Per gli ultimi c’era qualcosa, ma ora non c’è più nulla.

Mama Termini organizza ogni settimana una cena a cui partecipano molte delle persone che gli interventi di “ripristino del decoro” vorrebbero allontanare dalla stazione

Grandi Stazioni. l’avanguardia della sicurezza

Quando mia sorella ha postato su Facebook la notizia che avrebbero murato il sottopasso che collega via Marsala e via Giolitti – definito pericolosissimo perché abitato – un signore ha commentato che lui era dispiaciuto ma che il problema c’era, che lui la mattina passando di lì portando i bambini a scuola li vedeva, che la situazione non era bella. Portando i bambini a scuola. Come mai il problema di chi non ha una casa è il problema di un signore che porta dei bambini a scuola? Come mai il problema di chi non ha una casa è sempre, immancabilmente, il problema di chi una casa ce l’ha?

In quegli stessi giorni è accaduto un altro fatto: una donna con tre figli, di 1, 3 e 5 anni, ha trascorso una notte all’aperto, in via di Porta San Lorenzo, proprio davanti l’Help Center. Ne dava notizia Roma Today in maniera inquietante: la situazione era stata risolta grazie al «cuore d’oro di due poliziotti» il cui intervento ha permesso di trovare una collocazione in un centro di accoglienza. A chiamare la polizia era stato proprio l’Help Center perché lei si rifiutava di uscire dal loro centro, non sapendo dove andare. Dunque lo sportello sociale che ha il compito di «aiutate le persone in difficoltà» – e che lavora, secondo quanto scritto sul loro sito, in collaborazione con la Sala Operativa Sociale, ha avuto bisogno di «segnalare» il caso della donna alla polizia. «Nonostante le chiamate alla sala operativa sociale, alla Caritas e ad altre strutture ecclesiastiche, tutti gli enti sono risultati però senza disponibilità di posti letto, almeno sino alla data di lunedì 26 settembre, con la donna costretta a dormire la notte fra giovedì e venerdì nei pressi della stazione».

Io mi sono chiesta cosa avrebbe pensato l’uomo così preoccupato delle persone che dormono per strada mentre la mattina accompagna i figli a scuola di una mamma costretta a dormire per strada con tre bambini piccolissimi perché il Comune di Roma non riesce a trovare loro una sistemazione.

Nessuno si lamenta (eccetto me, a quanto sembra, ogni volta che mi capita) del fatto che per prendere un treno siamo sottoposti a misure da aeroporto, a tornelli elettronici, file interminabili, zone sbarrate sorvegliate dagli scagnozzi di Grandi Stazioni. Tecnicamente si chiama Protezione Aziendale, si tratta di figure simbolo della nostra modernità, perché sono agenti incaricati dell’ordine pubblico al servizio di una compagnia privata. Nessuno si chiede, a mi sembra, che fine fanno i dati raccolti da Grandi Stazioni ogni volta che passiamo mettendo il biglietto sul codice a barre. (Io me lo sono chiesto una volta che ho deciso di passare urlando anziché usare il biglietto. Da quando ho traslocato in una zona lontana dalla stazione ho perso una quantità di treni perché il trasporto urbano a Roma non è al collasso, è già collassato, anche se non ce lo stiamo dicendo. Quindi arrivando un giorno per puro miracolo in orario e trovando una fila interminabile che non aveva senso di esistere, perché l’unico motivo per cui la fila si crea è che le persone devono passare il codice sul sensore, e come in tutti i casi in cui è implicata questa mirabolante tecnologia il sensore non funziona, ho avuto chiaro che l’unico modo in cui avrei evitato di perdere il mio treno sarebbe stato mettermi a urlare, e ha funzionato. E sul treno mi sono chiesta come mai non lo facciamo sempre, ogni volta in città ci troviamo la via sbarrata da un sensore, che è quasi sempre accompagnato da un uomo enorme vestito di nero che è pagato per controllare che noi quel sensore lo stiamo usando nella maniera giusta).

Ciò a cui dovremmo pensare è la digitalizzazione della sicurezza, non tanto nella logica astratta del controllo, quanto perché si tratta di un futuro in cui la sorveglianza è al servizio del profitto. La digitalizzazione della città significa una serie di transazioni registrate, di dati custoditi su cloud. Negli Stati Uniti, Amazon si finanzia quasi interamente affittando spazio cloud, perlopiù al governo americano, al Pentagono – sui suoi server ci sono i dati biometrici di tutta la popolazione americana. Per rendere l’idea del giro di affari bisogna pensare che il settore della vendite di Amazon è storicamente in perdita, che l’unico settore che rende Amazon la più grande piattaforma al mondo è Amazon Web Services, che vende servizi di cloud computing, spazio che serve a custodire dati che noi generiamo. Bisogna tenere a mente che AWS è nata come piattaforma dedicata alla gestione dell’infrastruttura interna di Amazon. La sua commercializzazione, la sua esternalizzazione, se vogliamo, segue un tracciato preciso. Quello secondo cui le prime cinque compagnie al mondo – esclusa Saudi Aramco, sono Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (ovvero Google) – creano prodotti che diventano indispensabili. Per usare lo spazio pubblico è indispensabile oggi avere uno smartphone, inventato e commercializzato dalla multinazionale più grande del mondo.

Sono tracce, sono pezzetti di noi, cose che facciamo in pubblico. Il punto non è il controllo, che è una nozione troppo generica. Il punto è: immagina di attraversare la città, immagina che ogni passo che fai produce dati, immagina che questi dati siano custoditi da qualcuno, immagina che questo qualcuno stia facendo profitti dallo spazio che attraversi e dalla strada su cui cammini.

Questa strada non è più un esterno, non è un fuori, questa strada si trova ora dentro qualcosa. Questa strada è pattugliata, è osservata da mille telecamere che appartengono ad agenzie che lavorano per compagnie private che da questa strada ci ricavano un profitto. Quando ci hanno tolto la stazione non è successo nulla – un mio vicino, a dire il vero, ha litigato, voleva accompagnare la compagna piena di borse e la figlia piccola al binario. Non si può. Tornò a casa furioso. Ci siamo abituati a presìdi mostruosi, tornelli, guardie e cani, ma la verità è quei tornelli servono a fermare i poveri. La sicurezza è una facciata, è apparsa con l’alta velocità, con i lounge di Italo, all’epoca in cui il capotreno si trasformava in train manager. La sicurezza segna i confini di tutto ciò che diventa privato.

(La stazione è anche il Moloch che ha un cantiere illegale, a cui si accede da via Porta San Lorenzo, in cui si smistano materiali, anche tossici, a tutte le ore, della notte soprattutto, in barba a qualsiasi regolamento. Trovandosi questo cantiere proprio davanti le nostre finestre abbiamo provato di tutto, esposti, telefonate, siamo andati di persona, una volta abbiamo interrotto i lavori. È arrivata la Digos. Eravamo in piena pandemia. Indossavano delle orribili mascherine con la bandiera italiana. Anche in questo caso, nessuno può fare niente).

«Il decoro per noi è non abbandonare chi non ha niente, è difendere chi viene attaccato in strada. Decoro per noi è esserci, è essere una comunità che non guarda da un’altra parte quando vengono commessi dei soprusi. Questi muri di cemento non sono solo architettura ostile, sono uno schiaffo in faccia a chi già non ha nulla», dichiarano gli organizzatori

Chi fa la città

N. è tornato a casa dal fratello. È comparsa una foto di lui, sorrideva, era un foglio appeso al cancello del parco. Sotto c’era scritto che stava bene. C’era scritto «Grazie a tutti i volontari che lo hanno aiutato. Restiamo umani». C’era stata una piccola raccolta fondi per comprargli il biglietto, era girato un iban nelle chat. Hanno aiutato le persone singole, le associazioni, i comitati. Nessuna istituzione cittadina. Nessuna istituzione o servizio che paghiamo con le nostre tasse affinché esistano soluzioni che non dipendano solo dal «buon cuore» di qualcuno.

Non c’è niente. Continua a suonarmi dentro (i tagli, ai servizi, al personale. Un giorno sono andata al pronto soccorso al Policlinico. Mentre aspettavo mi sono guardata intorno. Li conoscevo tutti. Vengono qui quando fa freddo, per dormire, riposare, mangiare, poi tornano in strada). Mi suona dentro la fatica, nel deserto delle istituzioni – i servizi c’erano, non ci sono più. Quello che c’era e che oggi non c’è più non lo sa il signore che porta i bambini a scuola perché lui quei servizi non li ha mai dovuti usare. A me dispiace per quel signore che molto probabilmente prende il suo treno per andare a Milano senza battere ciglio quando passa i tornelli. Mi dispiace che lui non si sia mai dovuto occupar della strada in cui vive, che non si sia mai trovato a dover veramente aiutare qualcuno, fare telefonate (quanti di noi che abitano o hanno abitato a San Lorenzo hanno i numeri dei vari assessori salvati sul telefono), a chiedere come mai non c’è niente. Mi dispiace per lui perché non ha capito, nella semplicità dei sui gesti, nel suo modo di attraversare la città, di spostarsi senza mai sapere dov’è che si trova, cos’è che gli stanno portando via.

Il sottopasso verrà murato. Il signore che crede che la questione della casa si risolva con i muri, anche se l’ha detto gentilmente, non riesce probabilmente a capire il tipo di sconfitta che questo significa per la città intera. Cosa significa per lo spazio tutto, quello pubblico, quello che crediamo sia spazio pubblico.

Nulla esiste così com’è, ogni cosa è fatta, da qualcuno. Quello che mi conforta è sapere che questo accade vicino a San Lorenzo, non in un punto qualsiasi della città, in un punto più feroce. Mi conforta perché in qualche modo il quartiere, come ha sempre fatto, accoglierà anche questo urto, questa piccola onda che sta per arrivare. Ridisegnerà gli spazi, si darà da fare. Contro e nonostante chi crede di governarli questi territori. Contro chi non sa che lo spazio pubblico è garantito solo da chi ci abita, con o senza un tetto. E che sono le persone senza-tetto a occuparsi dello spazio per noi, delle strade, delle fontane, dei prati, delle panchine, quando non ci siamo, quando non vediamo, quando non ci accorgiamo che, se in un punto della città c’è qualcosa anziché il nulla, è perché qualcuno se ne è preso cura.

Tutte le immagini di Lorenzo Boffa (qui il canale Instagram con i suoi scatti)

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