MONDO

Sulle rive del Giordano

Al di là di rabbia e indignazione, proviamo a definire i nuovi termini dei conflitti mediorientali, dopo che Isis ha rovesciato la scacchiera dove finora avevano giocato da maestri Usa, Israele e Arabia saudita. Protective edge: il margine di protezione si è ormai esaurito.

La razionalità politica ha ben poco a che vedere con la giustizia, piuttosto con un calcolo degli effetti probabili dell’azione. Dunque, al di là di una valutazione morale non districabile da rapporti di forza e ideologie soggettive, la si può riscontrare o meno in strategie molto diverse, considerate sul medio termine. La strategia israeliana di governo sugli arabi interni, annessi e confinanti, strategia fondata sulla divisione sistematica degli antagonisti e la disseminazione degli insediamenti in Cisgiordania fino a rendere impossibile ogni unità nazionale dei palestinesi, ha posseduto un grado di razionalità politica per un periodo molto limitato, in alternativa a una vera trattativa comprendente il riconoscimento del nemico e un qualche ordinamento statale dei territori aggiunti all’originario nucleo assegnato dall’Onu allo stato di Israele nel 1948.

Naturalmente assumiamo l’esistenza di Israele per un dato di fatto, quale che fosse la sua legittimità e i modi di consolidamento parecchio sbrigativi fin dalla nascita. Non vogliamo considerarlo né un risarcimento dell’Olocausto (a spese non dei responsabili ma di una terza parte) né un’immissione coloniale estranea al MO, cui da secoli apparteneva in senso storico-religioso. Abbiamo una formazione artificiale come altre nella zona, frutto di un misto di sopraffazione, interessi coloniali e petroliferi, volontà nazionali, giochi dinastici e con una componente religiosa fortemente accentuata rispetto ad altre aree –ne vedremo in seguito gli imprevisti sviluppi. L’«entità sionista» aveva la stessa brutale artificiosità degli stati limitrofi, nati a tavolino con il trattato segreto Sykes-Picot del 1916, la stessa legittimità delle monarchie hascemita e saudita, della divisione fra Siria e Libano, del mosaico iracheno. Per paradosso, i popoli più “autoctoni”, curdi, assiri e armeni, erano proprio quelli rimasti senza stato, nella diaspora delle persecuzioni.

La maledizione aggiuntiva all’ordinaria spartizione coloniale dei resti dell’impero ottomano consistette nelle pretese nazionali dei popoli del Libro, che intendevano legittimare terra e idrocarburi nel sottosuolo con la Bibbia (Antico Testamento per Israele, Nuovo per il Libano) e il Corano, nelle due varianti sunnita e sciita. Con l’inevitabile coda di genocidi per minoranze, dissidenti e infedeli e l’interessata interferenza dei “laici” occidentali a caccia di materie prime e posizioni geopolitiche sulle via da Suez all’India e dal Caucaso al Bosforo.

La politica dello stato di Israele –gestita in modo non pubblico, attraverso il poderoso e intelligente apparato del Mossad– ha seguito due canali preferenziali: l’incremento dell’immigrazione ebraica, dopo la prima ondata spontanea in conseguenza delle stragi razziali della seconda guerra mondiale, e la divisione sistematica dei nemici interni e sul confine. Fino a un certo punto tali operazioni sono state condotte con una spregiudicatezza al limite del crimine ma con altrettanta razionalità politica, ovvero secondo corrispondenza dei mezzi ai fini: nel primo caso favorendo i pogrom ottusamente scatenati dagli Arabi nell’Africa del Nord e in MO per attirare all’Aliya le popolazioni sefardite minacciate, nel secondo raddoppiando i successi militari sul campo con lo sfruttamento del doppiogiochismo giordano ed egiziano.

Una volta stabilizzata la situazione geopolitica e praticamente arrestatosi (sino alla disintegrazione dell’Urss) il flusso migratorio, il Mossad ha svolto la sua parte dentro l’interminabile “processo di pace” puntando a dissolvere l’egemonia di al-Fatah dentro l’Olp, appoggiando tutti i suoi contestatori e stringendo d’assedio Arafat in Ramallah fino al probabile assassinio, per passare poi all’invenzione di Hamas, la cui artificialità è pari all’incapacità di controllo delle sue componenti. L’abbandono di Gaza fu un capolavoro per mettere una spina nel fianco all’Autorità palestinese, costituendo l’alternativa del non compianto Sharon a un’effettiva trattativa di pace, il cui promotore più sincero, Yitzhak Rabin, aveva fatto una brutta fine.

L’attacco ad Hamas, avviato massicciamente a partire dal dicembre 2009, mirava soprattutto a mantenere diviso e sotto schiaffo il campo palestinese più che a liquidare il problema. Il vero sforzo dello stato israeliano si volse piuttosto a una politica selvaggia di insediamenti in Cisgiordania e a convincere gli Usa a bombardare i reattori nucleari dell’Iran. Sembra che in entrambi i casi il Mossad (e la razionalità malvagia ma politica) non fossero della partita. Il Mossad, come altri servizi mediorientali e non, è una struttura “tecnica”, cioè di assassini non fanatici.

Adesso che Hamas, costola palestinese della Fratellanza musulmana sanguinosamente repressa in Egitto, messa all’angolo in Giordania e boicottata dall’Arabia saudita, ha il solo sostegno del Qatar ed è stato costretto a riavvicinarsi ad Abu Mazen, la decisione israeliana evidente di farla finita con Gaza emerge in tutta la sua feroce irrazionalità. Anche Jahvè, come gli Dei olimpici, acceca coloro che vuol perdere. La rovina di Hamas –cui altrettanto ottusamente mira la dittatura egiziana di al-Sisi– libera infatti quelle schegge integraliste destinate a gravitare intorno al nuovo polo attrattivo di Isis, oggi insediato da Deir-el-Zor fino alle porte di Baghdad e che già da mesi si è infiltrato nella striscia di Gaza con la formazione di cellule armate e sporadiche manifestazioni funerarie. Significativo che gli esponenti palestinesi salafiti si siano dissociati dalla scomunica che al-Zawahri, in qualità di leader di al-Qâ‘ida ufficiale, ha lanciato contro il Califfato di al-Baghdadi. Hamas, dal canto suo, nega che Isis sia presente dentro Gaza, adducendo anche la dichiarazione molto loffia di Isis stesso, che la questione palestinese non sarebbe “per ora” fra le sue priorità. Ben diverso l’atteggiamento degli osservatori indipendenti, che registrano non solo la reviviscenza di un’opposizione islamista ad Hamas (ne fu vittima Vittorio Arrigoni), ma una rapida diffusione di consenso nella delusione per altre forme di resistenza.

La stessa Israele, terrorizzata da un possibile cedimento della Giordania, progetta di schierare il suo esercito sulla riva del Giordano, trasformando l’intera Cisgiordania, già colonizzata con gli insediamenti a macchia di leopardo e tagliata da strade blindate, in un enclave senza più comunicazione con altri stati arabi, come denuncia il filosofo pacifista israeliano Uri Avnery.

Torniamo adesso alla razionalità politica e al suo (ahimé) maggior depositario in Israele, il Mossad, in particolare alle affilate considerazioni che un suo ex-capo, Efraim Halevy, ha scritto pochi giorni fa (http://www.ynetnews.com/articles/0,7340,L-4537532,00.html), con il grafico titolo Hamas in Gaza preferable to ISIS in Gaza e la pragmatica precisazione che in determinati casi bisogna ascoltare the mind e non the heart. Premettiamo che Halevy non fu uno stinco di santo nelle sue prestazioni operative e che la sua priorità resta la difesa e l’egemonia regionale di Israele. Egli dubita però che, in materia interna, ciò possa conseguirsi negando una reale indipendenza politica ai palestinesi e a una loro forma di stato, e che, in materia internazionale, la sicurezza di Israele possa essere garantita dalla distruzione della potenza militare dell’Iran. Si è in passato opposto alla sollecitazione dei bombardamenti Usa sulle centrali nucleari iraniane (sembra un personaggio del serial Homeland) e oggi è scettico sul progetto Netanyahu di erigere una barriera sul Giordano frantumando la Cisgiordania in bantustan di stile apartheid. Con in più il tentativo di giocarsi, al posto del tramontato asse con la Turchia, un rapporto privilegiato con il nascente Kurdistan. Questo vorrebbe dire gettarsi a capofitto in una terza Intifada, perdendo le forze palestinesi che esercitano ancora un debole controllo, sia Mahmud Abbas che i capi discordi di Hamas, e spalancando una prateria ai cani sciolti del terrorismo in via di ricompattamento sotto le bandiere nere di Isis. Per non parlare dello sconvolgimento che la creazione di un Kurdistan indipendente provocherebbe nello scenario caucasico e mediorientale e da cui non si capisce quali vantaggi potrebbe trarre Israele (ci crede solo il Foglio, brutto segno).

I

l punto cruciale è però un altro: Netanyahu crede che il califfato dell’Isis, che si sta mangiando pezzi di Iraq e Siria, vada messo nello stesso mazzo di Hamas, senza capire che si tratta di due acerrimi rivali e che allora vale la pena, malgrado tutto, di tenersi cara Hamas. Al di là del ragionevole calcolo dello 007 Halevy sulla preferibilità come nemico di Hamas piuttosto che Isis, osserviamo che qui si riproduce in piccolo la stessa dissociazione schizofrenica che ha spinto i due Bush a distruggere l’Iraq dando campo libero prima all’Iran e poi al fondamentalismo islamista, Obama a sostenere i ribelli siriani, da sempre e tuttora foraggiati dai sauditi, consegnando una parte cospicua di quel paese alle orde di Isis, Qatar, Cameron e l’irriconoscente Sarkozy a rovesciare e macellare Gheddafi a favore di una galassia di fondamentalisti che presto agiteranno anche loro vessilli neri. Bibi Netanyahu, non un super-falco ma un opportunista corrotto, vive galleggiando e non è di sicuro l’uomo adatto per la presente congiuntura.

L’esportazione della “democrazia” e la contesa sul petrolio hanno sfasciato tutto l’assetto mediorientale di origine coloniale, frantumando gli stati laici e sunniti della regione e sgombrando il terreno per un non-stato o super-stato, il Califfato integralista. Una situazione, fra l’altro, in cui la deterrenza atomica perde i suoi punti di impatto (i territori statuali da colpire o ricattare), ciò che nel medio termine indebolisce militarmente Israele e già adesso ha spinto gli Usa a soprassedere alle sanzioni contro l’Iran.

Dubito alquanto delle rivelazioni di Edward Snowden, secondo cui il Mossad avrebbe organizzato quale diversivo la formazione intensiva militare e perfino teologica del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi; però è vero che la politica sciagurata di Israele e degli Usa (e i finanziamenti sauditi) hanno generato il mostro imprevisto dell’Isis –oltre tutto ben lieto di essere stato sbarazzato aggratis dal fantasma saudita Bin Laden.

A questo punto, per un verso il conflitto sembra regredire alla dimensione pre-moderna dello scontro profetico fra sunniti e sciiti, per l’altro i fronti di guerra si insanguinano e Israele è pronto a ogni massacro per correre in modo accelerato verso la propria fine. Nell’arida striscia di Gaza e nella fertile valle del Giordano. Altro che Protective edge! Siamo in terra di apocalisse e Lutero, messo in musica da J.S. Bach (Christ unser Herr zum Jordan kam, BWV 7), aveva spiegato benissimo che il Giordano non era solo acqua (das Wasser sei / doch nicht allein schlecht Wasser), ma anche parola sacra smisuratamente ricca di spirito, acqua battesimale, e per ciò stesso prefigurante l’effusione del sangue di Cristo, un rosso flutto (ein rothe Fluth). Oggi rosso del sangue dei palestinesi, vittime non rassegnate del nostro tempo.