approfondimenti

openverse

ROMA

Sulla Tiburtina, in gita scolastica

Un percorso di appena tre chilometri riesce a raccontare un brano di città, la sua storia, le trasformazioni in atto e una stazione che, inaugurata da più di dieci anni, non riesce a scrollarsi di dosso quell’immagine di vuoto assoluto. Bisogna spingersi oltre per capire cosa succede lungo la Tiburtina raddoppiata, un anonimo quartiere periferico di palazzoni alti, punteggiato di supermercati, discount, fast food, negozi di elettronica e mobili, sale bingo e connessi compro oro

I testi che pubblichiamo sono il risultato del Workshop che si è svolto il 18 febbraio e il 18 marzo nello spazio di Esc atelier: “Raccontare la città fra urbanistica e giornalismo” parte del progetto “San Lorenzo Solidale” che si è svolto grazie al contributo della Tavola valdese. 

In quei giorni di lavoro abbiamo analizzato come si costruisce un reportage, utile a leggere e raccontare le trasformazioni urbane che incidono sulle nostre vite. Abbiamo poi attraversato lo spazio della città, con una lunga camminata da San Lorenzo alla stazione Tiburtina, guardandoci intorno con curiosità. Abbiamo lavorato collettivamente, cercando di decostruire le narrazioni dominanti sulla città, superando le contrapposizioni tra degrado e decoro, riqualificazione e abbandono, gentrification e svalutazione per abituare lo sguardo a cogliere negli interstizi del presente le possibilità del futuro.

I reportage prodotti si propongono di trasformare il racconto della città in pratica urbanistica e sociale. 

La consolare Tiburtina è scucita. Non nella sezione iniziale, quando pure esce storta dalla composita Porta omonima delle Mure Aureliane (già allora si sdoppia brevemente con la targa via Tiburtina antica) e ancor meno nel primo tratto che scorre nel popolare ed ex-alternativo San Lorenzo, fra case e postazioni di ristoro a prezzo contenuto, ma appena sbocca nello spazio vasto e slabbrato di piazzale del Verano, inquadrato dalle propaggini obitoriali del Policlinico universitario, dai capilinea degli autobus e dalle rotaie dei tram, dalla basilica laurenziana, dall’ingresso del Verano e da una sequela di inamovibili fiorai, marmorari e agenzie funerarie che ne ribadiscono l’incombenza mortuaria. Poi la strada riprende dritta e spopolata, fra il muraglione del Verano sormontato dai cipressi e una sfilza di laboratori artigianali assortiti e bassi, senza una casa, una vetrina e un bar – di notte tutto è spento e dal lato opposto si staglia la massa buia del cimitero, sperando che non si accendano fuochi fatui.

La comoda abbondanza sul lato cimitero di spazi disponibili per il parcheggio di auto, roulotte e camper desta però inquietudine, come quando cessa all’improvviso il frastuono sordo del traffico. L’assenza di gabbiani svolazzanti su cassonetti ricolmi e il mancato incontro con cinghiali conferma il carattere disantropizzato della zona. Non c’è proprio vita.

All’improvviso, dopo la confluenza con via della Lega Lombarda, il cinema Jolly e piazzale delle Crociate, la strada, anche nelle targhe, si risdoppia. A destra si impenna verso le rampe della tangenziale, si alza sopra la stazione Tiburtina e imbocca il ponte che porta alla Tiburtina vera e propria, al tratto al di là della Tangenziale e che punta al Gra, a Villa Adriana e a Tivoli. Inutile dire che è un percorso automobilistico, avventurarvisi a piedi sarebbe una follia, tipo passeggiare sulla Tangenziale – oddio, l’abbiamo fatto in corteo ed era emozionante, ma durante l’Onda ed eravamo in 30mila…

A sinistra, invece la strada, lasciatisi alle spalle il complesso residenziale a gradoni dell’Istituto Case Popolari (arch. Sabbatini, che aveva lavorato alle parti comuni della Garbatella, alberghi, bagni, ecc.) detto “Casa del Sole” e la dismessa autorimessa Atac, su cui hanno appoggiato un osceno insieme di edifici per uffici e co-working che ha usurpato il titolo di “Città del Sole”, piega sotto le case Incis (Istituto Nazionale per le case degli impiegati statali), l’appendice destinata alla bassa burocrazia sul bordo meridionale del quartiere Italia, che scivola a picco su via Tiburtina. Questo quartiere, vanto architettonico non immeritato del fascismo, aveva una struttura gerarchica. Il suo nucleo centrale, intorno allo splendido edificio postale di Ridolfi e al giardinetto di piazza Bologna, si confaceva alla media borghesia di regime e naturalmente gli è sopravvissuta, affittando appartamenti ai fuorisede benestanti. L’orlo settentrionale, affacciato su villa Torlonia, ospitava i manutengoli privilegiati del Duce – dai piani alti potevano vederlo cavalcare il mattino a torso nudo. Ai cortigiani del Re toccava invece la sezione ulteriore, oltre la via Nomentana, fra villa Torlonia e villa Savoia, oggi villa Ada. Tutto un blocco del II Municipio, che, dopo un fiammeggiante dopoguerra neofascista (ho abitato per quasi tutta l’adolescenza davanti al mitico “covo” di via Livorno), è diventato una roccaforte di Renzi, Calenda e Gualtieri.

Ma torniamo alla passeggiata storta che, dopo aver abbandonato la visuale cimiteriale e recuperato un fianco dignitosamente abitato e un altro metallico e pretenzioso, conduce infine, passato il campo Artiglio, ex-borghetto di baraccati nel dopoguerra, al piazzale Tiburtino vero e proprio, all’hub degli autobus per l’Italia centro-meridionale, dei Flixbus e Itabus a buon mercato, ma anche delle corriere che in un paio di giorni portano a svariate mete balcaniche e mittel-europee. Il disordine vitale di pendolari e fuorisede ridona un po’ di respiro e rende quasi accettabili i misteriosi oggetti conici che fronteggiano, insieme ai capilinea dei bus urbani, la facciata della nuova stazione Tiburtina (studio Desideri) – che nessuno chiama con il nome ufficiale “stazione Camillo Benso conte di Cavour”. Dietro si intravede una torre idrica di Angiolo Mazzoni, simile a quelle di Termini, ultimo resto della stazione bombardata nel 1943.

La nuova stazione si sviluppa su vari livelli: sotterraneo (servizi e metro B), piano binari e sopraelevato, da cui si scende ai binari e che unifica il settore Tiburtino vero e proprio con quello Pietralata, prima separati dalla ferrovia e accessibile soltanto dai due lati del ponte della via Tiburtina. Noi percorriamo tutta la galleria, un non-luogo aeroportuale con tanto di belvedere panoramico finale sui quartieri adiacenti e sulle aree dove sorgerà il futuro stadio della Roma, ridiscendiamo a livello terra su via Altiero Spinelli davanti al palazzone vetrato e marziano della banca Paribas-Bnl (anch’esso di Desideri), fulcro di una gigantesca opera di ristrutturazione speculativa che ha cancellato il progetto illuministico dello Sdo (Sistema direzionale orientale), di quando gli urbanisti sognavano di riqualificare il quadrante est della Capitale e ridurne l’impianto radiocentrico.

L’astronave Paribas accoppiata con la sovradimensionata stazione in realtà non ricuce l’asse tiburtino, infatti dobbiamo riarrampicarci verso il vecchio ponte per altri non-luoghi deserti.

Altrettanto deserto, del resto, era il corridoio sopraelevato sul lato Pietralata, esauriti i pochi negozi scrausi del primo tratto e diradato la clientela viaggiante, concentrata sui primi dei 16 binari passanti. L’assenza di mendicanti e senzatetto completa l’asettica natura dello spazio e se ne capisce subito il perché.

L’oppressiva presenza di telecamere e vigilantes in divisa – dieci volte quelli presenti nel molto più affollato e rischioso atrio di Termini – induce a cupe riflessioni in materia di ossessione securitaria, dissipata però dal riscontro di efficienza.

A fine traversata, quando il gruppo dei partecipanti (una ventina, perfino sotto lo standard di crimine rave) comincia a sparpagliarsi, due di loro vengono avvicinati e interpellati da un nucleo in borghese (Digos, dunque, non vigilantes), che domanda cosa stanno facendo. Invece di dichiararsi manifestanti contro il 41-bis, rispondono prontamente che si tratta di una gita scolastica (età media, me escluso, 20-25 anni), Ah, beh, allora… Non disperiamo, siamo ancora remoti da eccessi performativi di sorvegliare e punire, funzionano gli interstizi della repressione.

Si risale sul ponte, dicevamo, quindi sulla vera e soppressa giuntura della Tiburtina – nel senso che andando a piedi occorre fare tutto quel giro, mentre in auto passando per un labirinto di rampe si può arrivare dal piazzale della Stazione o dal Verano sino all’inizio del tratto suburbano della Tiburtina. Un tempo ci si perveniva direttamente e c’era perfino un tram, l’11, che partiva dalla remotissima Garbatella e si attestava all’inizio di Portonaccio, oltre il ponte. Un percorso che durava un’ora e mezzo, mentre adesso la linea B della metro che parte sotto la stazione Tiburtina, pardon Cavour, ci mette una quindicina di minuti. Però la linea di superficie (di cui si prevede, con i tempi capitolini, il ripristino fra un paio d’anni, per un tratto ridotto) adempie a funzioni non solo di mobilità (minore rispetto a una sotterranea, vantaggiosa rispetto al traffico automobilistico) ma di definizione del tessuto urbano, di immagine della città, come a Berlino, Vienna, San Francisco. Ma, senza uscire da Roma, con la funzione socializzante che svolgono il 5 e il 14 su via Prenestina o l’amatissimo tramvetto giallo sulla Casilina, non meno segmentata nel suo ingresso urbano della Tiburtina, rispetto alla più efficiente (soprattutto in prospettiva), superautomatizzata e claustrofobica M C…

Apro qui una digressione. Negli anni ’60 e ’70 (ovviamente anche prima, ma parlo della mia esperienza) la ferrovia, scavalcata dal ponte, segnava un margine della città – margine nel senso di linea divisoria, come i binari di cui parla bell hooks, che dissociavano il ghetto dove andavano a dormire e riprendersi i neri e la città dei bianchi dove andavano a lavorare di giorno, margine come ferita e apertura di resistenza e trasformazione. Nel nostro caso il ponte sulla ferrovia e Porta Maggiore e porta Furba al Mandrione erano gli accessi ai quartieri proletari e sottoproletari, alla produzione industriale e ai dormitori, i varchi in un senso da chi veniva a lavorare e trafficare “a Roma”, in senso opposto dagli attivisti politici e sindacali che si dirigevano alle grandi fabbriche, alla Voxson, alla Fiorentini, o svoltavano per via di Portonaccio verso Casalbertone, Centocelle, Gordiani, Quarticciolo, Alessandrino, Quadraro e l’immenso e fortunatamente rimosso borghetto Prenestino – il quadrante Est della Roma resistenziale e sovversiva. Oggi di tutto questo non rimane niente, non solo è segmentata e fratta la via Tiburtina fra le Mura Aureliane e la Tangenziale e la ferrovia, ma anche il tratto più propriamente esterno, dove si concentravano le fabbriche, le borgate ufficiali di deportazione fascista dopo gli sventramenti “imperiali” degli anni ’30 (il set neorealistico e “nido di vespe” di Tiburtino III, dall’antifascismo pre-bellico al brigatismo), le zone pianificate di case popolari tipo Tiburtino IV e quelle spontanee abusive post-belliche.

Scomparsa (senza rammarico) la Pietralata e il Tiburtino III di Elsa Morante e di Pasolini, scomparse le fabbriche, la cui memoria sopravvive soltanto in giardinetti e raccordi autostradali urbani, scomparsa la tipologia operaia (altro che Tiburtina Valley!) e neppure troppo accentuata la composizione popolare, multietnica e gentrificabile che connota Pigneto, Torpigna o Certosa. Resta al km. 7 l’importante episodio urbanistico e architettonico “organico” di Tiburtino IV o quartiere Ina-Case di Quaroni, Lugli, Ridolfi e altri, ceto-mediatizzato e meta di visite guidate.

Se avessimo proseguito la passeggiata oltre il ponte e alla sua vista sui binari (ancora identica alle riprese di Roma città aperta di Rossellini), non avrei neppure riconosciuto la Tiburtina raddoppiata, un anonimo quartiere periferico di palazzoni alti, punteggiato di supermercati, discount, fast food, negozi di elettronica e mobili, sale bingo e connessi compro oro.

Ma torniamo per ora all’origine della strada, alla complicata porta Tiburtina che si innesta a fine terzo secolo su un’intersezione di acquedotti e si sovrappone, scura, all’arco di Augusto in bianco travertino che precede la sistemazione in mura difensive e che si trova a un livello inferiore del terreno. La porta era chiamata anche porta Taurina o Capo de’ bove, per i due molto erosi bucrani, taurini appunto, sulla chiave interna ed esterna dell’arco. Quello di fuori è smunto, quello di dentro appare più pasciuto. La saggezza popolare l’interpretava nel senso che chi stava al centro viveva meglio di chi si arrangiava nel suburbio – è l’ordinaria struttura delle metropoli europee, il rovescio di quelle statunitensi dove è spesso l’inner city a essere povera e nera e i suburbi ricchi e bianchi. L’impressione complessiva anche solo della prima parte della passeggiata è che quella credenza popolare non fosse errata.

PROGRAMMA PER IL PROSEGUIMENTO DELLA PASSEGGIATA (STAVOLTA IN MACCHINA)

Una volta scontata la flânerie più o meno nostalgica, sarebbe importante individuare le nuove contraddizioni e domande scaturite con la deindustrializzazione (verificare dati sulla composizione occupazionale), l’indebitamento galoppante e il gioco d’azzardo, l’arrivo di immigrati, l’acutizzarsi del problema abitativo con occupazioni, sgomberi e battaglie locali della “guerra fra poveri” – fino a episodi relativamente recenti come Casalbruciato e il centro di accoglienza di via del Frantoio, nonché gli accampamenti sul lato Pietralata della stazione tiburtina (Baobab). Da zona rossa a egemonia Pci con frequenti episodi di contestazione giovanile di sinistra (dalla Fgci anni ’60 ai Tiburtaros dell’autonomia negli anni ’70) a quartiere misto ma non convertito alla destra, evoluzione elettorale (sempre in area di sinistra, ma con crescente attivismo di destra e cambi di direzione fra Pd e M5S) al IV municipio (raccogliere analiticamente dati, anche disaggregando per sottozone). Effetti presumibili della costruzione del nuovo stadio. Allargamento della visuale verso Ponte Mammolo-Rebibbia, San Basilio…

Immagine di copertina tratta da openverse, di altotemi