ROMA

Stati Genderali: «Siamo ovunque, vogliamo cambiare tutto»

Un’assemblea di movimento partecipata ed energica ha permesso di rilanciare nuovi spazi di conflitto e lotta, autorganizzati e diffusi in tutto il paese. Dall’istanza moltopiùdizan si avanza ora nella volontà di incidere nei luoghi di lavoro e di studio, di produzione e riproduzione

Sabato 11 e domenica 12 si sono svolti a Roma gli Stati Genderali LGBTQIA+ e Disability. L’appuntamento, nato alla fine della mobilitazione durante l’iter parlamentare del DDL Zan ha visto una vasta partecipazione di centinaia di persone da tutto il paese che hanno dibattuto e creato tavoli di lavoro per due giorni su temi centrali: dall’autodeterminazione di genere al lavoro, dai percorsi di fuoriuscita dalla violenza, alla comunicazione.

Sono state due giornate estremamente intense e produttive, ravvivate dal desiderio di rivedersi dopo le limitazioni pandemiche, ma anche dalla consapevolezza della sconfitta vissuta e dalla voglia di riscatto.

Abbiamo chiacchierato con Davide Curcuruto del Rivolta Pride di Bologna e con Enrico Gullo del Palermo Pride per intravedere prospettive e bilanci alla fine di un momento così potente.

Quale individuate come il risultato politico più rilevante di questa due giorni?

Davide: Vedo almeno due risultati, vi è stata una commistione di due mondi narrati come destinati a non incontrarsi mai, cioè l’associazionismo lgbtqia+ e i movimenti queer. L’ibridazione è nata a partire da contesti locali favorevoli come il Rivolta Pride di Bologna e il Palermo Pride, ma ha funzionato a livello di incontro di movimento. Un secondo risultato è stato il superamento della visione identitaria della comunità lgbtqia+, che ci ritraeva dedite a pratiche consociative in attesa di ottenere diritti non si sa bene con la mediazione di chi, in qualche modo alienate dal contesto sociale ed economico in cui viviamo. In questo incontro abbiamo invece dimostrato che viviamo nei luoghi di lavoro, nelle università, che attraversiamo una varietà di contesti e a partire da quelli conduciamo azione politica.

Enrico: A seguito dell’affossamento del DDL Zan dovevamo riuscire a ripartire da un lutto, e non è detto che i lutti siano di per sé momenti di ripartenza positiva. Questa volta lo è stato, perché è emersa, al di sopra di ogni altro bisogno l’esigenza di ritrovarsi.

Non penso sia stata una due giorni perfetta, ma da qualche parte bisognava iniziare e averlo fatto è già un grande risultato.

Rimangono questioni aperte, ad esempio fino a che punto sia una forma organizzativa sostenibile l’intersigla che tiene assieme obiettivi individuali e collettivi, o quale ruolo possono avere le grandi associazioni nazionali, e non intendo solo Arcigay. Penso che usare Arcigay come feticcio negativo ci impedisce di vedere il ruolo delle altre organizzazioni.  Queste hanno una grossa responsabilità nel decidere come utilizzare le proprie energie e risorse, anche economiche. Al tempo stesso, nelle realtà miste come gli Stati Genderali, abbiamo la responsabilità di comunicare con singoli collettivi o circoli di base delle associazioni perché sentano l’urgenza di una struttura organizzativa comune con cui poter approfondire le nostre rivendicazioni.

Il rischio è che l’intersigla diventi alla lunga uno spazio vuoto e che si torni tutti ai propri obiettivi individuali, ora questo è scongiurato da piano di lotta comune che riempie lo spazio che si è creato e speriamo si mantenga nel tempo.

Una delle sfide più grandi è stata quella di unire la questione lgbtqia+ e quella disabilità, assieme perché comune è la lotta contro la violenza che si subisce. Quale bilancio di questa intuizione e di questo esperimento?

Davide: Se consideriamo il presupposto che non siamo mondi separati e che in tant* siamo sia disabili o neurodivergenti che omosessuali, vanno evidenziate le analogie.

La norma abilista e quella ciseterosessuale hanno ampi spazi di convergenza e collaborazione soprattutto in spazi quali il lavoro e le istituzioni sanitarie. La persona disfunzionale è quella inadatta alla produzione e alla riproduzione sociale. Il sistema ha bisogno o di eliminarla o di normalizzarla.

Con questo primo esperimento ci siamo riconosciutu in queste oppressioni e nell’istanza di liberazione ma non sono mancate difficoltà, soprattutto logistiche, frutto di un budget minimo e di un abilismo interiorizzato prodotto di una socializzazione abilista e normata con la quale chiunque di noi è cresciutu.

Questo incrocio deve affrontare molteplici problemi e pratiche. Ci sono già questioni aperte dentro il movimento lgbtqi+ che ovviamente si moltiplicano quando ci si incontra con un altro movimento.

Vi è stato un problema stato organizzativo nella gestione della diversità. Abbiamo rincorso la costruzione di momenti assembleari interamente orizzontali senza comprendere che invece le persone con disabilità o neurodivergenti hanno bisogni specifici, per esempio non rimettere in discussione metodi decisionali e percorsi intrapresi come avviene in modo strutturale nei contesti puramente orizzontali. Se questo accade, può portare a situazioni potenzialmente violente. Tutto deve essere definito in modo più chiaro e netto.

Abbiamo ancora tanta strada da fare per ridefinire questa alleanza, ma è già una vittoria aver creato uno spazio politico di confronto a questo livello.

Un elemento che emergeva chiaramente nell’assemblea era la fine della predominanza uomo gay cis nell’azione politica collettiva, ma l’emergere a pari livello di altre soggettività. Cosa, a tuo parere, ha permesso questa evoluzione del movimento?

Davide: Ho sempre sofferto, anche da persona appartenente alla comunità bi+, la visione normata della queerness. Ricordiamo che fino alla fine durante l’iter di approvazione della legge ci è stato proposto di stralciare la questione identità di genere e approvare il resto del testo.

Credo che il superamento di questa visione identitaria e appiattita del movimento sia stato permesso dal legame con Non Una di Meno, che ci ha permesso di esplorare alleanze trasversali anziché trincerarci nelle identity politics.

Inoltre, le sconfitte incassate negli ultimi anni, cioè una legge sulle unioni civili al ribasso e legge Zan bocciata, sono state vissute rappresentandoci come gay middle class bianchi e abilisti.  Questo approccio politico è una sorta di ricorso storico. Silvia Rivera, donna, afrodiscendente, transgender, bi+, ha dato via ai moti di Stonewall mentre esistevano altri movimenti che invitavano alla calma e al consociativismo politico, per poi non concludere nulla. Silvia criticava già nel 1972 istanze di moderazione nell’organizzazione del Pride. Quell’immaginario ha fallito allora come adesso, vale la pena ripensarlo completamente e abbandonarlo.

Un ruolo centrale nella trasformazione che stiamo vivendo lo ha avuto la comunità transgender, la stessa che aveva, al contrario, contribuito alla visione iperidentitaria che avevamo in passato.

Enrico: Mi sorprende che parliamo del maschio gay cis in un paese senza matrimonio egualitario né leggi contro le discriminazioni e senza adozioni, cioè le rivendicazioni che hanno storicamente cementato l’omonazionalismo. Penso che in Italia si viva un divario pauroso tra la rappresentazione mediatica del gay bianco middle class da film di Ozpetek e la realtà che è estremamente differente.

Siamo pur sempre il paese del MIT, il paese che ha avuto una delle prime leggi per la tutela delle persone transgender. Il problema è il gap tra la realtà che non è così appiattita, e l’immaginario che invece ritrae solo ed esclusivamente quel tipo di omosessualità. Anche l’associazionismo più mainstream non vive solo di quell’immagine appiattita. Questa pesa in termini di presa di parola, di spazio occupato e posizionamento, ma anche al di fuori dei collettivi di movimento si trovano spazi sempre più eterogenei.

Sarebbe il caso di superare questo gap e facilitare la produzione di immaginari differenti visto che la realtà che viviamo è lontana anni luce dai film di Ozpetek.

Un ruolo grosso in questa evoluzione, anche durante la due giorni, la sta svolgendo la comunità bisessuale, con elaborazioni che ho trovato molto elevate nei singoli tavoli focalizzati su vertenze. Avevo letto articoli sull’identità bi+, ma le rivendicazioni concrete le ho capite in questi due giorni e mi sono sembrate importanti e potenti.

Il concetto di “omonazionalismo” descrive uno specifico fenomeno che ha portato molt* gay e lesbiche cisgenere nell’esercito e ai posti di comando negli USA, a patto di presentarsi rispettabili, sposat*, non infett* e non promiscu*, a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Si trattava di un nuovo patto sociale post-AIDS incardinato nella nuova strategia imperialista statunitense che ha costruito il nemico esterno del terrorismo islamico. Questa congiuntura in Italia non si è realizzata. La dinamica che si è presentata è invece quella di figure cisgenere gay, magari in drag queen, macchiettistiche e che vanno in TV, o di figure o rappresentazioni che privatizzano non parzialmente ma completamente il loro vissuto. Queste figure parlano attivamente un linguaggio ostile anche alle rivendicazioni più mainstream dei diritti LGBTQIA+, e si oppongono all’avanzamento dei diritti contribuendo alla contrattazione al ribasso di figure di potere parlamentare (Franco Grillini prima, Ivan Scalfarotto poi, da ultimo Alessandro Zan). L’omonazionalismo negli USA ha fruttato il matrimonio egualitario e le leggi antidiscriminazioni come contropartita; questo fenomeno tutto italiano invece (che io chiamo, con un termine preso da Boris, “la locura”) non ha portato da nessuna parte.

Il tavolo sul lavoro ha riposto al centro la questione di classe all’interno della lotta queer, come forse non accadeva da un po’, si è arrivati pure alla scelta di attraversare in modo critico lo sciopero del 16 dicembre. Come valuti questo risultato?

Enrico: Sono molto contento del risultato di quel tavolo che abbiamo preparato con cura, con un metodo condiviso e con una riunione preliminare tra chi avrebbe voluto partecipare. Abbiamo deciso di non lasciare troppo spazio all’autonarrazione ma di usarla per avere uno sguardo sistemico rispetto al problema, valorizzando ragionamenti compiuti negli scorsi anni nei singoli collettivi. Questo ci ha permesso di elaborare una visione comune fino alla proposta, emersa in modo naturale, di adesione allo sciopero che abbiamo portato poi in plenaria.

La questione centrale che dobbiamo porci è: l’intersezione che abbiamo ricercato tra classe, identità di genere e orientamento sessuale fino a dove ci fa arrivare? Che obiettivo ci diamo? C’è una considerazione di fondo che sblocca ogni analisi: la maggior parte delle persone disabili, neurodivergenti e lgbtqia+ è soggette a disciplina lavorativa e vende la propria forza lavoro per ottenere un salario e sopravvivere. Questo fattore ci offre una lente per aggiustare il tiro rispetto a strumenti di analisi usati in passato. Non si è discusso solo di diversity management e di rainbow washing ma abbiamo incluso nella riflessione le forme presenti di ipersessualizzazione e iposessualizzazione dei nostri corpi. Per dirla alla Foucault, la biopolitica non funziona nell’appiattimento di corpi e identità ma nella loro gestione differenziale, in questo senso quella che si esercita è una vera disciplina di fabbrica in ogni luogo di lavoro, perché gestisce le abilità presenti in ciascuno di noi (reali o meno) ai fini del miglioramento della produttività complessiva del sistema. 

Un tavolo organizzato in questa forma ci ha permesso di superare gli aspetti individuali e di giungere a ragionare su questioni lavorative più ampie. Questa analisi tutta assieme ci ha permesso di dire “scioperiamo”.

Davide: Il tavolo mi ha permesso di ricucire una ferita che mi porto dentro da piccolo, perché quando attraversavo i movimenti operai ero troppo frocio, quando attraversavo i movimenti gay ero troppo povero. Io sono entrambe le identità: io sono neurodivergente, terrone, bisessuale e povero e sono la loro somma. Sono dinamiche che interagiscono l’una con l’altra nella socializzazione così come nella ricerca del lavoro.

Queste dinamiche che ci contraddistinguono sono le stesse che poi ci fanno migrare all’interno del paese. L’attenzione al sud e alle periferie è stato un filo rosso di molti interventi anche se non abbiamo approfondito la questione della migrazione interna come avremmo voluto.

La costruzione della opposizione storica diritti civili vs. diritti sociali non solo è falsa ma è la base della sconfitta di entrambi i movimenti perché si presta alle medesime forme di disciplinamento.

Il fatto che padrone, patria e patriarca abbiano una radice comune semantica non è certo un caso. La dimensione di subordinazione nella società che viviamo è complessiva gerarchica normata ed escludente. Queste dimensioni vanno messe in discussione tutte assieme per mettere in discussione la società in cui viviamo. Noi vogliamo rivendicare di essere alterità e vogliamo mettere in discussione tutto il sistema, per un modello completamente diverso a partire da noi e dai nostri bisogni.

Nonostante l’elevata e variegata partecipazione, alcune organizzazioni storiche non hanno partecipato attivamente. C’è la possibilità di includerle in futuro in un percorso di lotta così potente e innovativo, oppure è più giusto che questo percorso rimanga interamente autorganizzato?

Davide: Gli Stati Genderali sono aperti a tuttu fin dall’inizio e continueranno ad essere tali. Un percorso autorganizzato non significa un percorso esclusivo di collettivi, ma uno che utilizza metodi prassi condivisi con cui confrontarsi. L’associazionismo non era assente, c’erano federazioni grosse di arcigay e famiglie arcobaleno, ma anche altre associazioni. Mancavano le segreterie nazionali, tuttavia la dicotomia movimenti/associazioni è stata superata dal modello che abbiamo costruito, con complicità politica nella gestione dei singoli tavoli che va oltre gli steccati e ci permette di riaggregarci come movimento superando le singole provenienze.

Quali prossimi passi avete delineato da qui ai Pride di giugno?

Enrico: Si è deciso di partecipare alle manifestazioni di giovedì 16 ma è a brevissimo e non assicuriamo una partecipazione ampia.

Abbiamo deciso invece di darci un appuntamento online a inizio gennaio, per preparare un appuntamento di Stati Genderali metà febbraio probabilmente il 14. É una ricorrenza ironica, vista la data, che ci da però tempi di riorganizzazione al netto delle possibilità pandemiche.

Il tavolo disabilità ci ha stimolato a scegliere spazi e luoghi in modo diverso. Gli sgomberi vissuti dai movimenti degli ultimi anni hanno determinato una forte difficoltà, ma rimane il tema di accessibilità degli spazi pubblici che sono nostri, anche non necessariamente centri sociali, e che diventano inaccessibili mentre invece la “normalità democratica” dovrebbe garantirli. È un punto politico che va messo a fuoco. L’impegno preso, a prescindere dal luogo (Bologna o Palermo) è di cercare di individuare nel luogo scelto spazi di decompressione, collegamento online garantito, persone capaci di essere di supporto in qualunque difficoltà si possa incontrare.

Davide: Sia le difficoltà logistiche che politiche date dall’ organizzare un momento del genere ci pongono un problema organizzativo notevole. Vorrei che gli Stati Genderali fossero un primo passo per una rete che sappia muoversi non solo per il Pride o quando ci sono leggi affossate, ma che si doti di un programma politico con cui attraversare altri spazi di conflitto, scuola, università, sindacato, fabbrica.

È emerso nel tavolo disabilità che è difficile lavorare con associazioni che si occupano del problema, perché hanno una impostazione di lavoro familistica. Ma con loro devo relazionarmi, è necessario, e per farlo ho bisogno di un piano di azione politica collettiva.

Spero che saremo capaci di dotarci di un piano politico che finisca per sempre con la visione identitaria, che faccia propria una visione ampia sul potere e dica che le voci queer devono essere ovunque, perché siamo già ovunque. Dobbiamo solo rivendicarlo.

Immagine di copertina di Lisa Capasso

Tutte le immagini nell’articolo dalla pagina facebook di Stati Genderali